• Ambiente

    Ambiente

    Environment

  • Agricoltura

    Agricoltura

    Agriculture

  • Salute

    Salute

    Health

  • Diritti Umani

    Diritti Umani

    Human Rights

  • Nutrizione

    Nutrizione

    Nutrition

icone agricol

icone NUTR

icone salute

icone DIRITTI

icone ambiente

icone VIDEO

Diritti Umani

Verso il riconoscimento dei diritti degli ultimi popoli…


Verso il riconoscimento dei diritti degli ultimi popoli… 

Dopo 22 anni di dibattiti e negoziazioni, il 19 settembre 2007 le Nazioni Unite hanno approvato a New York la Dichiarazione sui Diritti dei Popoli Indigeni. Ha votato a favore la maggioranza dei paesi aventi diritto al voto: 143 i voti a favore, 11 gli astenuti.Australia, Nuova Zelanda, Canada e Stati Uniti hanno votato contro. Come sottolineato dal Boscimane Jumanda Gakelebone, esponente dell’organizzazione First People of Kalahari, è grazie a questo documento che i governi non potranno più trattare i popoli tribali di tutto il mondo come cittadini di seconda classe, cacciandoli dalle loro terre.La dichiarazione riconosce i diritti dei popoli indigeni alla proprietà della loro terra e a vivere come desiderano. Afferma, inoltre, che non possono essere sfrattati dai loro territori senza il loro libero e informato consenso.
“Un passo storico - scrive
l’Associazione per i popoli minacciati - perchè con questa dichiarazione per la prima volta verranno riconosciuti esplicitamente anche i diritti collettivi dei popoli indigeni”.L’associazione  chiede adesso alla comunità internazionale di “prendere sul serio la sua stessa decisione e di sottoporre ad esame ed a nuove negoziazioni con le popolazioni direttamente interessate tutti i progetti di mega dighe, di disboscamento e di produzione di materie prime su territorio indigeno”.

Sono circa 370 milioni gli appartenenti ai popoli indigeni nel mondo, distribuiti in 5000 comunità indigene, presenti in 75 stati. Tra di loro circa 84 milioni di Adivasi in India, i Sami del Nord Europa, i circa 40 milioni di Indiani in tutta l’America, gli Aborigeni in Australia, i Maori in Nuova Zelanda, i San nell’Africa meridionale. In Italia è l’associazione Survival che si occupa dei diritti dei popoli tribali, che adesso si augura che il Governo italiano voglia ratificare al più presto la Convenzione ILO 169, necessaria per dare concreti strumenti giuridici alla tutela dei diritti dei popoli indigeni del mondo.

Gli ultimi… degli ultimi 

Recentemente alcuni membri di una delle ultime tribù incontattate rimaste al mondo sono stati fotografati nei pressi del confine tra Perù e Brasile. Le foto sono state scattate durante diversi voli effettuati su una delle parti più remote della foresta pluviale amazzonica, nello stato brasiliano di Acre. L’attività di disboscamento illegale sta spingendo le tribù isolate peruviane oltre il confine e potrebbe metterle in conflitto con i circa 500 Indiani isolati che vivono sul versante brasiliano.
“Ciò che sta accadendo in questa regione è un enorme crimine contro la Natura, i popoli indigeni e la fauna, e costituisce un’ulteriore testimonianza della totale irrazionalità con cui noi, i cosiddetti “civilizzati“, trattiamo il mondo”, ha dichiarato un esponente del FUNAI, il dipartimento governativo per gli affari indigeni del Brasile.
Esistono più di cento tribù incontattate in tutto il mondo e più della metà vivono tra Brasile e Perù: su tutte grava la seria minaccia di essere costrette con la forza a lasciare la loro terra, di essere uccise e decimate da malattie a loro sconosciute.
"I popoli indigeni che vivono senza alcun contatto con il mondo esterno sono un centinaio in tutto il mondo", spiega Francesca Casella, direttrice di Survival Italia. "Di loro si sa molto poco, se non che il loro isolamento è sempre frutto di una scelta obbligata, compiuta per sopravvivere alle invasioni dei coloni, dei tagliatori di legno, delle compagnie petrolifere e dei latifondisti. Questi popoli vivono ancora oggi in fuga perenne. Molti hanno sofferto la perdita dei loro cari per mano dell’uomo bianco, nel corso di decenni di massacri silenziosi o per effetto di malattie per loro letali. Ognuno di questi popoli è unico e le loro lingue, le loro culture e le loro visioni del mondo sono insostituibili. Sono sicuramente i popoli più vulnerabili del pianeta. Non possiamo cambiare il passato ma possiamo certamente evitare che la storia si ripeta."



Informazioni generali Sui Nativi americani: http://it.wikipedia.org/wiki/Nativi_americani

Sugli Inuit: http://it.wikipedia.org/wiki/Inuit

Sugli Aborigeni australiani: http://it.wikipedia.org/wiki/Aborigeni_australiani

Sui Popoli indigeni del Brasile: http://it.wikipedia.org/wiki/Popoli_indigeni_del_Brasile

Sui Popoli indigeni della Colombia: http://it.wikipedia.org/wiki/Popoli_indigeni_della_Colombia

Sui Pigmei Baka dell’Africa Equatoriale: http://www.pygmies.info/baka/pigmei-baka.html

Sui Boscimani: http://it.wikipedia.org/wiki/Boscimani

Sui Popoli nomadi: http://it.wikipedia.org/wiki/Popoli_nomadi 

Sulle minacce ai Popoli indigeni:

http://www.gfbv.it/3dossier/popoli/pop1.html

http://www.gfbv.it/3dossier/popoli/pop2.html

http://www.gfbv.it/3dossier/popoli/pop3.html 

Sulla tutela internazionale:http://www.un.org/esa/socdev/unpfii/

http://www.un.org/esa/socdev/unpfii/documents/doc_sessions.htm 

Organizzazioni non governative:http://www.international-alliance.org/

http://www.urihi.org/urihi.html

http://www.jpdutilleux.com/roothtmls/map.html


 

Stampa

IL “POPOLO GENTILE”

                                        VIDEO: Viaggio in Tanzania 


Serviranno delle pillole contro l’obesità a salvare i Boscimani dall’estinzione?

Il giorno che moriremo una lieve brezza cancellerà le nostre impronte sulla sabbia.
Quando calerà il vento chi dirà nell’eternità che una volta camminammo qui, all’alba del tempo?
(poesia boscimane)


Un cactus originario della regione del deserto del Kalahari, nell’Africa meridionale, utilizzato dalla tribù boscimane dei San per placare la fame durante le lunghe battute di caccia, verrà utilizzato per produrre un rimedio contro l’obesità. Il cactus Hoodia, che può raggiungere un’altezza di circa 180 centimetri, contiene un principio attivo che, come dimostrato dalle ricerche, potrebbe ridurre l’appetito, e quindi l’apporto calorico giornaliero, addirittura di 2.000 calorie.
Tale rimedio è stato originariamente brevettato dal Consiglio sudafricano per la ricerca scientifica e industriale (CSIR) e concesso in licenza alla società britannica Phytopharm. Il gigante farmaceutico Pfizer è attualmente impegnato nella produzione di una pillola basata su questa pianta - denominata P57 - che l’azienda auspica possa tenere lontano i morsi della fame, esercitando un enorme impatto sul mercato mondiale dei prodotti dimagranti, il cui valore si aggira attorno ai 6 miliardi di Euro. Più di 100 milioni di persone in tutto il mondo sono considerate a rischio di disturbi legati all’obesità, come le cardiopatie e il diabete. Pfizer si augura che il nuovo rimedio, già testato su volontari sani in Gran Bretagna, possa essere disponibile sotto forma di pillole a partire dal 2007.
Phytopharm e il CSIR hanno ricevuto pesanti critiche per aver concluso accordi finanziari volti allo sviluppo del farmaco, senza interpellare la tribù San, le cui tradizionali conoscenze hanno condotto alla scoperta delle proprietà antiappetito della Hoodia. Il presidente e direttore generale di Phytopharm, Richard Dixey, si è giustificato affermando di ritenere che questo popolo nomade fosse ormai estinto. Dopo aver scoperto che circa 100.000 San vivono ancora in Angola, Sudafrica, Botswana e Namibia, è stato siglato un accordo in base al quale la tribù boscimane riceverà una percentuale dei profitti derivanti dalla vendita del farmaco.
L’esistenza stessa della tribù San era da tempo messa in discussione, poiché la dispersione del popolo e la mancanza di opportunità rappresentano una concreta minaccia di estinzione. In base al nuovo accordo, si spera di generare milioni di Euro l’anno per finanziare programmi di istruzione e creare posti di lavoro, nonché per consentire ai San di acquistare della terra. Tutto ciò dovrebbe garantire un futuro migliore per la tribù e per quanti potranno trarre beneficio dal nuovo farmaco. Per un motivo o per l’altro, sembra proprio che la sopravvivenza dei San debba molto alle speciali proprietà del cactus Hoodia.
Forse qualcuno potrà dubitare della buona fede del presidente e direttore generale della Phytopharm ma... chi conosce davvero questi “selvaggi” che molti “interessati” vorrebbero in via di estinzione?


