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Agricoltura

L’INDUSTRIA DEL GAMBERO

L’INDUSTRIA DEL GAMBERO: UN “PASSO INDIETRO”

NEL RISPETTO DELLA NATURA E DELL’UOMO



I gamberetti vivono meglio di noi.

Hanno la corrente elettrica, noi no.

I gamberetti hanno acqua pulita, noi no.

I gamberetti hanno a disposizione grandi quantità di cibo,

noi soffriamo la fame”.

Pescatore delle Filippine


Ricordate la celebre interpretazione di Tom Hanks nel film “Forrest Gump”? Alla base delle sue fortune economiche, dopo la sfortunata avventura in Vietnam, fu la pesca “casuale” di un enorme banco di gamberetti. Quegli stessi gamberetti che rischiano ora di scatenare un ennesima guerra commerciale tra Washington e Hanoi per la decisione americana di imporre dazi altissimi contro i produttori asiatici (i pescatori di gamberi in Vietnam sono 3,5 milioni, vivono nelle campagne e dall’attività ricavano quasi tutti i mezzi di sussistenza), accusati di vendere a costi inferiori a quelli di mercato.

L’industria dei gamberetti è uno dei settori più redditizi del comparto ittico: enormi quantità di gamberetti vengono allevate nel Terzo mondo per essere spedite e consumate in Giappone, Europa e Stati Uniti. Nel 2001, secondo il World Watch Institute, oltre 4,2 milioni di tonnellate di gamberetti sono finite nei piatti dei consumatori dei paesi ricchi.

La Cina è la maggiore produttrice mondiale: nel 2000 ne ha pescati oltre 1,2 milioni di tonnellate (più del doppio rispetto a 10 anni prima e oltre 3 volte i suoi più diretti concorrenti: India, Thailandia - che è il maggiore esportatore mondiale - e Indonesia).

E proprio tra gli USA e molti Stati produttori è in atto la guerra commerciale di cui sopra che tra poco arriverà sul tavolo dell’Organizzazione Mondiale del Commercio: ci sono in ballo 3,5 miliardi di dollari di sole importazioni negli USA, i sei Paesi (Cina, Vietnam, Thailandia, India, Brasile ed Ecuador) che attualmente coprono il 74% delle importazioni statunitensi e milioni di persone, per lo più povere e poverissime, coinvolte in tutto il mondo nella produzione e nel commercio dei gamberetti.

Gravissimi sono anche i danni ecologici che questo tipo di sfruttamento delle risorse ittiche mondiali sta arrecando agli ecosistemi: gli allevamenti dei gamberetti, oltre a essere una delle industrie ittiche più lucrative sono anche tra le più devastanti al mondo in quanto utilizzano strumenti per la pesca che distruggono l’habitat sottomarino alla stregua dell’effetto delle ruspe nelle foreste tropicali, rastrellando e devastando tutto ciò che incontrano nel loro cammino.

Gamberetti: sapore di mare… dal gusto un po’ amaro

Le nostre abitudini alimentari si modificano molto rapidamente, da una distribuzione regionale, la moda di mangiar pesce ha portato prodotti ittici da tutto il mondo sulla nostra tavola. Il consumo di pesce in generale ed in particolare di gamberi non comporta però solo vantaggi, come un notevole apporto proteico con pochi grassi, bensì anche notevoli problemi ecologici, socio-economici e sanitari.

Non solo la mancanza dell'indicazione del luogo di origine e provenienza del prodotto è un elemento di preoccupazione per i consumatori, ma principalmente 3 tipi di problemi che dovrebbero far riflettere in relazione al consumo di pesce e di gamberetti:

  • i metodi di pesca in grandi quantità (pesca industriale) e l'allevamento intensivo;

  • i riflessi ecologici e sociali di tali sfruttamenti intensivi;

  • la contaminazione da residui chimici e di batteri e germi dei prodotti immessi sul mercato.

Metodi senza scrupoli nella pesca di gamberetti

Circa ¾ dei gamberetti presenti sul mercato vengono prelevati prevalentemente da natanti da pesca negli estuari, nelle baie e nelle piattaforme continentali.

Le quantità di pescato sono sempre minori, in contrapposizione ad impieghi sempre più massicci di flotte di pescherecci, che razziano il fondale marino con enormi reti a strascico. Le conseguenze di tale distruzione del fondale sono dapprima quasi invisibili, ma comportano la scomparsa o danni irreparabili ad importanti spazi ecologici - importanti anche per la riproduzione di pesci, molluschi, rettili, crostacei, ma anche di altri organismi, come il corallo e le piante acquatiche, solo successivamente avvertibili.
L'enorme pescato di pesci, tartarughe, piante marine e conchiglie (pescato accidentale) non viene utilizzato nelle pescherie di gamberetti e viene rigettato morto nell’oceano. Nelle regioni temperate il rapporto tra pescato accidentale e gamberetti è nell’ordine di 5 a 1, mentre nei tropici può raggiungere valori di 10 a 1 e oltre. Si ritiene che globalmente la pesca dei gamberetti sia responsabile di 1/3 del pescato accidentale del mondo ma soltanto del 2 % dei prodotti ittici mondiali.

Accordi internazionali per l'impiego di reti, le quali offrono al pescato accidentale una via d'uscita, vengono viste da molti pescatori solo come distorsioni del mercato. La concorrenza fra pescatori locali (pesca tradizionale) e grandi pescherie industriali è foriera di conflitti. I primi sono a ragione preoccupati per le loro aree di pesca, servono anche alla pesca industriale, ma non distruggono il fondale. Con le loro piccole reti essi pescano in genere solo gamberetti giovani, in quanto quelli più vecchi e quindi più grandi vivono a profondità maggiori. È anche per questa ragione che i pescatori tradizionali vendono il prodotto a prezzi minori.


La soluzione è nell'allevamento?

L'allevamento di pesci, crostacei, e piante acquatiche, definita come "acquacoltura" trae origine dalla cosiddetta "rivoluzione blu" avvenuta in tutto il mondo. Con questa forma di allevamento si mira a far fronte alle richieste del mercato, compensando contemporaneamente lo sfruttamento dei mari.
I problemi ecologici che ne derivano, sono però inquietanti. L'installazione di impianti di "acquacoltura" è la principale responsabile della distruzione di foreste di mangrovie, ambiente di crescita di molte specie ed importante biotopo contro l'erosione delle coste (quasi ¼ delle foreste di mangrovie tropicali ancora esistenti è stato distrutto negli ultimi vent’anni, per lo più per fare spazio agli allevamenti di gamberetti.
L'acquacoltura, di per sè una vecchia tecnica adottata nelle risaie, è divenuta dannosa in seguito al suo utilizzo intensivo (impiego di vari agenti chimici, fertilizzanti artificiali, salatura del terreno circostante), che è causa di numerosi danni all´ambiente. I bacini vengono in parte installati sulla costa. Per mantenere sani gli animali allevati, è necessario il ricambio giornaliero di 1/3 dell'acqua del bacino (costituita al 50% da acqua di mare ed al 50% da acqua dolce). Quando i gamberetti raggiungono dimensioni adatte allo smercio, i bacini vengono svuotati (e questo causa l'accumulo di sale e residui organici sul fondo). Dopo numerose raccolte, il letto del bacino rimane ricoperto da resti organici e chimici in tale quantità da costringere gli operatori all'abbandono del bacino ed alla realizzazione di un nuovo impianto altrove. Lasciando però, in tal modo, foreste di mangrovie completamente distrutte ed il terreno salato e carico di agenti chimici, la cui bonifica risulta molto costosa.