Boscimane? Chi era costui?

Uomini del bush (boscaglia): questo significa “bosjemans”, il vocabolo boero che da tre secoli si utilizza per indicare i San, probabilmente il gruppo etnico più antico dell’Africa australe che popolava dal Capo di Buona Speranza fino all’Angola e alla Rhodesia.
Tradizionalmente nomadi, erano i signori incontrastati delle savane in cui vivevano di caccia e raccolta di radici, miele e frutti selvatici. Non avevano capi, moneta, proprietà privata. Nel deserto furono costretti a ritirarsi quando altre popolazioni di allevatori e agricoltori invasero le loro terre.
Il sistema sociale dei boscimani è molto particolare: come detto non esistono capi, le decisioni vengono prese collegialmente e le donne partecipano attivamente alle discussioni. Gli individui possiedono solo pochi oggetti personali, i beni appartengono alla comunità. La solidarietà per questo popolo è un principio fondamentale: i frutti della caccia e della raccolta vengono distribuiti tra tutti e di quanto viene raccolto nulla viene sprecato.
Del resto, per popoli la cui sopravvivenza dipende strettamente dalla conoscenza e dalla integrità dell’ambiente in cui vivono, l’ecologia non è un “lusso”... Ciò è tanto più vero per i popoli nomadi. Suddivisi in gruppi di trenta o quaranta persone, quando nel deserto trovano un albero carico di frutti, smettono per un po’ di tempo il loro vagabondaggio e costruiscono delle capanne provvisorie nella steppa sabbiosa.
Tra le caratteristiche più “sorprendenti” dei boscimani va ricordata senz’altro una formidabile conoscenza della natura, dei fenomeni fisici e biologici. Ma anche nozioni approfondite di medicina, botanica ed etologia. Dalle tracce lasciate sul terreno riescono a determinare il sesso, l’età, la velocità di spostamento e altre informazioni cruciali su un animale.
I boscimani vivono nell’ambiente, non lo dominano: sono predatori e prede, adattati (o costretti) a vivere in condizioni estremamente difficili, dove l’acqua è la risorsa più importante e più incerta. Per conservarla si utilizzano uova di struzzo: riempite d’acqua, vengono distribuite sul territorio e utilizzate come serbatoi d’emergenza nei periodi di maggiore siccità. Le donne raccolgono ben 105 specie di piante e, quando capita, anche serpenti commestibili, insetti, bruchi, uova di uccelli, miele, tartarughe, piccoli roditori. Di ogni pianta conoscono il valore nutritivo, le proprietà medicinali, la possibile utilizzazione come veleno, come cosmetico. Delle prede abbattute i boscimani non sprecano assolutamente nulla: dalle parti commestibili fino ad arrivare alle pelli e alle ossa tutti trovano vari impieghi, come nel caso della vescica (è usata come contenitore) o dell’intestino (è usato come corda). Non si spreca nulla neanche nel regno della natura: un cacciatore non ammazza più del necessario, neppure se si trova di fronte a un intero branco di animali. Le donne non raccolgono mai le piante fino al loro esaurimento, per non compromettere il futuro raccolto.
I boscimani, insomma, sono uno dei pochi popoli della Terra che ha vissuto per millenni in un ambiente senza deteriorarlo o comunque cambiarlo, integrando... “cultura e natura”.


Un po’ di storia etnologica

I boscimani (San) fanno parte del gruppo etnico dei Khoisan insieme a coloro che venivano un tempo chiamati ottentotti (Khoi).
Sono caratterizzati da tratti somatici ben diversi dai neri di origine Bantu: sono molto più piccoli di statura ed hanno carnagione giallo-bruna. Gli uomini sono magri e le donne sono grasse con sopracciglia folte: sono bassi (la loro statura oscilla tra 1,40 e 1,60 metri), di carnagione giallo-rossastra, zigomi alti con gli occhi allungati come quelli dei mongoli, i capelli neri e ricciuti disposti “a grani di pepe”, la pelle raggrinzita solcata da rughe profonde.
Parlano lingue curiose, caratterizzate da affascinanti successioni di schiocchi metallici e suoni scoppiettanti prodotti dalla lingua contro il palato, peraltro ormai quasi svanite: un patrimonio tramandato oralmente, ricchissimo di leggende, canzoni, danze rituali. Nonostante la grande quantità di gruppi e clan, con i loro relativi dialetti, i popoli Khoisan sono accomunati da credenze religiose, riti, definizione di parentela e abitudini simili.  

Già ventimila anni fa (Tarda Età della Pietra) gruppi di cacciatori-raccoglitori, progenitori degli attuali boscimani, abitavano tutta l’Africa meridionale. Grazie al loro nomadismo e alla loro abilità nel procurarsi il cibo, i piccoli uomini dalla pelle giallo-bruna e dagli zigomi pronunciati erano in grado di far fronte a condizioni climatiche estreme. La splendida arte rupestre che hanno lasciato ne è testimone: la storia di questo popolo è scritta nella roccia. I piccoli signori delle savane hanno infatti lasciato straordinarie testimonianze della loro presenza millenaria, dipingendo sulle pareti granitiche delle caverne (dove abitavano in piccoli gruppi) o lasciando incisioni sui massi delle pianure australi.
Le loro stupende pitture sono state scoperte in Tanzania, in Etiopia, in Uganda e nel Sudan meridionale, insieme ad alcuni dei loro manufatti, quali per esempio le sfere di pietra forata ancora in uso per appesantire le zappe. Alcune di queste opere risalgono a oltre 25 mila anni fa e sono autentici cimeli di uno stupefacente museo della storia, grazie ai quali gli studiosi hanno potuto ricostruire (almeno in parte) le radici più antiche e profonde della civiltà del Kalahari.
Con l’Età del Ferro (duemila anni fa), l’introduzione del bestiame domestico ad opera di etnie Bantu giunte da Nord, dalla corporatura più possente e dal temperamento meno remissivo, fece convertire i nomadi in pastori semi-nomadi, soprattutto nelle aree costiere dell’attuale Sud Africa. Questi si chiamavano Khoikhoi (“gente vera”, da Khoe = persona) per distinguersi dai gruppi rimasti cacciatori, che non possedevano bestiame, che i pastori chiamavano San (“l’altra gente”).
Al loro arrivo, i colonizzatori europei chiamarono i Khoikhoi “ottentotti”, e i San “bushmen” (boscimani). Quest’ultimo era un termine dispregiativo, riferito a persone che si sostentano con quello che trovano nel bush (la boscaglia).
Khoikhoi e San, che hanno dunque un’origine genetica comune, vengono tuttora considerati rispettivamente “pastori” e “cacciatori-raccoglitori”, ma gli antropologi ormai tendono ad adottare il termine Khoisan per abbracciare tutti i gruppi: nonostante siano frazionati in numerosi clan, con i loro relativi dialetti, i popoli Khoisan sopravvissuti sono infatti accomunati da credenze religiose, riti, definizione di parentela e caratteristiche fisiche simili.
Con l’arrivo dei popoli Bantu dal Nord e, nei secoli più recenti, degli europei, i Khoisan hanno perso la possibilità di rimanere nomadi o seminomadi, e in generale indipendenti.
I veri problemi cominciarono due secoli fa, allorché i primi coloni olandesi penetrarono nella regione, confiscando pozzi, terre e selvaggina. I San, trattati alla stregua di animali, furono cacciati a fucilate, catturati e costretti a lavorare come schiavi nelle fattorie dei bianchi. Molti morirono a seguito di micidiali epidemie di vaiolo e morbillo. Fu un autentico genocidio.
I conflitti e le malattie hanno decimato le loro popolazioni, i superstiti sono stati forzatamente “integrati” nell’economia agricola delle colonie, soprattutto in qualità di servitori. Alcuni si sono congregati intorno alle missioni dove era possibile continuare ad esercitare la pastorizia.