Risulta inevitabile che da questo sfondo scaturiscano anche problemi sociali e di violazione dei diritti umani. La concorrenza per il terreno, l'acqua potabile e la concorrenza per l'utilizzo di foreste di mangrovie (privatizzazione di strisce di terreno prima pubblico) alimentano problemi sociali tra la popolazione locale e le industrie del settore. L'acquacoltura intensiva necessita, infatti, di molto terreno e di molta acqua ma di relativamente poca manodopera, il che origina anche inevitabili ripercussioni sull’occupazione e conflitti con la popolazione locale (vedi riquadro) che spesso si traducono in confische di terreni, violente intimidazioni nei confronti dei pescatori locali e perfino omicidi.


La situazione riguardo qualità del prodotto ed igiene

Purtroppo, la possibilità di individuare la provenienza dei prodotti ittici non c'è ancora e tarderà sicuramente a venire. Questo riguarda anche i commercianti, i quali si devono affidare ai grossisti, i quali a loro volta si devono "affidare" al pesce. Una certificazione trasparente e soddisfacente dei prodotti di produzione internazionale (metodi di allevamento, di pesca e di conservazione) è fortemente auspicabile. I controlli nel settore della pesca si limitano troppo spesso a test sull'odore e sul sapore, finalizzati all'individuazione di eventuale pescato non fresco. Metalli pesanti, pesticidi ed antibiotici vengono invece cercati solo in occasione di controlli a campione, quando si hanno dei sospetti oppure dietro richiesta di qualche commerciante. Gli uffici competenti a livello comunitario hanno carenze di personale che impediscono loro di garantire un controllo efficace e soddisfacente. Indagini condotte su richiesta dei privati, hanno individuato diverse sostanze vietate nell'Unione Europea, che oscillano dal "preoccupante" al "sicuramente dannoso per la salute", come ad esempio il chloramphenicolo - pericoloso per l'uomo e proibito in EU - rinvenibile nei gamberetti King's Prawn.
Indagini condotte per conto di Ökotest (1997) hanno riscontrato considerevoli quantità di microrganismi (batteri e germi), sia nei prodotti freschi che in quelli confezionati. Conseguenze per l'uomo: possibilità di malessere, vomito, diarrea, febbre e di intossicazioni alimentari.

 

Cosa può fare il consumatore?

Al momento poco, purtroppo: si può informare presso il suo pescivendolo riguardo origine, metodi di pesca e di produzione. Quanto tali informazioni possano però essere attendibili e quindi rassicuranti, è alquanto dubbio.

Finchè le autorità competenti faranno poco o nulla per rendere le condizioni di produzione ecologicamente e socialmente sostenibili, il lusso del consumo di gamberetti rimane irresponsabile, e molte organizzazioni non governative invitano al boicottaggio: rinunciare al consumo di gamberetti - specialmente di quelli di provenienza dalle zone tropicali - finchè non verrà trovata un'alternativa sostenibile all'allevamento distruttivo.

Su questo fronte Banca Mondiale, FAO e associazioni ambientaliste stanno studiando possibili norme per la certificazione ambientale dell’acquacoltura, per sviluppare e promuovere sistemi che riducano drasticamente il pescato accidentale e per promuovere sistemi di allevamento ecocompatibili in grado di frenare la distruzione degli ambienti costieri consentendo alle popolazioni locali di vivere con dignità del proprio lavoro.



Bibliografia

World Watch Institute (2004): State of the World. Edizioni Ambiente.

R. Bongiorni (2004): Gamberi, una battaglia da 3,5 miliardi di dollari. Il Sole-24 ore n. 234, 25 agosto 2004, pg. 28

AA.VV. (2003): Bilancio Terra . Gli effetti ambientali dell’economia globalizzata. Edizioni Ambiente.

AA.VV. (1991): Salviamo la Terra. Editoriale Giorgio Mondatori.

J. R. McNeill (2002): Qualcosa di nuovo sotto il sole. Einaudi.

Environmental Justice Foundation (2003): Squandering the seas. London.

FAO (2003): World agriculture: towards 2015/2030. Earthscan Publications, London.


Websites


www.centroconsumatori.it

www.carta.org/cartamondo/

www.fao.org

www.earth-policy.org

www.earthisland.org

www.enaca.org

 

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Riquadro

I gamberetti indiani: un problema globale, fra diritti umani e protezione ambientale


L'industria dell'allevamento intensivo dei gamberetti in India si è sviluppata a seguito della "terapia d'urto" avviata con i sussidi della Banca Mondiale e con gli accordi di prestito sottoscritti dal governo indiano con Fondo Monetario Internazionale resi necessari per pagare gli ingenti debiti con i Paesi stranieri negli anni ottanta.

La Banca Mondiale stanziò un ingente fondo in dollari da destinare allo sviluppo dell'acquacoltura in diversi stati indiani, assicurando che un tale progetto poteva creare impiego per milioni di persone oltre a sviluppare un largo tratto di zone costiere.

Il governo indiano contribuì a tale iniziativa avviando un programma di totale liberalizzazione del mercato: eliminò i controlli e la necessità di avere delle licenze, non pose alcun limite quantitativo alle produzioni e - sostenuto dai prestiti della Banca Mondiale - estese i sussidi finanziari e doganali sugli equipaggiamenti, i macchinari, l'alimentazione dei gamberetti, e la costruzione degli impianti.

Il programma di sviluppo sull'acquacoltura dei gamberetti venne chiamato “rivoluzione blu” . Sulla scia della “rivoluzione verde”, che aveva profondamente modificato l'agricoltura indiana attraverso l'introduzione di sementi ad alto consumo (di fertilizzanti, di concimi e irrigazioni) e ad alta resa (un numero maggiore di raccolti per anno per unità di superficie coltivata), così la rivoluzione blu promise agli investitori profitti da capogiro, grazie all'introduzione di gamberetti ad alto consumo e ad alta crescita che assicurano un immediato guadagno sull'investimento fatto.

Allo stesso modo della prima rivoluzione, l'attività veniva gestita da coloro che avevano le risorse per pagare le necessarie tecnologie o che disponevano della terra per sostenere le attività.

L'impennata di crescita dell'industria dei gamberetti si trovò di fronte a un ostacolo sostanziale: lo sforzo della popolazione dei villaggi ad organizzarsi per difendere le proprie tradizioni e il proprio ambiente contro la rapida conversione delle terre agricole in allevamenti di gamberetti.

Nel 1992 i gandhiani Jagannathan e Krishnammal, insieme ai collaboratori del LAFTI (Land for Tillers Freedom) e attivisti locali intrapresero una marcia a piedi di un anno nel Distretto in cui si svolgevano le principali attività del LAFTI. Ogni giorno i marciatori si spostavano da un villaggio a un altro e organizzavano delle manifestazioni culturali e incontri serali per stimolare la formazione di comitati di villaggio intorno al problema delle terre, dell'educazione, della salute e dell'autonomia.