 


XX secolo: cultura e uomini a rischio di estinzione

L’erosione dei gruppi, la mescolanza con altre etnie e, nel ventesimo secolo, la segregazione in zone a loro assegnate, hanno portato i Khoisan alla perdita dell’identità e del patrimonio culturale originario.
La documentazione delle lingue, delle narrazioni orali e del sapere tradizionale, costituiscono l’eredità culturale dei boscimani. Molti studiosi occidentali e sudafricani hanno portato alla nostra conoscenza questo patrimonio, nelle facoltà di antropologia e affini; ma gli stessi Khoisan, che non hanno fini accademici, sono solo recentemente divenuti tragicamente consapevoli del rischio che la loro cultura corre di scomparire.
A partire dagli anni ‘90, finalmente, i cambiamenti sociali del Sud Africa e della Namibia hanno favorito la presa di coscienza e l’inizio del riscatto dei Khoisan. Alcune organizzazioni erano già nate grazie all’intervento di antropologi stranieri, altre sono sorte in anni recenti, volute e animate dagli stessi boscimani. Ha preso corpo, così, un vero e proprio movimento per i diritti dei Khoisan, articolato in molti progetti che fanno capo ad una organizzazione-ombrello, WIMSA.
I Khoisan sono impegnati a migliorare la qualità della loro vita, a rivendicare i diritti sulle loro terre di appartenenza, a guadagnarsi il rispetto degli altri popoli dell’Africa e del mondo, a mantenere viva la loro tradizione culturale ma a forgiarne anche una moderna. Infatti, mentre gli anziani boscimani considerano fondamentale la loro antica cultura, in molti casi i loro figli vorrebbero occidentalizzarsi, e nessuno ha il diritto di impedirglielo. Solo considerando i boscimani come civiltà viva, attiva e in trasformazione, si dà loro una chance di inserirsi nel mondo di oggi con pari dignità. Non considerandoli una civiltà in via di estinzione.


I boscimani oggi

I San sono ormai coscienti del fatto che la perdita del rapporto con la loro terra significa anche la distruzione del loro singolare sistema di vita e la scomparsa definitiva delle loro conoscenze circa la sopravvivenza nel deserto.
Oggi i boscimani sono circa 90 mila: la metà sta in Botswana, tra il deserto del Kalahari (grande come la Francia) e le paludi dell’Okavango; il resto vive in Namibia (38000), Angola (6000), Sud Africa (4500), Zambia (1600), Zimbabwe (1200). Solo poche centinaia - appartenenti prevalentemente alle tribù Gana e Gwi - sono riusciti a mantenere uno stile di vita tradizionale, in gran parte auto-sufficiente, in cui la caccia e la raccolta rivestono un ruolo centrale e le esercitano ancora in settori inaccessibili del Kalahari.
Attualmente la maggior parte dei boscimani non vive più della caccia, come tradizionalmente dovrebbe essere, ma ha iniziato a coltivare mais e miglio, e a tenere capre, asini e cavalli. Sradicati dalla loro terra, molti boscimani dipendono completamente dall’elemosina del governo, la disperazione ha comportato l’alcolismo e di conseguenza una totale miseria. Sono costretti a vivere in squallidi insediamenti costruiti appositamente per loro dove ricevono misere sovvenzioni dallo Stato, ma dove non è possibile cacciare né raccogliere. Lavorano sottopagati in allevamenti e miniere (alcune ragazze si prostituiscono). A tanti non resta che mendicare e ubriacarsi.
Come detto, dagli anni ‘90 i cambiamenti sociali dei paesi vicini (Sud Africa e Namibia) hanno favorito la presa di coscienza e l’inizio del riscatto dei discendenti dei San, mentre in Botswana (dove sono più numerosi) la loro situazione rimane grave. Per questo nel 1986 è nato il Kuru Development Trust, per fornire assistenza ai boscimani un tempo nomadi e ora divenuti stanziali per lavorare nei ranch dei boeri discendenti dai colonizzatori.
L’organizzazione Kuru (che significa ‘farè) è cresciuta fino a consolidare con altri enti del subcontinente un vero e proprio movimento pro-San, a cui fanno capo anche i boscimani/khomani del Sud Africa. Oggi Kuru sviluppa progetti di autosostentamento presso le comunità più emarginate, ed è diretto da boscimani scelti tra i villaggi che partecipano ai progetti con gruppi di lavoro. Le attività vanno dall’allevamento di ovini, caprini e asini, alla coltivazione di funghi e frutta.
Dal 1990, grazie alla creazione di un laboratorio d’arte, si sta affermando uno stile di arte contemporanea boscimane che ha già ricevuto molti riconoscimenti internazionali. Oggi le loro mostre colorate stanno girando il mondo, affermando il loro messaggio di appartenenza al Kalahari, il vasto territorio di wilderness che occupa parte dell’Africa meridionale.
Una coalizione di ONG locali sta attualmente conducendo trattative con il governo del Botswana (e una campagna internazionale) al fine di indurlo a riconoscere il diritto dei boscimani a vivere nel Kalahari centrale: lo scopo è di ottenere terra per i San, con il procedimento di “reclamo delle terre” analogo a quello in atto in Sud Africa.
Un ente-ombrello sorto recentemente su richiesta dei San di cinque paesi dell’Africa meridionale (WIMSA) elabora anche progetti di sviluppo adatti alle specifiche comunità. In Italia questi progetti sono appoggiati e fatti conoscere dall’associazione culturale Heritage, eletta dai leader San in assemblea come “gruppo di supporto dall’Italia e portavoce”.
Il grande problema di questo popolo non è stato solo quello di aver loro progressivamente negato l’accesso alle risorse naturali (da cui dipende la loro esistenza così interconnessa con i ritmi della natura), ma anche che la loro dignità è stata mortificata da tutti i gruppi etnici del subcontinente.
Le autorità considerano i boscimani “primitivi”, “essere inferiori”, “fermi all’età della pietra”, e li disprezzano per la loro diversità... In realtà si tratta di un popolo tenacemente attaccato alle proprie radici e alla propria indipendenza, che nonostante secoli di violenze, continua a resistere. Un popolo fiero, nobile, che non finisce di affascinare e stupire gli studiosi.


Zoo umano o turismo etico?

Esistono numerosi progetti di promozione turistica delle terre boscimani: politici e affaristi spingono per fare spazio a nuovi lussuosi lodge destinati a turisti danarosi. I boscimani più fortunati (si fa per dire!) sono stati arruolati da impresari senza scrupoli che li hanno trasformati in attrazione turistica. Li hanno sistemati in apposite capanne costruite nei pressi di bungalow lussuosi e hanno stampato le loro immagini su depliant che pubblicizzano “emozionanti visite ad un vero villaggio preistorico”.
A lanciare l’idea dell’etno-show è stato un sudafricano, Peter De Waal, proprietario della riserva naturale di Kagga Kamma (260 km a nord di Città del Capo). In questa riserva, De Wall ha radunato un piccolo gruppo di boscimani che un tempo viveva (tutt’altro che bene, a dire la verità) nel Parco Gemsbok Kalahari, ai confini con il Botswana. Gli ha offerto un rifugio dignitoso e un buon stipendio. I boscimani se lo guadagnano mostrando ai visitatori antiche pitture rupestri, confezionando ornamenti e facendo finta di prepararsi alla caccia con arco e frecce. Per una manciata di monete, rispolverano i perizoma di pelle e si mettono in posa per le foto. “Fermi così, sorridete, non guardate verso l’obiettivo”, si sentono ripetere tutti i giorni. Alla sera, su richiesta, possono anche mettersi a ballare: cantano e saltellano attorno al fuoco, con i tradizionali sonagli legati alle caviglie, illuminati dai flash dei turisti.  

Per evitare che escano dalla storia, seppur col loro inguaribile sorriso, qualcuno si sta muovendo per il loro riconoscimento come popolo e per ottenere una rappresentanza a livello politico e governativo: è John Hardbattle, figlio di una san e di un poliziotto scozzese, che si impegna da anni come interprete e difensore della cultura boscimane. È proprio con lui che è possibile provare un’esperienza unica al mondo: vivere con i boscimani nella Central Kalahari Game Reserve, imparando da loro tutto quello che rischia di andare perso per sempre. Dal 23 al 28 giugno, dal 28 giugno al 3 luglio e dal 3 all’8 luglio, Hardbattle si fa guida per un ristretto numero di persone (dieci per ogni turno) disposte a scoprire il san che c’è in loro. Gli ospiti dormono in tende mobili perfettamente attrezzate e mangiano ottimi pasti in stile occidentale, ma per il resto vivono a stretto contatto con i boscimani. Sperimentando, con gli uomini, la fabbricazione di archi e frecce, l’osservazione delle impronte, la caccia, la preparazione di medicine vegetali; e, con le donne, la raccolta delle piante, la lavorazione dei gusci delle uova di struzzo per farne utensili e gioielli, la concia e la tintura delle pelli. Nei tramonti infuocati e nelle notti stellate, canti e danze sprofondati nella magia del Kalahari.
I profitti di questa iniziativa saranno devoluti per l’acquisizione di terre per le comunità boscimane del Botswana.