Lungo la costa una gran quantità di terreno fertile, tradizionalmente coltivato dalle popolazioni locali, era stata acquistata o presa in affitto dai capitalisti locali o da multinazionali per dare inizio ad allevamenti intensivi di gamberetti e moltissime persone avevano perso la loro unica fonte di reddito. L'economia in quell'area era basata quasi interamente sull'agricoltura e non c'era niente altro che queste persone possono fare oltre a coltivare la terra. Ma non è tutto.

Le vasche per l'acquacoltura vanno riempite in parte d'acqua salata e in parte d'acqua dolce, quindi queste industrie hanno iniziato a pompare acqua dolce dai villaggi creando in poco tempo scarsità d'acqua.

Per far crescere i gamberetti più rapidamente e proteggerli dalle malattie deve essere usata una gran quantità di agenti chimici, così l'acqua delle vasche si inquina rapidamente e deve essere cambiata spesso: il modo più semplice per farlo è scaricare l'acqua inquinata in mare. Per questo motivo lungo tutta la costa i pesci hanno iniziato a morire e la comunità dei pescatori ne è stata profondamente colpita. Adesso i pescatori devono spingersi al largo, ma non hanno barche appropriate e non possono di certo permettersele.

La stessa acqua delle vasche, salata e inquinata, penetra nel terreno e raggiunge le falde acquifere; molte persone nei villaggi hanno iniziato ad avere problemi alla pelle e agli occhi.

Dopo pochi anni le vasche diventano inutilizzabili e devono essere abbandonate, lasciando un terreno inutilizzabile, inquinato e salinizzato.

Un altro problema è che la foresta di mangrovie che offriva rifugio ai pesci che depongono le uova fra le sue radici, e costituiva un protezione naturale dagli uragani e dall'erosione marina, è stata distrutta lungo tutta la costa per costruire le vasche.

Guidata dai gandhiani Jagannathanm e Krishnammal la popolazione locale si organizzò in un movimento nonviolento di protesta che riuscì a portare la causa dei gamberetti di fronte alla Corte Suprema Indiana.

Per essere aiutati a decidere tra affermazioni e documentazioni molto contrastanti in proposito, i giudici richiesero che un istituto di ricerca governativo svolgesse un'indagine per esaminare l'impatto ambientale e sociale degli allevamenti di gamberetti sulle coste.

I risultati dell'indagine misero in evidenza i danni causati da questa attività, e alla luce di questo rapporto la Corte vietò la conversione di terra agricola ad allevamenti di acquacoltura e bloccò gli allevamenti in una parte del Tamil Nadu.

Questo fu un successo per il movimento del LAFTI e per gli ambientalisti - anche se relativo: le pressioni politiche e gli interessi economici sono molto forti e di fatto la questione è - tra processi e ricorsi - attualmente ancora aperta perchè, come Jagannathan ha sostenuto in varie occasioni, "gli Atti di Stato e gli ordini della Corte Suprema" rimarranno sulla carta se non si crea il potere della popolazione".


Per far conoscere e appoggiare i progetti già avviati dal LAFTI (Land for Tillers Freedom) in India, Overseas e il Centro Studi Sereno Regis di Torino hanno promosso la pubblicazione della loro biografia curata da Laura Coppo presso l'Editrice Emi ( 2002, pagine 223). Il libro può essere richiesto a: OVERSEAS onlus - Via Castelnuovo R.ne, 1190 - 41057 Spilamberto (MO) Telefono: 059-785425 mobile 348 2518421  E-mail: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

 

 

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IL GEORGE W. DELLE NOCCIOLINE

IL GEORGE W. DELLE NOCCIOLINE

La storia di George Washington Carver: da schiavo a scienziato benefattore dell’umanità



Nato a Diamond Grove nel Missouri nel 1864, era figlio di una schiava, Mary, che apparteneva alla famiglia Carver. Il padre, schiavo anche lui di una fattoria vicina a quella dei Carver, rimase ucciso in un incidente quando il piccolo George era ancora un bambino.

La sua infanzia fu anche tragicamente segnata dal rapimento a cui fu sottoposto insieme alla madre e al fratello James da parte di alcuni soldati confederati datesi alla macchia: dato il loro aspetto macilento i due ragazzini furono presto rilasciati e, rimasti così orfani, furono adottati dai coniugi Carver che diedero loro la possibilità di frequentare una scuola per persone di colore in un paese vicino.

A 13 anni George decise di lasciare il Missouri per il Kansas dove, mantenendosi con piccoli lavori, completò gli studi superiori: ma la sua sete di sapere lo indusse nel 1885 a tentare di accedere all’Highland College da cui fu rifiutato perché nero.

Solo qualche anno più tardi gli fu possibile frequentare il Simpson College nell’Iowa e successivamente l’Iowa State University dove ottenne il Master in agricoltura, segnalandosi per le sue doti intellettuali e didattiche.


Terrone”… per vocazione

Il suo desiderio di aiutare altri giovani di colore desiderosi di studiare lo indusse, nel 1896, ad accettare la direzione della sezione di Agricoltura del Normal and Industrial Institute di Tuskegee in Alabama.

Quando arrivò a Tuskegee Carver si trovò di fronte numerose sfide: mancanza di strutture e di fondi disponibili per il suo dipartimento (un granaio, una mucca e pochi polli: questa la dotazione iniziale!); la povertà e la malnutrizione diffuse tra i coltivatori neri locali; una mancanza di interesse tra i giovani per lo studio dell’agricoltura, che molti degli allievi associavano alla mezzadria e alla povertà, e quindi il loro maggiore interesse per discipline tecnico-industriali o commerciali che poi avrebbero consentito loro di lavorare nelle grandi città.

A Carter bastarono poche settimane per rendersi conto che il principale problema di quella terra piatta, una volta assai fertile, che si estendeva per centinaia di chilometri quadrati attorno alla piccola città era dovuto all’impoverimento del suolo. Semine monotone di un solo prodotto, il cotone, un anno sì e uno no, avevano ridotto la fertilità della terra da una generazione all’altra.

Per controbattere la lenta spoliazione che impoveriva migliaia di mezzadri, decise innanzitutto di allestire una stazione sperimentale con un laboratorio per le analisi del terreno e di fornire ai suoi allievi e agli agricoltori che frequentavano le sue lezioni le basi scientifiche della moderna agronomia: botanica, chimica e studio dei suoli.

Per oltre un decennio Carver lavorò quotidianamente su appezzamenti di terra sperimentali per sperimentare l’efficacia dei più disparati fertilizzanti naturali disponibili in loco (foglie marce di foresta, melma degli acquitrini, letame di stalla) fino ad allora completamente trascurati in favore dell’uso dei fertilizzanti sintetici in commercio.

Carver inoltre introdusse nella rotazione delle colture l’utilizzazione delle arachidi, leguminose fissatici di azoto, che consentirono ai suoli di recuperare parte della loro fertilità. Se fino ad allora il loro unico impiego era stato come cibo per maiali, dovevano pur avere qualche utilità per l’alimentazione umana: il giovane professore negro ne studiò a fondo la composizione chimica scoprendo che l’arachide aveva le stesse proteine della bistecca di manzo e gli stessi carboidrati della patata e che era possibile estrarne 7 diverse varietà di olio. Quell’umile frutto della terra poteva dunque dare un contributo sia al problema della perdita di fertilità dei terreni e che alla malnutrizione e alla salute delle popolazioni del sud rurale degli Stati Uniti!

Quando il rettore dell’Università della Georgia, W. B. Hill, giunse a Tuskegee per vedere con i propri occhi se era proprio vero che un professore negro aveva tanto talento quanto si diceva in giro, dichiarò che l’esposizione del problema agricolo meridionale, fatta da Carver, era “la migliore conferenza alla quale avessi mai avuto l’onore di assistere”.

Viaggiando per tutte le zone rurali dell’Alabama, Carver indusse con le sue conferenze gli agricoltori ad alternare il cotone alla soia e alle arachidi e si ingegnò a trovare tutti gli usi che fosse possibile ottenere dalle noccioline, riuscendone a sviluppare oltre 300 prodotti diversi!

Carver insegnò nelle sue lezioni, rivolte anche alle mogli dei contadini, come conservare e trasformare le noccioline in farina, in burro, in formaggio ottimo per preparare pasti saporiti e bene equilibrati nutrizionalmente oltre che economici: se per fare 5 chili di burro ci volevano 50 chili di latte, con 50 chili di arachidi si potevano fare 17 chili di burro.

Molti coltivatori neri del Sud non avevano mai preso in considerazione il consumo del pomodoro, per molti ritenuto tossico: Carver ne spiegò il valore nutritivo e mostrò loro parecchie ricette in cui poteva essere usato. Lo stesso fece anche con altre colture innovative come la batata (una pianta rampicante tropicale di cui gran parte degli americani non aveva mai sentito parlare e che oggi è meglio conosciuta come “patata dolce americana”) e il pecan, sviluppando oltre 100 usi diversi per ciascuna di queste due piante.

Allo scoppio della Prima Guerra mondiale, Carver orientò i suoi studi verso la scarsità di materie coloranti: da foglie, radici, steli e frutti di 28 piante spontanee diverse creò 536 tinte da usarsi per colorare lana, cotone, lino, seta e persino cuoio. Ma solo quando si sparse la voce che all’Istituto di Tuskegee risparmiavano 100 chili di frumento al giorno mescolando due parti di farina comune con una nuova farina derivata dalle batate che l’eco delle sue ricerche si diffuse sulla stampa nazionale con titoli di rilievo in tutti gli Stati Uniti.


Ori e … allori

Nel 1916 fu eletto membro della Royal Society britannica (un onore riservato a pochi cittadini USA) e solo nel 1923 ricevette la medaglia NAACP dall’Associazione Americana per l’Avanzamento delle Scienze per i suoi contributi all’agricoltura. Fu amico del Mahatma Gandhi e di tre Presidenti degli Stati Uniti (Theodore Roosevelt, Calvin Coolidge e Franklin Delano Roosevelt) nonché consulente agricolo del governo russo e di molti altri Paesi in tutto il mondo.

Carver visse sempre in maniera molto frugale, accettando soltanto una piccola parte del suo stipendio e donando i risparmi di una vita di ricerche ad un fondo a lui intitolato, destinato allo sviluppo della ricerca agricola.

Carver, che creò fortune per migliaia di persone, brevettò soltanto 3 delle oltre 500 sue invenzioni derivate da prodotti naturali (peraltro dopo la sua morte, nel 1943, e a favore dell’Istituto di Tuskegee). Quando industriali e politici dalla mente pratica gli ricordavano che avrebbe potuto fare un sacco di soldi se si fosse garantito l’esclusiva, egli rispondeva semplicemente: “Dio non ci ha mica presentato il conto quando ha fatto le noccioline. Perché dovrei guadagnarci io per i loro derivati?”

Eppure, in piena Grande Depressione (era il 1930) il valore dell’arachide, un tempo bassissimo, si era tramutato, grazie alla chiaroveggenza e all’operosità di Carver, in una rendita di 250 milioni di dollari per gli agricoltori del Sud: il solo olio di arachide era valutato in 60 milioni di dollari all’anno e il burro di arachide si affermò come uno dei cibi preferiti anche dal più povero bambino americano.

Carver scoprì anche che l’olio di arachide aiutava i muscoli atrofizzati dei poliomielitici: i risultati furono così sbalorditivi che egli dovette riservare un giorno al mese per curare i pazienti nel suo laboratorio, senza peraltro mai farne un business.

Questa caratteristica di mettersi da parte, rinunciando ai propri diritti, fu incomprensibile per due suoi contemporanei e geni inventivi, i quali, a differenza di Carver, furono uomini astuti e pratici fino al punto di voler comprare i suoi servizi. Thomas A. Edison disse ai suoi soci che “Carver valeva una fortuna” e avallò la sua dichiarazione offrendogli un impiego ad uno stipendio astronomico che lui naturalmente rifiutò. Henry Ford, il quale riteneva Carver “il più grande scienziato vivente”, cercò di attirarlo nel suo stabilimento di River Rouge, con eguale insuccesso.


Integrare scienza e fede

In molti si chiesero da dove Carver traesse spunto per le sue ricerche, il perché dei suoi successi di scienziato.

La sua carriera fu certamente segnata dalle difficoltà incontrate nella sua vita che sicuramente ne determinò alcune scelte ma ci sono elementi di tipo psicologico dei quali vale la pena di accennare.

Fin da bambino George fu attratto dal fascino del mondo vegetale: vagava per ore tra boschi e campi coltivati, esaminando piante e prelevando specie selvatiche con cui guariva gli animali ammalati.

A chi gli chiedeva come facesse a operare tali miracoli Carver si limitava a dire sottovoce: “Tutti i fiori parlano con me e così fanno centinaia di piccole cose viventi che abitano i boschi. Ciò che so l’ho imparato osservando e amando ogni cosa”.

A Tuskegee ogni mattino Carver si alzava alle quattro e andava a camminare nei boschi, prima dell’inizio della giornata lavorativa, e tornava con una infinita quantità di piante, molte delle quali ignote al botanico medio, che usava per illustrare le sue lezioni. Spiegando quella sua abitudine agli amici, egli diceva: “La natura è la più grande maestra e da lei imparo meglio quando gli altri dormono. Nelle ore ancora notturne, prima del sorgere del sole, Dio mi dice i progetti che devo realizzare”.

Chi andava a visitare Carver nel suo laboratorio e lo trovava a gingillarsi al suo banco di lavoro con un ammasso confuso di muffe, terra, piante, insetti restava disorientato dalla estrema semplicità, per molti senza senso, che caratterizzava le sue risposte alle insistenti preghiere di conoscere i suoi segreti.

I segreti stanno nelle piante. Per scoprirli voi dovete amarle quanto basta.”

Ma perché c’è tanta poca gente che ha il suo potere?” incalzavano i più curiosi. “Chi oltre a lei, sa fare queste cose?”

Tutti, basta che ci credano”. Battendo la mano su una grande Bibbia che teneva sul tavolo, egli aggiungeva: “I segreti sono tutti qui. Nelle promesse di Dio. Queste promesse sono reali, reali e anche infinitamente più concrete e sostanziali di questo tavolo in cui il materialista crede ciecamente”.