 


Caccia proibita e acqua negata

Recentemente il governo del Botswana ha deciso di sgomberare i loro villaggi e deportare le comunità lontano dalle terre in cui hanno vissuto finora. “Sono uomini selvaggi” - dicono le autorità - “bisogna civilizzarli e integrarli al resto della società”. Con questo pretesto li si fa sloggiare dalla Central Kalahari Game Reserve, un’ampia zona protetta - una delle più grandi riserve naturali d’Africa - creata negli anni Sessanta proprio per tutelare i boscimani e gli animali da cui dipendevano. Il governo ha provato a convincere gli indigeni a spostarsi promettendo loro scuole, assistenza sanitaria, lavoro, piccoli appezzamenti di terra, bestiame e denaro contante (promesse quasi mai mantenute). In pochi però hanno risposto all’offerta. Così ha pensato di limitare in ogni modo la caccia, da cui dipende la sopravvivenza delle tribù, appellandosi alla necessità di conservare la fauna.
Poco importa se i boscimani hanno vissuto di caccia per secoli senza mai ammazzare un solo animale di troppo, poco importa se nessuna specie da loro cacciata è in pericolo di estinzione. Gli indigeni accusati di aver superato la quantità di cacciagione consentita (tre antilopi per persona all’anno) sono stati imprigionati e torturati dai funzionari del dipartimento faunistico: l’associazione boscimane First People of the Kalahari ha raccolto testimonianze di gente percossa, gettata a terra, minacciata col fuoco, legata per i piedi al paraurti delle auto. E le intenzioni del governo non sono neppure troppo velate: recentemente un ministro del Botswana, Margaret Nasha, ha paragonato la questione dei Boscimani a quella degli elefanti. “Tempo fa - ha spiegato in TV- abbiamo avuto un problema simile quando volevamo eliminare un certo numero di pachidermi...”.
Ultimamente, per intimidire le comunità e sollecitare gli sfratti, la polizia non ha esitato a penetrare con la forza nelle abitazioni dei boscimani, usando violenza su uomini e donne. Ma non è bastato: centinaia di persone hanno opposto resistenza e si sono rifiutate di lasciare le loro terre per “rimanere vicino alle tombe degli antenati”. Allora il governo ha deciso di giocare la sua ultima carta: a marzo di quest’anno ha ordinato la sospensione dell’approvvigionamento d’acqua ai villaggi delle tribù Gana e Gwi. In pochi giorni ha chiuso l’unico pozzo, smantellato la pompa, bloccato i rifornimenti con l’autocisterna. Lo ha fatto con la scusa di non poter sostenere i costi della fornitura d’acqua (3,28 euro per persona a settimana). Una scusa, appunto: il Botswana è il più grande esportatore di diamanti al mondo, una delle nazioni africane più ricche, e potrebbe permettersi la spesa senza problemi. Ma volendo, potrebbe anche evitare di usare i suoi soldi perché l’Unione Europea si è offerta di finanziare l’approvvigionamento. A tutt’oggi, però, il Botswana ha accuratamente ignorato la proposta.


Il business dei diamanti

Perché? Per quale motivo il governo è tanto interessato a far sloggiare i boscimani dalle loro terre ancestrali? “Probabilmente per potersi dedicare con tranquillità allo sfruttamento dei giacimenti diamantiferi presenti nella regione” spiega Francesca Casella, rappresentante dell’associazione Survival International. Con l’uso di misure repressive il governo del Botswana tenta di cacciare gli ultimi boscimani dal parco nazionale nella zona centrale del deserto del Kalahari, in modo da poter sfruttare indisturbatamente le ricche risorse di diamanti presenti nella zona.
Nel febbraio del 2002 circa 1.100 San (boscimani) vivevano ancora nel parco, grande 52.000 km2. Poi, come detto, il governo ha semplicemente tolto l’acqua: con la scusa della lunga siccità, tutte le riserve d’acqua sono state svuotate e le pompe smontate. Agli indigeni non è rimasta altra possibilità che trasferirsi in uno dei 63 villaggi d’evacuazione situati al di fuori della zona protetta. In Botswana ci sono circa 50.000 boscimani, ma grazie a questa campagna di trasferimento forzato, iniziata 17 anni fa, all’interno del parco vive ormai solo qualche dozzina di San.
La multinazionale De Beers, numero uno al mondo nel settore dei diamanti, ha già ottenuto importanti concessioni nella Riserva del Kalahari: ha già investito 32 milioni di euro per le prime trivellazioni di prova sul territorio tradizionale dei San. I boscimani si sono appellati all’Alta Corte di Giustizia del proprio paese. Chiedono che la Corte dichiari incostituzionale il loro trasferimento forzato e confermi i loro diritti territoriali. A causa di un errore di forma, la querela di 248 boscimani è stata respinta il 19 aprile scorso, ma poi riammessa a metà luglio grazie ad un processo d’appello.
In molte parti del mondo, i diritti dei popoli indigeni vengono tuttora disattesi o messi in discussione, non appena si scoprono risorse preziose sui loro territori. Numerose organizzazioni non governative si impegnano da anni affinché il numero più alto possibile di Stati firmi e ratifichi la Convenzione ILO (International Labour Organisation) 169, finora l’unico accordo internazionale che possa proteggere e dare voce ai diritti di circa 300 milioni di indigeni nel mondo. La ILO 169 fissa i diritti elementari degli indigeni, quali il diritto alla propria terra, ai propri stili di vita, al mantenimento della propria cultura e lingua. Anche l’Italia e la Germania fanno parte dei paesi che non hanno ancora firmato l’accordo.


Quale futuro per gli ultimi “selvaggi”?

Le Nazioni Unite hanno dichiarato il periodo 1995-2005 ‘Decennio dei Popoli Indigeni’, riconoscendo anche che, più degli altri, i popoli indigeni sono custodi di un’eredità che ha urgenza di essere protetta: la Natura, poiché da essa dipendono molto più di noi, che abbiamo forgiato il territorio per assecondare le nostre esigenze.
Quello che i boscimani desiderano (così come altri popoli indigeni e chiunque altro essere umano su questo pianeta, credo...) è solo poter vivere sulla loro terra, liberi da aggressioni e intimidazioni, per continuare a provvedere a se stessi, utilizzando il territorio e accedendo liberamente all’acqua. È chiedere troppo?
Abbiamo visto come la sapienza di questo antico e pacifico popolo africano, come nel caso della ricerca di nuovi farmaci contro l’obesità, potrebbe essere ancora utile, sempre che essa venga adeguatamente riconosciuta.
Ma al di là di tutto, ciò che fondamentalmente andrebbe riconosciuto è il valore della vita di ciascun individuo e di ciascun popolo che, inserito nel suo ambiente e grazie all’adattamento a questo, può esprimere tutte le potenzialità insite nel suo DNA.
«Quando anche l’ultimo boscimane avrà abbandonato la sua cultura, un’immensa conoscenza sarà andata perduta... Ma soprattutto sarà scomparsa la loro profonda gentilezza» ha scritto Laurens van der Post, scrittore sudafricano che ha passato gran parte della sua vita con i San. Il DNA di questo “popolo gentile” rischia di smettere di lasciare le sue «orme leggere» su questa terra per lasciare spazio agli «uomini pesanti», quelli che calpestano, soffocano e stravolgono la natura.


Bibliografia e siti web

http://www.phytopharm.com/Platforms/MetabolicSyndrome_P57.shtml
Cordis Focus – n. 213, 23-27 gennaio 2003
http://www.heritage-org.com/
http://www.gfbv.it/
http://www.peacelink.it/
http://www.manitese.it/
http://www.survival.it/


Viaggio in Tanzania

Stampa

ALIMENTAZIONE E DEMOCRAZIA: NUOVI “CAMPI” PER COLTIVARE I DIRITTI UMANI

 


Il futuro della biodiversità è il nostro futuro di individui in un mondo globalizzato e la sua difesa, anche attraverso una informazione corretta e “libera” da pressioni di parte, rappresenta un baluardo contro monopoli economici che mettono in pericolo il reale esercizio dei principi democratici, nonché la salute e la qualità della vita.