Non molto prima che Carver morisse, una persona che andò a visitare il suo laboratorio, lo vide allungare le lunghe dita sensibili verso un fiorellino sul suo tavolo di lavoro. Carver si fermò e dopo un attimo di riflessione sorrise al visitatore, dicendogli: “Quando tocco quel fiore, tocco l’infinità. Esso esisteva molto prima che sulla Terra vi fossero gli esseri umani e continuerà a esistere per milioni di anni futuri. Attraverso il fiore, io parlo all’Infinito che è soltanto una forza silenziosa. Questo non è un contatto fisico. Non è nel terremoto, nel vento o nel fuoco. E’ nel mondo invisibile. Molti lo capiscono per istinto, e nessuno meglio di Tennyson quando scriveva:

Fiore nel muro screpolato

Io ti colgo dalle fessure,

Ti tengo qui, con le radici e tutto, nella mia mano

Piccolo fiore, ma se potessi comprendere

Ciò che sei, radici e tutto, e tutto in tutto,

Io saprei ciò che è Dio e l’uomo”.

Al di là dei riconoscimenti che ebbe, Carver, non fu ben visto dai suoi colleghi proprio per questa sua visione mistica dell’universo che contrastava apertamente con l’impostazione razionale e deduttiva della comunità scientifica del tempo.

Anche i giornalisti del New York Times non furono teneri con lui quando, in un editoriale del 20 novembre del 1924, criticarono i suoi metodi d’indagine, rimproverandolo che i “veri chimici” non attribuivano i loro successi all’ispirazione divina.

Il ritratto di Carver che emerge dai suoi scritti e dalle testimonianze di chi l’ha conosciuto è quello di uno scienziato che ha precorso non solo il suo tempo ma che anche nel nostro avrebbe avuto qualche problema ad affermarsi.


Perché non nascono più scienziati come lui?

Certo, oggi come oggi, nel XXI secolo non ci sono più le tragiche condizioni di vita in cui Carver mosse i suoi passi: razzismo, guerre civili, schiavitù, povertà, fame e malnutrizione, malattie sono ormai ricordi lontani.

Non avendo più da preoccuparsi di queste tematiche gli scienziati sono di fatto in una condizione disagiata: al contrario del “povero” Carver oggi sono costretti a gestire per lo più tautologici problemi di tipo amministrativo come la ricerca di fondi… per la ricerca su argomenti strampalati come i viaggi su Marte, gli incroci tra fragole e pesci, le pillole per la felicità e amenità simili con cui si affannano a produrre centinaia di pubblicazioni che probabilmente mai nessuno leggerà.

Sono sicuro che ora, conoscendo la vita e l’opera di George Washington Carver, molti nostri giovani disperati ricercatori disoccupati ed anche vecchi baroni delle scienze mai paghi di cattedre e allori affolleranno gli aeroporti per partire per lontane destinazioni, pronti a ridursi in schiavitù per sperimentare la voglia di riscatto di un essere umano o saranno disposti a lunghi e dolorosi trapianti di epidermide nera per sperimentare, sulla propria pelle appunto, cosa significa essere rifiutati ai concorsi universitari.

Sono già in molti, emuli della spiritualità di Carver, ad essere stati avvistati mentre deliravano in preda a visioni mistiche nei boschi del Missouri oppure che si sforzavano di dialogare con una confezione di piselli surgelati nei supermercati dell’Alabama.

Noi, umilmente, ci auguriamo che tutti costoro inseguino soprattutto il sogno di vedere scritto sulle proprie tombe epitaffi come quello che suggella il monumento a George Washington Carver: "Avrebbe potuto raggiungere la fortuna e la fama senza preoccuparsi per nessuno, ha trovato la felicità e l’onore nell’ essere utile al mondo."


Fonti

Rackham Holt, George Washington Carver: an american biography (1943).

Shirley Graham e George D. Lipscomb: George Washington Carver, Scientist (1944).

Peter Tompkins, Christopher Bird: The secret life of plants (1973)

Linda O. McMurray: George Washington Carver: scientist and symbol (Oxford Univeristy Press, 1981)

Gary R. Kremer: George Washington Carver in his own words (University of Missouri Press, 1987)

The World Book Encyclopedia (1969)


Websites

www.nps.gov/gwca/expanded/main.htm

www.africana.com

www.luminet.net

www.graceproducts.com/carver/carver.html

www.angelfire.com/md/aasp/jerry.html

 

 


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VOX CLAMANS IN DESERTUM

VOX CLAMANS IN DESERTUM

Considerazioni sulla lotta contro la desertificazione delle coscienze che fa avanzare i deserti

(articolo pubblicato sulla rivista "Cultura e Natura" n. 2 (2000)

 

In un mondo sempre più cinico che sta sperimentando sulla pelle dei più poveri ed emarginati la dura “legge del mercato” che premia ma , al tempo stesso, punisce chi vi si adegua rinnegando la sua umanità, avanza un nemico difficile da combattere.

Un qualcosa che è dentro di noi ma i cui effetti sono fuori di noi...

Il deserto nelle coscienze genera paesaggi desolati, in cui la vita è assente, in cui lo spirito dell’uomo che osserva la natura non può che disperarsi per ciò che non ha creato, per ciò che ha distrutto.

La desertificazione è lì fuori, ormai non troppo lontano dalle nostre metropoli evolute, a testimoniarci l’incuria, l’abbandono, l’inerzia o, peggio, l’inetta presunzione di onnipotenza con cui abbiamo trattato la nostra Madre Terra.

Le cause ormai sono chiare: la scienza ce lo conferma (vedi scheda) ma richiede altre prove, altre certezze irrefutabili prima di esporsi, prima di alzare il suo “grido di dolore” in un mondo come quello di oggi, dove, paradossalmente, basiamo tutto sulla comunicazione ma in cui siamo così restii ad ascoltare le voci fuori dal coro di chi non ha niente da vendere nel mercato globalizzato.

All’interno di esso troverete anche chi, basandosi sulle disgrazie altrui - come nel recente Forum mondiale per l’acqua dell’Aja - paventa l’avanzata del deserto come spauracchio per aggiudicarsi più in fretta il mercato sempre più appetito dell’acqua. Acqua che diverta merce di scambio, “bisogno umano di base” (e come tale da soddisfare...a caro prezzo) e non più “diritto umano e sociale di base” di cui garantire almeno un libero accesso.

L’ipocrisia degli Stati sedicenti “democratici” - che orientano il destino dei loro “sudditi” attraverso un’educazione del tutto priva delle cognizioni di base atte a prevenire il dissesto del proprio territorio, le patologie legate ad un uso scellerato delle risorse idriche, la rovina di quell’esile substrato biologico a cui dobbiamo nutrimento e prosperità - è grande almeno quanto la loro operosità nel mettersi intorno ad un tavolo per risolvere una volta per tutte questo tipo di problemi.


Montagne di carta contro il deserto

Ho partecipato in prima persona alle estenuanti riunioni internazionali in cui si dibattono problemi annosi come la fame, la malnutrizione, le malattie, la desertificazione, appunto, cesellando definizioni, dichiarazioni, piani d’azione, destinati per lo più a restare vuote e macabre esercitazioni di stile intorno a fatti e cifre raccapriccianti se viste con occhi appena un pò più partecipi delle sofferenze umane

E’ impressionante vedere, dai documenti ufficiali, quanti “sforzi” vengono fatti per arginare un fenomeno drammatico quale quello che mette a repentaglio l’esistenza di centinaia di milioni di esseri umani nei Paesi più poveri della Terra.

Dalla risoluzione 32/172 dell’Assemblea della Nazioni Unite che puntava, già nel lontano dicembre 1977, ad un piano d’azione per combattere il fenomeno della desertificazione al Capitolo 12 dell’Agenda 21, il corposo frutto della Conferenza su Ambiente e Sviluppo (Rio de Janeiro, 1992), che pose le basi per la “Convenzione delle Nazioni Unite contro la desertificazione nei Paesi gravemente colpiti dalla siccità e/o dalla desertificazione, in particolare in Africa” (UNCCD) stilata a Parigi nel 1994 ed entrata in vigore nel 1996, la comunità internazionale si è dotata di strumenti giuridici e scientifici adeguati per fronteggiare quest’emergenza che però, a livello operativo, dev’essere gestita in un quadro regionale e attraverso strumenti adeguati che ogni singola Nazione deve attivare sul suo territorio.

Nascono cosi (o almeno dovrebbero farlo in tutte le nazioni parti della Convenzione) attraverso leggi di ratifica ed esecuzione della UNCCD, i vari Comitati nazionali per la lotta alla siccità e/o alla desertificazione che hanno come compito precipuo lo studio dei fenomeni oggetto e, soprattutto, l’individuazione delle linee guida per la predisposizione dei Piani d’azione nazionali con annessi rapporti.


Si uccide più con la lingua che con la spada”?

La lettura dei documenti internazionali è particolarmente interessante: prendendo ad esempio la suddetta UNCCD, nell’Introduzione vengono individuati con chiarezza i termini del problema attraverso, innanzitutto una univoca definizione dei termini e delle espressioni indicate nel testo.

Altrettanto chiari e affermativi sono, all’articolo 2, gli obiettivi, ma già all’articolo seguente, laddove si parla di principi per raggiungere gli obiettivi della Convenzione e per applicarne le disposizioni, si comincia a sfumarne la volontà attraverso l’uso del condizionale:

  • dovrebbero assicurarsi che le decisioni...siano prese con la partecipazione delle popolazioni...”;

  • dovrebbero , in spirito di solidarietà e di compartecipazione internazionali, migliorare la cooperazione e il coordinamento...”;

  • dovrebbero, in uno spirito di compartecipazione, istituire una cooperazione tra i poteri...”;

  • dovrebbero prendere pienamente in considerazione la situazione e i bisogni particolari dei Paesi in sviluppo colpiti...”.

Forse l’uso dell’indicativo sarebbe stato troppo vincolante...

Il dubbio rimane allorquando, nella Seconda parte, si dettano le disposizioni generali: sotto il titolo “Obblighi generali” le volitive azioni per aggiungere l’obiettivo della presente Convenzione sono precedute da un sibillino “secondo quanto conviene”: a chi?

La cooperazione è al centro dell’art. 4: al paragrafo 2 nei punti d, e, f, g le Parti sono stimolate ad incoraggiare tale azione comune tra i Paesi colpiti, tramite un rafforzamento della cooperazione subregionale, regionale, internazionale, oppure in seno ad organizzazioni intergovernative competenti, stabilendo “meccanismi istituzionali, se è il caso, tenendo presente la necessità di evitare doppioni”.

Ma, a giudicare da quanto emerge dal fiorire di iniziative che questa Convenzione ha aiutato a crescere, qui si rischia di “cooperare troppo” non del tutto a giovamento di coloro che si vorrebbero aiutare...

Passando, per così dire, alla fase operativa, nella “Parte Terza - Sezione 1: Programmi d’azione”, all’art. 9 si dice che: “Per adempiere gli obblighi loro imposti dall’articolo 5, i Paesi... elaborano, pubblicano o eseguono, secondo quanto conviene, programmi d’azione nazionali...”.

Si tratta, nelle intenzioni dei recensori della Convenzione di un insieme di strategie preventive e a breve, medio e lungo termine che, solo presupponendo un interesse precipuo e cogente da parte di ciascuno Stato Parte della Convenzione a impostare le sue risorse ed i suoi interessi verso uno sviluppo armonico e democraticamente condiviso, consentirebbero, se attuate realmente, un’esistenza felice e prospera delle popolazioni.

Un “volo pindarico” da parte di Istituzioni che in gran parte si limiteranno ad altri “voli pindarici” a livello di piano d’azione nazionale. Ci auguriamo di sbagliarci ma, visti i precedenti e la realtà quotidiana di tanti Paesi sedicenti “avanzati” che favoriscono lo sviluppo (soprattutto bellico) di Paesi sedicenti “meno avanzati” in lotta tra loro e non contro la desertificazione, che al contrario favoriscono ...

 


Italia: dalla teoria alla pratica...legale e non

Se, come detto, il nostro paese brilla per background culturale e legislativo nella redazione di leggi e piani assai nobili ed ispirati, non altrettanto può dirsi per la loro effettiva realizzazione.

Abbiamo già in passato dovuto occuparci di uno dei documenti citati nelle premesse del Programma nazionale per la lotta alla siccità e alla desertificazione e cioè del “Piano nazionale per lo sviluppo sostenibile”del 1993, forse il documento più bello ed ispirato ma anche quello che, perfino sul piano della divulgazione, non ha lasciato traccia di sé.

Nel caso in esame l’Italia, di solito piuttosto lenta nel recepire le istanze comunitarie ed internazionali, ha invece mostrato un’insolita solerzia nell’attivarsi: con la legge 4/6/1997 n. 170 il nostro Paese si è dotato di quel provvedimento di ratifica e di esecuzione necessario per rendere operativa anche nel nostro Paese la Convenzione sulla lotta contro la desertificazione.

Con il DPCM del 26/9/1997 veniva istituito il Comitato nazionale con il compito di seguire la predisposizione del piano d’azione nazionale nel contesto del bacino del Mediterraneo e di redigere un primo rapporto entro la fine del 1998.

Puntualmente, con la delibera CIPE n. 154 del 22/12/1998, arrivava la “Prima comunicazione nazionale in attuazione della UNCCD” a cui seguiva il 22/7/1999 la pubblicazione da parte del Comitato nazionale per la lotta alla desertificazione delle “Linee guida del piano di azione nazionale per la lotta alla desertificazione”.

Paradossalmente in questo documento, frutto di un’attività legislativa spasmodica, si evince che per combattere la desertificazione uno dei principi generali più importanti è l’applicazione e valorizzazione delle norme nazionali e comunitarie esistenti, favorendo l’attuazione da parte delle Regioni di leggi e programmi mirati.

Il Piano nazionale, deliberato dal CIPE il 21/12 1999, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il 15/2/2000, si apre con una lunghissima premessa di 4 colonne di atti, decreti, delibere, regolamenti e leggi che, almeno teoricamente, ci consentono di avere tutti i presupposti per ben operare su questo fronte, ammettendo di riuscire ad individuare correttamente tutte le competenze che regolano risorse idriche, suolo, attività agricola e forestale, rischi idrogeologici, riciclo dei rifiuti ed altri aspetti rilevanti ai fini della desertificazione.