«Il diritto all’alimentazione e alla nutrizione, al pari della dignità, è un diritto fondamentale identificabile e riconoscibile da ogni intelligenza e coscienza umana. Senza nutrizione e alimentazione non c’è vita e quindi neanche dignità, che è il diritto fondamentale all’identificazione biologica dell’essere umano» (F. Manzione, 2001).
Ma, come evidenziato dall’ultimo Vertice mondiale sull’alimentazione (FAO, Roma, 1996), ad oltre 800 milioni di esseri umani mancano alimenti sufficienti per soddisfare le proprie fondamentali necessità nutritive. Essi sono probabilmente quegli stessi 800 milioni di individui analfabeti, a cui manca un’adeguata assistenza sanitaria, che abbassano la media disponibilità di acqua per abitante mondiale, che vivono in un ambiente degradato, al limite del collasso ecologico, il che spesso li spinge, per questo insieme di condizioni naturali e sociali, a lasciare il proprio paese in cerca di luogo migliore in cui vivere la loro esistenza.
Per questi uomini e donne, in gran parte giovani e bambini, destinati probabilmente e in gran parte ad ignorare i loro legittimi diritti di esseri umani per condurre una vita degna di essere vissuta, ben poco si fa sia a livello internazionale sia nei singoli Paesi di appartenenza.
La cosiddetta “volontà politica” - l’impegno civile di battersi per sradicare fame, sete, analfabetismo, malattie infettive, degrado ambientale per gli esseri umani del proprio Paese o di quelli più o meno vicini – generalmente si manifesta, per lo più a parole, in occasione dei grandi vertici internazionali in cui tutti si è più buoni e concordi nello stilare documenti e dichiarazioni di principio che, in genere, lasciano tutto immutato.
Pur nel lodevole tentativo di confrontarsi sui suddetti problemi da parte delle organizzazioni internazionali, degli istituti di ricerca, delle Organizzazioni non governative l’approccio è generalmente monotematico e i tentativi di soluzione a quell’intricato nodo di questioni che va sotto il nome di “sottosviluppo” sono altrettanto limitati al tentativo di risoluzione solo di alcuni di essi.
Sia che si parli di Paesi in via di sviluppo che di quelli tecnologicamente avanzati, l’analfabetismo culturale e/o etico spinge a schierarsi in un “partito” dove il “pensiero unico” domina i suoi adepti ed impedisce di discutere obiettivamente di un qualsiasi problema per cercare, insieme a chi la pensa diversamente, una sintesi utile alla risoluzione dei problemi concreti che in ogni Paese non sono certo né pochi né semplici.
Il vero problema di fondo è in genere la non conoscenza di tutte le questioni in gioco (e questo può essere un limite dovuto all’attuale sistema di ricerca scientifico sempre più iperspecializzato, dove si lotta l’uno contro l’altro per il reperimento degli scarsi fondi per la ricerca) o la presa in considerazione solo di alcune variabili (per lo più quelle economiche o quelle più paganti dal punto di vista politico, il che si traduce in finanziamenti solo alle ricerche le cui ricadute siano visibili in termini di utili): così facendo si producono pseudo-soluzioni che talvolta finiscono con il contribuire all’ingarbugliarsi della matassa.


Informazione e disinformazione

Di questo stato di cose certamente gli scienziati hanno le loro responsabilità: l’informazione in materia per esempio di Organismi geneticamente modificati (Ogm) – a questo tema è stato dedicato un incontro di studio presso il Consiglio Nazionale delle Ricerche lo scorso 14 febbraio – è stata lasciata per lo più nelle mani dell’industria del settore, che ne ha inevitabilmente sottolineato solo gli aspetti positivi finalizzati alla penetrazione commerciale, e a quelle della controparte istituzionale, i consumatori, giustamente diffidenti dopo i recenti scandali che hanno dimostrato tutta l’insipienza quando non anche il colpevole silenzio e/o l’omissione di informazione da parte della classe politica.
Secondo Roberto Defez – ricercatore dell’Istituto di Genetica e Biofisica del CNR di Napoli e promotore di questa iniziativa – quella degli Ogm è una vera e propria campagna di disinformazione: «La Commissione europea ha recentemente reso noti i risultati di uno studio – vedi bibliografia – durato 15 anni, che ha impegnato centinaia di ricercatori pubblici con una spesa complessiva di 70 milioni di Euro, secondo il quale le piante geneticamente modificate non comportano alcun rischio né per la salute umana né per l’ambiente. Anzi, tenendo conto della tecnologia più precisa e dei maggiori controlli, si può dire che queste colture sono addirittura più sicure».
In effetti però nel documento della Commissione si possono rilevare, al di là dei toni trionfalistici, anche osservazioni critiche e quel sano dubbio sulla facile generalizzazione, dubbio che dovrebbe animare la ricerca pubblica rispetto a quella privata, inevitabilmente di parte ed orientata al profitto. Derek Burke, che è stato per 9 anni presidente del Comitato consultivo britannico per la sicurezza alimentare, sostiene che il sistema attualmente impiegato per valutare le piante geneticamente modificate «è un punto di partenza assai valido per porre domande» e ha aggiunto che «la scienza progredisce e più cose apprendiamo, più domande facciamo».
E proprio nel recentissimo documento della Royal Society britannica (vedi bibliografia) distribuito nel corso del Convegno di Roma, in cui si afferma che non c’è ragione di dubitare della sicurezza degli alimenti ottenuti da ingredienti geneticamente modificati attualmente disponibili, c’è anche un chiaro invito ad apportare miglioramenti ai metodi di valutazione della sicurezza, prima che sia annunciato il cessato allarme per il consumo da parte dell’uomo di un numero maggiore di alimenti provenienti dalle piante transgeniche (Commissione Europea, 2002).


Il caso “biotecnologie agricole”

Per quanto riguarda le problematiche di tipo agricolo-alimentare l’approccio “riduzionista” vede la soluzione, in Italia come dappertutto nel mondo, nell’applicazione di una terapia unica e infallibile: le biotecnologie. I “biointegralisti”, al contrario, sono convinti che per bloccare il dilagare dell’uso di Ogm in agricoltura e nei prodotti alimentari sia necessario chiudere i rubinetti del finanziamento pubblico alla ricerca.
Nel frattempo, mentre l’opinione pubblica del Vecchio Continente si interroga allarmata sulla sua sicurezza alimentare, l’Europa compra dall’estero soia, per lo più “made in USA”, per la produzione di mangimi per la zootecnia (lo scandalo della “mucca pazza” ci impedisce di usare farine di origine animale per nutrire il bestiame), soia che per il 95% è geneticamente modificata: noi tutti inconsapevolmente ne mangiamo da anni (la “tolleranza zero”si applica solo all’1% di soia prodotta in Italia). 

L’incontro svoltosi al CNR – al di là dei facili trionfalismi di quei genetisti che si credono in grado da soli di risolvere problemucci tipo “fame nel mondo”, “riduzione della biodiversità”, “bioterrorismo” – ha evidenziato tutti i limiti di un sistema di ricerca pesantemente condizionato dalla... ricerca di fondi (mi si passi il gioco di parole). Libertà = soldi? Per gli scienziati sembra proprio così: pur in presenza di “buone idee” o addirittura di brevetti già registrati, l’applicazione langue (il progetto “Biotecnologia” del CNR, che coinvolgeva 300 gruppi di ricerca, è morto per l’azzeramento dei fondi), mentre il “nemico” USA (ma non eravamo alleati sul fronte bellico?) aumenta gli stanziamenti. In realtà questa è una corsa alla competitività commerciale che l’Europa vuole almeno non perdere.
Secondo Edoardo Boncinelli (Direttore del Sissa, la Scuola internazionale di studi superiori di Trieste) in Italia sussiste un problema di mentalità («i governi succedutisi in questi anni hanno tralasciato la questione ricerca») e di scarso flusso di finanziamenti tra l’industria e il mondo della ricerca scientifica.
«Per ciò che riguarda poi i consumatori europei – ha evidenziato il prof. Prakash, uno dei maggiori sostenitori del biotech a livello mondiale – il nodo della questione rimane quello di avere un’autorità che sia assolutamente seria, imparziale e che operi in base a criteri scientifici rigorosi: questa è la strada scelta negli Usa, dove alla fine il consumatore ha libertà di scelta di consumare o meno gli Ogm.»
Se le cose stanno davvero in questi termini, resta da spiegare il perché di tanta paura nei confronti degli Ogm. «Nella pubblica opinione – ha spiegato Defez – prevale spesso il lato emotivo su quello razionale. Ma una maggiore informazione può senz’altro favorire lo sviluppo di una tecnica che, come riconosce anche l’ultimo rapporto dell’Agenzia per lo Sviluppo delle Nazioni Unite, rappresenta probabilmente l’unico strumento per incrementare la produzione agricola nelle aree ecologicamente marginali del pianeta».