Se poi lo Stato non ci riesce, ci penserà l’ecomafia a gestirne le fila con i risultati che si evidenziano proprio in termini, purtroppo, di degrado territoriale e culturale.


Coltivare una nuova cultura...

Ho partecipato recentemente ad un interessante ed istruttivo incontro per la presentazione di un innovativo sistema di aratura contro la desertificazione (sviluppato da un nostro valente agronomo, il dott. Venanzio Vallerani- vedi scheda) che ha visto la partecipazione di autorevoli rappresentanti della F.A.O., di tecnici della Cooperazione allo Sviluppo, delle ambasciate di numerosi Paesi e della altre agenzie dell’ONU che si occupano di queste tematiche.

Da più parti, nel corso del dibattito che ha visto la partecipazione di qualificati esperti con alle spalle anni di lavoro sul campo in varie parti del mondo, si evidenziato quanto importante sia la necessità di affrontare la lotta alla desertificazione, prima di tutto, “nella testa della gente” attraverso un educazione che punti alla prevenzione di certi fenomeni.

Sviluppare insieme una “cultura”nuova, e non già solo introdurre una nuova “coltura” può sembrare strano detto da tecnici agronomi con esperienze diverse maturate in continenti lontani, nel difficile lavoro di inserirsi in sistemi agricoli autoctoni vecchi di millenni con l’intento di apportare novità tecnico-scientifiche frutto di studi e di ricerche senza indossare i panni del neocolonialista.

Vincere la sfida contro il deserto sempre di più vorrà dire in futuro prevenire i prodromi di un degrado che ha radici lunghe nella innocente ignoranza delle popolazioni che nascono, vivono e muoiono senza sapere perchè e nella colpevole negligenza di chi manifesta la volontà politica di sottovalutare, ritardare o far finta di ignorare la necessità di prendersi cura delle basi stesse della vita e della civile convivenza tra gli uomini.

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Scheda 

Il sistema Vallerani

La tecnica tradizionale di scavo a mano di micro-bacini, diffusa da secoli in tutto il bacino del Mediterraneo e nelle isole Canarie e Capo Verde, è stata largamente adottata da tutte le Agenzie di cooperazione e considerata come una efficace pratica di aridocoltura.

Il Sistema Vallerani è un nuovo approccio tecnico e socio-culturale ai problemi del degrado ambientale, della desertificazione e della insicurezza alimentare nelle regioni aride e semi-aride del pianeta.

Sul piano tecnico il sistema si avvale principalmente di due aratri speciali che scavano nel terreno una serie di solchi a semiluna per la raccolta e la concentrazione delle risorse disponibili (acque di pioggia e di scorrimento superficiale, terra fina e materia organica).

Un trattore dotato di questo aratro è in grado di compiere il lavoro di 2000 uomini con una capacità lavorativa media di 2 ettari/ora (15 ha/giorno).

Il coefficiente medio di moltiplicazione dell’acqua e delle rese produttive agro-silvo-pastorali del sistema è 2-3 volte quello dei terreni non trattati e consente di produrre alimenti anche nelle condizioni più difficili.

La raccolta e concentrazione dell’acqua di pioggia permette la crescita di colture erbacee ed arboree che vengono seminate direttamente in loco (e non più utilizzando le piantine da vivaio, ad apparato radicale superficiale e necessitanti quindi continua irrigazione di soccorso): questo rende la riforestazione quanto più rapida, economica ed efficace possibile.

Sul piano sociale, esso solleva le comunità interessate dai lavori più duri di difesa ambientale (scavo delle buche, preparazione dei vivai, trapianto delle piantine, irrigazione delle stesse) consentendo loro di dedicarsi più facilmente a quelli leggeri e complementari.

Un rapporto non dirigistico, aperto ed interattivo, fra la direzione tecnica del programma di riqualificazione e le comunità interessate, è fondamentale per conquistare la fiducia della popolazione e per promuoverne rapidamente, attraverso una opportuna educazione ambientale, la partecipazione attiva, cosciente e responsabile alle tematiche e alle azioni di risanamento ambientale e produttivo.

Proprio in virtù della sua efficacia, economicità e semplicità applicativa - che minacciano consolidate ma superate strategie di sviluppo - il sistema Vallerani è stato fortemente avversato, sia a livello nazionale che internazionale, da una ristretta ma agguerrita schiera di tecnici.

Ciò nonostante dove è stato possibile promuovere la sua introduzione (Burkina Faso, Niger, Senegal, Ciad) nel quadro di programmi finanziati da Agenzie nazionali e internazionali (FAO, IFAD, Cooperazione tedesca, danese e svizzera) i risultati sono stati sempre estremamente positivi, in particolare per quanto concerne la produzione agro-alimentare e il miglioramento dei pascoli.

Questo sistema, nato da 50 anni di esperienza professionale vissuta con una coinvolgente umanità partecipe alle difficoltà di vita delle popolazioni che ha conosciuto, punta a realizzare nel breve, medio e lungo termine quella valorizzazione integrata delle risorse umane e naturali che, sotto il nome di “sviluppo eco-compatibile”, potrebbe arginare quel deserto che spesso segue e non precede l’arrivo dell’uomo.

Vallerani lancia ora una nuova sfida alle istituzioni: con i suoi aratri si potrebbe realizzare una fascia di 6000 km di lunghezza per 10 di profondità per fermare il fronte del deserto che avanza nel Sahel, con un costo di 300 miliardi (il costo di 10 aereoplani da guerra...).

Quale guerra preferiranno combattere i governi e le istituzioni internazionali di quest’area “calda” in tutti i sensi del pianeta? Ai posteri l’ardua sentenza...

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Riquadro

LA STANCHEZZA DELLA TERRA

Cause ed effetti della desertificazione

Le regioni aride, caratterizzate da equilibri ecologici molto delicati in quanto a causa del clima la quantità di acqua perduta attraverso l’evaporazione è superiore talvolta a quella caduta con le piogge, costituiscono circa il 47% di tutte le terre emerse.

In molte regioni aride del pianeta la qualità del suolo si va rapidamente deteriorando in modo tale da non poter più permettere la vita animale e vegetale, dando luogo a quel processo denominato “desertificazione”.

La Convenzione delle Nazioni Unite per la lotta alla desertificazione definisce con questo termine “il degrado delle terre nelle zone aride, semi-aride e subumide secche provocato da diversi fattori, tra i quali le variazioni climatiche e le attività umane”.

Circa 1/5 di queste zone ha già subito questo processo in maniera più o meno grave che ora rischia di estendersi a vaste aree in tutti i continenti: in Europa, dove sono presenti circa il 6% delle zone aride del pianeta la desertificazione ha già colpito 1/3 di queste terre - in Italia sono a rischio le regioni del Mezzogiorno, la Sicilia e la Sardegna.

Tale degrado del territorio è dovuto a varie cause:

  • naturali: caratteristiche climatiche - siccità, piogge brevi ma intense, vento;

    caratteristiche dei suoli - basso contenuto di argilla e di sostanza organica;

    fenomeni erosivi dovuti alla forma del paesaggio (esposizione solare e presenza di pendii lunghi, ripidi; presenza e varietà della vegetazione)

  • antropiche: utilizzo improprio delle risorse idriche - pozzi, sfruttamento dei fiumi, dighe;

deforestazione ed incendi;

attività agricole e zootecniche improprie - uso di macchine, lavorazioni ed

irrigazioni non idonee, monocolture, impiego di fertilizzanti e pesticidi,

pascolo eccessivo;

variazioni nell’uso del territorio - espansione delle aree urbane, abbandono delle campagne;

cambiamenti climatici indotti dall’uomo - alterazione della composizione dell’atmosfera terrestre.