 


Le alternative esistenti all’impero della “monocultura”

Anche se quel “probabilmente” pone il beneficio del dubbio, l’affermazione riferita da Delfez porta inevitabilmente acqua al mulino dei sostenitori delle biotecnologie come sole “armi intelligenti” per la vittoria nella guerra alla fame nel mondo.
Purtroppo, al contrario delle molte guerre combattute recentemente senza neanche attendere la loro formale dichiarazione, su questo fronte moltissime sono state le roboanti dichiarazioni non solo di guerra ma perfino di vittoria, puntualmente sconfitte dai fatti.
Come più volte esposto sulle pagine di questa rivista, la “guerra” si dovrebbe combattere su più fronti (economico, sociale, culturale) e non solo su quello strettamente tecnico-produttivo: ed anche su questo versante un approccio basato anche solo sul buon senso ci dovrebbe indurre a studiare strategie d’attacco diversificate (mi si scusi per il linguaggio “bellico”, in genere antitetico al mio pensiero...).
Su queste tematiche si è tenuto ad Orvieto lo scorso 22 dicembre un interessante incontro con il prof. Miguel A. Altieri, docente di Agroecologia presso l’’Università di Berkeley (California) e Coordinatore dei Programmi di Sviluppo per l’Agricoltura Sostenibile delle Nazioni Unite su “Tradizione alimentare e bioagricoltura mediterranea nell’era della globalizzazione: la sfida della biodiversità, una grande opportunità da non perdere”.
Preceduto dalla proiezione della video-inchiesta sui cibi transgenici “Il gene sfigurato”, realizzata dal giornalista Carlo Pizzati per la trasmissione “Report” di Rai Tre e vincitrice del premio Prix Leonardo Giornalismo Scientifico, l’intervento del prof. Altieri ha sottolineato i rischi dell’attuale industrializzazione della produzione agricola, mettendo altresì in risalto le concrete alternative esistenti nel mondo per lo sviluppo di un’agricoltura sostenibile (vedasi al riguardo il suo interessante sito web riportato in bibliografia).
I sistemi agricoli sviluppati con creatività infinita dagli agricoltori di ogni parte del mondo per vincere la sfida con il dinamismo delle condizioni ambientali specifiche del luogo, con un background di secoli di sperimentazioni e di test sulla sicurezza dei prodotti agricoli così sviluppati, rappresentano un archivio scientifico teorico-pratico molto spesso snobbato dal sistema accademico o, al contrario, saccheggiato spudoratamente per reperire gli elementi base della creatività della natura (la cosiddetta “biopirateria”).
Una delle ricadute più preoccupanti dell’industrializzazione dell’agricoltura è l’estinzione non solo di numerose specie vegetali ed animali, ma anche di comunità e di culture con effetti sociali devastanti ed irreversibili.
Secondo il prof. Altieri lo sviluppo di un’agricoltura sostenibile (ambientalmente sana, culturalmente accettabile, socialmente giusta, economicamente valida) presuppone quattro elementi fondamentali: organizzazione delle risorse locali, diversificazione degli agroecosistemi, partecipazione sociale e (least but not last) la costruzione del capitale umano (empowerment).


Conclusioni

Il futuro della biodiversità è in fondo il nostro futuro di individui in un mondo globalizzato e la sua difesa, in molti Paesi non solo del cosiddetto Terzo Mondo, rappresenta un baluardo contro i monopoli economici che mettono in pericolo il reale esercizio dei principi democratici.
Lo sviluppo tecnologico e l’espansione globale dei mercati non ha ancora risolto il nodo del soddisfacimento quantitativo di cibo per tutti gli abitanti del pianeta (esulando questo problema, probabilmente, dalle finalità che il mondo economico si pone), portando peraltro nuove questioni etiche sugli aspetti qualitativi della produzione di alimenti (bioproteine; “mucca pazza”; contaminazione dei cibi; biotecnologie).
Queste vicende hanno dimostrato la oramai irrinunciabile necessità di integrare l’immensa mole di informazioni scientifiche a nostra disposizione nei vari campi del sapere per cercare di trovare una soluzione condivisibile ai problemi posti dalla parcellizzazione delle conoscenze (F. Manzione, 2001).
I problemi etici spesso nascono quando riportiamo l’uomo al centro delle riflessioni sulla qualità della nostra vita, ovvero quando l’evolversi inarrestabile delle conoscenze si scontra con l’impreparazione culturale umana a riconoscere ciò che è utile all’evoluzione del genere umano e ciò che invece può essere dannoso.


Bibliografia

F. Manzione (2001): The fundamental human right to food. Third Congress of the European Society for Agricultural and Food Ethics - EurSafe 2001. Firenze, 3-5 ottobre 2001
AA.VV (2001): EC-sponsored Research on Safety of Genetically Modified Organisms - A Review of Results. Indirizzo sito web: http://europa.eu.int/comm/research/quality-of-life/gmo/index.html
AA.VV. (2001): OGM - Una risorsa per il futuro. Le Scienze Dossier . Numero 10 - Inverno 2001
M. Delledonne, N. Borzi (a cura di) (2002): Biotecnologie in agricoltura. Realtà, sicurezza e futuro”. Federchimica - Assobiotec.
The Royal Society (2002): Genetically modified plants for food use and human health - an update.
Policy document 4/02 February 2002. Indirizzo sito web: www.royalsoc.ac.uk
J-P. Berlan (a cura di) (2001): La guerra al vivente - Organismi geneticamente modificati e altre mistificazioni scientifiche. Bollati Boringhieri.
D. Marchetti (2001): Vita e morte degli OGM. Calderini Edagricole.
Commissione europea (2002): Una relazione sugli alimenti GM invita a perfezionare il metodo di valutazione della sicurezza. Cordis Focus, n. 190
M.A. Altieri (2002): Indirizzo sito web: www.cnr.berkeley.edu/agroeco3


Stampa

FAME DI GIUSTIZIA



«Lo scopo del Vertice mondiale sull’alimentazione: cinque anni
dopo è di dare nuovo slancio agli sforzi compiuti su scala mondiale
in favore degli affamati... Dobbiamo trovare la volontà politica e
le risorse finanziarie per combattere la fame. La comunità
internazionale ha ripetutamente dichiarato il suo impegno a
estirpare la povertà. L’eliminazione della fame è un primo,
essenziale passo in questa direzione.»

Dott. Jacques Diouf, Direttore Generale della FAO

Nel 1996 i delegati partecipanti al Summit Mondiale sull’Alimentazione di Roma presero il solenne impegno di ridurre della metà la popolazione mondiale che soffre la fame entro il 2015, un notevole passo indietro rispetto ad un altro solenne obiettivo fissato nel 1974: quello di sradicare questo dramma nel giro di 10 anni.
La stessa FAO, a cinque anni dal vertice di Roma, ha dichiarato che anche fissando il trend al passo attuale, persino gli obiettivi meno ambiziosi richiederebbero oltre 60 anni: un’età che molti poveri del mondo non raggiungerà mai. Dal 1996 il numero di persone sottonutrite rimane pressoché costante o scende molto lentamente: fino ad oggi esso è sceso ad un ritmo medio di 8 milioni di persone l’anno mentre, per raggiungere l’obiettivo di dimezzare il numero di uomini e donne che soffrono la fame entro il 2015, sarebbe necessario un tasso di crescita maggiore del doppio (22 milioni di persone in meno per anno) (FAO, 2001).
Malgrado tali roboanti proclami di impegno, il problema della fame oggi è ancora presente in buona parte dei paesi in via di sviluppo (PVS) e colpisce fra gli 800 milioni e gli 1,1 miliardi di persone: ciò significa che 1 su 6 abitanti della Terra soffre di gravi forme di sotto o di malnutrizione che ne limitano drammaticamente lo sviluppo fisico e mentale, la quantità e qualità di vita, le potenzialità di esprimere i propri diritti fondamentali di essere umano.

 

Una “campagna” per la campagna


Uno degli elementi più paradossali della realtà produttiva alimentare è che proprio coloro che producono il cibo per tutte le altre categorie sociali, cioè gli agricoltori, rappresentano la categoria più povera del pianeta.
La fame, infatti, è concentrata nelle zone rurali ed è aggravata dalle minori condizioni igieniche e dalla mancanza di forniture idriche sicure. Nelle aree rurali gli indicatori di reddito, salute, istruzione e partecipazione politica continuano ad essere nettamente inferiori a quelli urbani.
Il 70% dei poveri del mondo lavora e vive nelle zone rurali di Africa, America ed Asia: persino negli Stati Uniti il tasso di povertà rurale è maggiore del 23% di quello urbano e in molte campagne il sostentamento delle famiglie di agricoltori dipende dai servizi sociali, dalle chiese e dalle mense gratuite.
Riducendosi le possibilità di campare con l’agricoltura, masse enormi di persone emigrano verso le città dove, per mangiare, sono costrette ad acquistare prodotti alimentari pronti e preconfezionati, il cui valore aggiunto va a beneficio dei fornitori commerciali di prodotti e servizi per l’agricoltura, degli intermediari di settore e dell’industria della lavorazione degli alimenti (Worldwatch Institute, 2002).
Va inoltre considerato che nei prossimi 3 decenni si prevede che la popolazione mondiale vivrà per ? negli agglomerati urbani, lontani da luoghi ove il cibo viene prodotto, e solo per ? in aree rurali. Già oggi, per la prima volta nella storia del genere umano, la popolazione urbana eccede, sia pur di poco, la popolazione rurale (FIDAF, 2001).
Malgrado questo esodo urbano la produzione di alimenti è aumentata a dismisura negli ultimi cinquant’anni, arrivando a superare la crescita demografica mondiale. Ciò naturalmente è avvenuto in maniera diseguale nei vari continenti ed è forse proprio questo uno dei paradossi più stridenti: che cosa si è fatto per rafforzare la produzione agricola proprio laddove c’è urgenza di cibo? Perché la moderna agricoltura non ha saputo realizzare “rivoluzioni verdi” anche in grandi nazioni o nelle aree marginali come il Sahel africano, le montagne andine o le foreste indonesiane?
E perché nel paese culla della rivoluzione verde degli anni ‘70, l’India, oggi autosufficiente per quanto riguarda il piano alimentare a livello nazionale, il numero di bambini gravemente denutriti è due volte e mezzo superiore a quello di tutta l’Africa subsahariana, ossia circa 70 milioni di individui?

 

Iniquità in alimentazione, diritto alla terra, opportunità socio-economiche

L’insicurezza alimentare è sicuramente causata da una iniqua distribuzione del cibo che viene prodotto sul nostro pianeta: cibo che in teoria potrebbe essere largamente sufficiente ad assicurare a tutti una corretta alimentazione.
La popolazione mondiale si divide in tre gruppi: 1,2 miliardi di persone “superconsumatrici” che mangiano l’equivalente di 850 chili di frumento l’anno (gran parte dei quali sotto forma di prodotti animali); 3,5 miliardi di “nutriti” che si alimentano con una dieta mista di 350 chili di grano equivalenti; 1,2 miliardi di “esclusi” che sopravvivono con 150 kg di grano equivalenti. Le tendenze attuali difficilmente colmeranno queste ineguaglianze, mentre la popolazione mondiale arriverà a 10 miliardi nel 2050 e la superficie agraria utilizzabile per persona calerà dagli attuali 0,8 a 0,5 ettari. Anche con l’attuale produttività, questa popolazione potrebbe essere sostenuta se il cibo fosse equamente distribuito.
Altro elemento cruciale per una più equa distribuzione della produzione agricola sono le riforme agrarie: nella gran parte dei paesi la maggioranza dei terreni agricoli appartiene ad una minoranza elitaria, che determina per lo più il modo in cui tali terreni vengono utilizzati.
Non sono necessarie grandi superfici per risolvere grandi problemi come quello della fame: anche piccole porzioni di terreno per un orto ed una casa possono garantire ad una famiglia una buona alimentazione, oltre che uno status ed un salario più elevati ed una maggiore probabilità di accesso al credito.
A questo raramente accedono le donne: nei Paesi in via di sviluppo lavorano i campi, piantano i semi, estirpano le erbe infestanti, trasportano l’acqua necessaria per i campi e la casa, procurano il cibo e lo cucinano, ma i programmi di sviluppo rurale in genere le ignorano costantemente, discriminandole e favorendo gli uomini nella concessione di crediti e di altri servizi (Worldwatch Institute, 2002). 

 

Ambiente

Il nostro pianeta, fino ad ora così generoso con i suoi inquilini, sta ora mostrando un grado di sofferenza crescente imputabile a cambiamenti climatici, effetto serra, deforestazione, desertificazione, riduzione della superficie coltivabile, delle risorse idriche, della dotazione di humus del suolo, della biodiversità; il tutto aggravato da un inquietante aumento del livello di inquinamento dell’aria, dell’acqua e del suolo (FIDAF, 2001).
Con l’abbandono di buona parte della sua originaria complessità ecologica, l’agricoltura ipertecnologica di oggi è diventata ancor più dannosa per l’ambiente globale, intensificando le inondazioni invece di ridurle, provocando emissioni di carbonio invece di conservarlo nel terreno, e distruggendo la biodiversità invece di salvaguardarla.
Malgrado i segnali di allarme si stiano avvertendo in tutti i sistemi agricoli mondiali, la maggior parte delle politiche agricole agisce ancora come un potente deterrente al passaggio a metodologie più pulite di produzione di alimenti. Un caso tipico sono gli oltre 320 miliardi di dollari che i governi dei paesi industrializzati spendono ogni anno a sostegno di un’agricoltura finalizzata alla produzione di pochi prodotti, principalmente mais, soia e carne: la loro disponibilità a prezzi accessibili ha ridotto in molti casi la biodiversità e ha consegnato il controllo del mercato nelle mani di pochi.
La liberalizzazione del mercato ha più che altro favorito i grandi agricoltori e le compagnie dell’agribusiness, esacerbando gli squilibri fra produttori ricchi e produttori poveri: oggi nel campo dell’agrochimica 5 società controllano il 65% del mercato globale dei pesticidi, nel campo delle sementi le 5 principali società controllano il 75% del commercio mondiale, pochissime società multinazionali controllano il 90% del commercio globale di caffè, cacao e ananas, l’80% del commercio del tè, il 70% di quello delle banane e oltre il 60% di quello dello zucchero.
I costi crescenti di questo sistema alimentare devastante stanno spingendo però sempre più agricoltori, scienziati, politici e consumatori di tutto il mondo verso un modello molto diverso, ispirato ai principi di agroecologia per andare incontro ai bisogni del territorio e delle persone che da esso dipendono. La stessa FAO in un suo documento (FAO, 2002) definisce l’approccio ecosistemico in agricoltura “fondamentale”.
Per molti versi si tratta di un approccio “sofisticato” in quanto dipende da una profonda comprensione delle interazioni ecologiche dei territori agricoli, ma, al tempo stesso, non molto lontano dalla saggezza millenaria con cui le popolazioni rurali di tutti i luoghi e culture hanno saputo adattare le risorse ambientali ai loro bisogni alimentari.
L’uso ottimale delle risorse e delle conoscenze locali la cui applicazione varia a seconda dei luoghi sembra portare a risultati migliori del ricorso a strumenti tecnici (sostanza chimica o ritrovato tecnologico) utilizzati ovunque allo stesso modo.

 

Ricerca di vertice ed educazione di base

Il vertiginoso aumento della produzione agricola, registrato in particolare nella seconda metà del secolo XX, è il risultato del massiccio contributo della ricerca scientifica e tecnologica (mai messa in discussione): contributo profuso in maniera globalizzata per tutto il secolo passato, malgrado la divisione del mondo in blocchi politicamente contrapposti.
La conoscenza scientifica e tecnologica che siamo riusciti ad accumulare negli ultimi decenni, pur essendo sicuramente la più vasta e la più profonda di tutta la storia dell’umanità, non è ancora sufficiente ad affrontare la più importante delle sfide: assicurare a tutti gli abitanti della terra, presenti e futuri, il loro diritto primario, quello della libertà dalle esigenze vitali; anche perché le risorse dedicate alla ricerca scientifica e tecnologica finalizzata allo sviluppo rurale sostenibile ed alla sicurezza alimentare sono in diminuzione in tutto il mondo (FIDAF, 2001).
Molte speranze vengo riposte nello sviluppo delle biotecnologie per la risoluzione del problema della fame: a nostro avviso, essendo tale problema determinato da una complessità di fattori (vedasi schede), il ricorso a tali tecnologie non risolverebbe ed anzi, in alcuni casi, acuirebbe il divario tra chi non ha niente e chi ha troppo. Fino ad ora le biotecnologie non si sono fatte carico dei bisognosi del mondo: il 98% delle colture geneticamente modificate si trovano in USA, Canada e Argentina e sono volte a produrre soia, mais, colza, cotone con tecnologie per lo più controllate dal sistema privato e protette da brevetti miranti a salvaguardarne l’esclusività dei profitti (Worldwatch Institute, 2002).
È indubbio che la ricerca scientifica pubblica a livello mondiale sia chiamata ad un dovere etico di sostenere l’impegno per affrancare l’umanità dal flagello della fame e che a questo scopo debbano essere convogliate dai governi risorse maggiori di quelle poco più che esigue fin qui stanziate. Ma, al di là della ricerca di vertice, avanzamenti maggiori nella lotta contro la fame potrebbero venire da una più ampia diffusione delle conoscenze culturali di base: un recente studio ha mostrato che in Cina, confrontando sei tipi di investimenti pubblici (strade, reti telefoniche, elettricità, irrigazione, istruzione e ricerca agronomica) nelle zone rurali, l’istruzione è risultato quello con il maggiore impatto sulla riduzione della povertà (IFPRI, 2000).