La desertificazione minaccia oggi ambienti naturali e insediamenti, culture e attività produttive di oltre 1 miliardo di persone in oltre 100 Paesi contribuendo a determinare:

  • erosione dei suoli

  • impoverimento delle falde acquifere

  • tempeste di sabbia

  • danni alla vegetazione e alla fauna

  • frane ed inondazioni improvvise

  • aumento della povertà

  • esodo di popolazioni

  • incremento dell’urbanizzazione

  • aumento dei conflitti sociali ed etnici, instabilità politica, conflitti armati

  • malnutrizione, fame e carestie

  • effetti sulla salute (indebolimento delle difese immunitarie, malattie respiratorie, allergie, infezioni agli occhi).

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Recensione: L'agricoltura verso il terzo millennio

L'AGRICOLTURA VERSO IL TERZO MILLENNIO

Accademia Nazionale dell'Agricoltura - Edizioni Avenue media, Bologna, pp. 800, Euro 22


Raggruppandoli in 24 sezioni il volume esamina i temi più importanti e attuali dibattuti nel panorama agricolo nazionale e non, in un'ottica storica (non a caso il titolo è completato da un "attraverso i grandi mutamenti del XX secolo") ma decisamente proiettata nel futuro ormai prossimo che ci attende. Ne risulta un quadro assai dinamico del mondo agricolo, che sfugge spesso all'opinione pubblica, intrisa di quegli stereotipi tradizionali che relegano chi si occupa dei campi quasi in una cultura subalterna. Saranno in molti a sorprendersi nello scoprire quali e quante possano essere le chiavi di lettura della realtà agricola, sviluppate da autentici specialisti dei vari rami del sapere tecnico che sottende alle Scienze Agrarie: da quella storico-sociale di Cavazza e Saltini a quella economica- politica di Campus, Amadei e Segré; da quella giuridica di Casadei a quelle più eminentemente tecniche: dalle bonifiche (Stupazzoni e Vannini) alla selvicoltura (Bagnaresi), dall'agronomia (Landi, Toderi, Baldoni, Nastri) alla frutticoltura (Sansavini) oltre ad una serie di contributi interessantissimi sui vari aspetti della zootecnia, sui problemi della chimica in agricoltura e delle sue alternative e degli sviluppi che la meccanizzazione prima e della genetica poi hanno dato e promettono sempre più di dare all'evoluzione della produzione alimentare, non solo in termini quantitativi ma qualitativi ed etici.

 

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Recensione: Atlante d'acqua

ATLANTE D’ACQUA - Conoscenze tradizionali per la lotta alla desertificazione

di P. Laureano, Bollati Boringhieri, 2001, pp. 424, Euro 77,47


La desertificazione (o per meglio dire la degradazione dei suoli) è un problema che attualmente interessa circa il 30% della superficie terrestre ed oltre 110 paesi ed è dovuta, oltre a cause naturali, principalmente ad un cattivo uso del territorio da parte dell’uomo che si esplicita in deforestazioni, sovraccarichi pastorali e pratiche agricole inadatte. Alle drammatiche conseguenze dirette sullo stato dei terreni (si pensi che negli ultimi decenni nel mondo è andato perduto l’equivalente dell’intera superficie coltivata degli Stati Uniti) si sommano poi la perdita di risorse e di biodiversità che questo processo comporta e le tensioni economiche, sociali e politiche che ne conseguono.

Per far fronte a questo enorme problema le Nazioni Unite hanno promosso alla Conferenza di Rio de Janeiro del 1992 una specifica Convenzione per la lotta alla desertificazione volta a contrastare un fenomeno noto peraltro da secoli.

Questo splendido volume, ricco di disegni e di bellissime fotografie, testimonia come le comunità locali in diverse parti del mondo, con semplici ma ingegnose tecniche tradizionali, siano riuscite ad adattarsi ad ambienti ostili: l’autore (architetto e urbanista, consulente UNESCO per le zone aride, la civiltà islamica e gli ecosistemi in pericolo) evidenzia come gli accorgimenti sviluppati siano strettamente integrati nel contesto socio-culturale del luogo.

L’approccio tecnocratico moderno ha cercato molto spesso di applicare una tecnologia standard a ogni tipo di situazione, causando così effetti distuttivi sulle risorse e ripercussioni fallimentari sul piano sociale.

La proposta dell’autore è volta a comprendere i molteplici intrecci tra fattori naturali e culturali che caratterizzano la ricchezza dei vari modelli di sviluppo locale elaborati dall’uomo nel suo convivere con l’ambiente. La soluzione del “problema acqua” sarà, probabilmente, nella costruzione di società sia rurali che urbane più coese ed integrate che sappiano trarre dalle esperienze del passato le basi per sviluppare in maniera creativa tecnologie durevoli in sintonia con i territori in cui vivono.

 

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Piante e uomo

LE PIANTE DELL’UOMO - Erbe, arbusti e alberi coltivati

di P. Viggiani e G. Pezzi, Il Sole24Ore Edagricole, pp. 408, 1400 ill., Euro 49,50

 

Questo splendido volume sfida la nostra presunzione di conoscere un argomento solo apparentemente “banale”: le piante che l’uomo usa per nutrirsi o per trarne foraggi, fibre, materie prime per l’industria.

Vediamo prima gli aspetti quantitativi: quante specie utilizziamo per questi scopi? Trenta? Cinquanta? Centoventi? No! Gli autori ce ne presentano circa 230 specie (di cui 160 sono “umili” piante erbacee - che molti ignoranti scambiano per “erbacce”!) tutte corredate di immagini e disegni dei particolari che trasformano questo volume anche in una sorta di manuale di riconoscimento per il neofita. Ma sono presenti anche così tante piante arbustive ed arboree, prevalentemente da frutto, da invogliarci a creare sulle nostre terrazze o nei nostri giardini un angolo dove coltivare e godere di tanta magnificienza.

Al godimento fisico si accompagna poi, sfogliando le pagine di questa sorta di “atlante della biodiversità agricola”, quello culturale in quanto il volume racconta la storia e l’importanza economica e sociale di ognuna di queste coltivazioni e, più in generale, del millenario rapporto tra uomini e piante.

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Per approfondire:

http://www.marcovalussi.it/2010/01/uomo-e-piante-1/

http://www.marcovalussi.it/2010/01/uomo-e-piante-2dimoltialtri/

http://www.marcovalussi.it/2010/02/uomo-e-piante-3dimoltialtri/

http://www.marcovalussi.it/2010/03/uomini-e-piante-4dimoltialtri/

http://www.marcovalussi.it/2010/04/uomini-e-piante-5dimoltialtri/

http://www.marcovalussi.it/2010/08/uomini-e-piante-6dimoltialtri/

http://www.marcovalussi.it/2011/01/uomo-e-piante-7dimoltialtri/

http://www.marcovalussi.it/2012/11/uomo-e-piante-8dimoltialtri/

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