 

Il settimo impegno


Il tempo per le denunce e per le grandi campagne di sensibilizzazione è ormai scaduto: i fatti che abbiamo esposto esigono provvedimenti concreti e urgenti, esigono quanto meno il rispetto degli impegni, peraltro assai prudenti e cautelativi. La lotta alla fame non può prescindere dalla lotta alla povertà ed alla ineguaglianza sociale e deve essere affrontata primariamente con strumenti economico-politici.
Le politiche di sviluppo debbono essere focalizzate soprattutto sulle aree rurali del mondo, in quanto le attività agricole, se sostenute da un’adeguata innovazione tecnologica, sono in grado di aumentare quantitativamente e qualitativamente la produzione di alimenti e di conservare al contempo le risorse naturali. Lo sviluppo rurale è anche motore di sviluppo secondario, generando a sua volta quello di tutti i settori della società, e rappresenta quindi una leva fondamentale per ogni politica di attenuazione della povertà. Lo sviluppo rurale può inoltre migliorare le condizioni di vita delle popolazioni che vivono in campagna, contribuendo in tal modo a frenare il crescente fenomeno dell’inurbamento (FIDAF, 2001).
Se andiamo a vedere i 7 impegni che sottendono al Piano d’Azione del Vertice Alimentare Mondiale organizzato dalla FAO nel 1996 (vedi scheda) e che il Summit di Roma di giugno ha riaffermato di voler “rinvigorire”, gli strumenti per vincere la fame definiti dai rappresentanti di 181 Paesi sono già chiari e definiti per almeno 6 di questi punti.
Gli impegni si chiamano, in sintesi, democrazia, giustizia, sviluppo rurale, commercio equo, tutela dell’ambiente, investimenti. Il settimo impegno, forse quello più importante di tutti, è quello che sembra il più vago e che, a tutt’oggi, potremmo definire “volontà”. Forse proprio per questa sua importanza la Dichiarazione finale del Vertice FAO appena conclusosi a Roma ne evidenzia la centralità, affiancandolo alle “sfide” che ci aspettano e alle “risorse” da destinare per fronteggiarle. Alla “volontà politica” fanno riferimento i primi 12 punti della Dichiarazione che chiama il mondo ad una “alleanza internazionale contro la fame”, punti che, nella loro vaghezza, rischiano di reiterare vanamente impersonali affermazioni di impegno (FAO, 2002a).
Solamente attraverso il coinvolgimento diretto dei responsabili a livello decisionale sarà possibile mobilitare la volontà politica necessaria e garantire che le dovute decisioni siano prese dalle persone la cui influenza incide su tutti i settori della società coinvolti nella lotta contro la fame.
È sempre più importante che ogni paese adotti le misure essenziali per accelerare i cambiamenti più congrui affinché tutti gli impegni presi vengano effettivamente realizzati, nel rispetto del proprio autonomo modello di sviluppo.
Se ognuno saprà fare concretamente e responsabilmente la propria parte, l’umanità tutta potrà fare un grande passo in avanti verso una civiltà davvero planetaria.


FAME NEL MONDO DELLE INGIUSTIZIE

Paesi in via di sviluppo

• Ogni anno nel mondo sono 30 milioni le morti per fame (Dati FAO 1998).

• 828 milioni sono vittime di malattie, epidemie e carenze nutrizionali acute. Uomini, donne e bambini (circa il 20% dell’umanità) che hanno subìto lesioni irreversibili che limitano la durata e la qualità della loro vita (handicap come cecità, rachitismo, sviluppo insufficiente delle capacità cerebrali, ecc.)

• La sottoalimentazione ormai cronica in molti PVS ha origini storiche ed economiche.

• La carestia colpisce l’Est e il Sud dell’Asia (550 milioni - il 18% della popolazione), il 35% dell’Africa (170 milioni nell’Africa subsahariana) ed il 14% dell’America Latina e Caraibi.

• I ¾ dei “gravemente sottoalimentati” del pianeta vivono nelle campagne. ¼ sono abitanti delle bidonville intorno alle megalopoli del Terzo Mondo.

• Nelle guerre locali i capi dei PVS dilapidano le già povere risorse dei loro Stati in cui dilaga la corruzione.

• I paesi del Terzo Mondo hanno un pressante bisogno di infrastrutture. Mancano di capitali, di strade, di sementi adeguate, di riserve alimentari.

• Iniqua distribuzione delle terre: in 28 delle 44 nazioni analizzate dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro, il 10% dei proprietari terrieri controlla oltre il 40% delle terre. In India circa il 9% della popolazione rurale possiede il 44% della terra coltivabile; in Namibia circa 4000 bianchi (meno dell’1% della popolazione) possiede il 44% del territorio; in Sudafrica la popolazione di colore, pari al 75% della popolazione totale, occupa il 15% del territorio; nello Zimbabwe 70 mila bianchi (lo 0,5% della popolazione) possiedono il 70% del territorio: 4000 bianchi possiedono circa ? della terra coltivabile. In Brasile solo il 3% della popolazione possiede ? del territorio.

• Altri elementi che contribuiscono a questo flagello: odi fra i potentati locali, guerre per il controllo delle ricchezze naturali, instabilità istituzionale, rifiuto di collaborazione con l’ONU e con le organizzazioni umanitarie, catastrofi naturali (uragani, siccità) e alterazione dei sistemi naturali (cambiamenti climatici, deforestazione, desertificazione).

• La desertificazione colpisce 3,6 miliardi di ettari, circa il 70% del potenziale produttivo delle terre delle zone aride, minacciando circa 1 miliardo di persone. La rapidità della sua progressione fa perdere quasi 6 milioni di ettari all’anno.
In Africa circa ? della superficie è costituita da deserti o zone aride: il 73% di esse sono già mediamente o gravemente degradate.
In Asia la desertificazione colpisce quasi 1,4 miliardi di ettari: il 71% delle terre aride del continente è mediamente o gravemente degradato.
Nel bacino del Mediterraneo quasi i ? delle terre aride della zona settentrionale sono già gravemente degradati.

• La FAO valuta che le terre sfruttate più o meno correttamente nei PVS ammontino a 700 milioni di ettari. Secondo la medesima organizzazione questa cifra potrebbe essere moltiplicata per due nel prossimo decennio e questo senza procedere a nessuna deforestazione, senza toccare le aree protette e senza alcun rischio di degrado per il suolo.


Paesi tecnologicamente avanzati

• Il problema della fame nel mondo è un problema sociale: le centinaia di milioni di persone che muoiono ogni anno di sottoalimentazione grave soccombono a causa dell’ingiusta distribuzione degli alimenti disponibili sul nostro pianeta.

• Sul pianeta esistono risorse alimentari sufficienti a nutrire quasi il doppio della sua popolazione. Già più di 15 anni fa la FAO in un suo rapporto aveva affermato che il mondo, in base all’attuale stato della capacità produttiva agricola, potrebbe nutrire senza alcun problema più di dodici miliardi di esseri umani.

• ¼ dei cereali prodotti nel mondo è usato per nutrire i bovini dei paesi ricchi.

• Nel Nord del mondo il consumo di alimenti è eccessivo e provoca danni alla salute: le statistiche sulla salute relative ai paesi industrializzati mostrano un aumento d’incidenza delle malattie causate da eccesso di nutrizione.

• Il consumismo genera sprechi: l’americano medio acquista grandi quantità di alimenti ed è dimostrato che ¼ della quantità non viene mai consumato, va a male nei supermercati o nei frigoriferi delle famiglie e poi gettato nella spazzatura.

• La logica del mercato mondiale costringe le nazioni povere a sviluppare monocolture utili solo per l’esportazione e i cui proventi non arricchiscono le popolazioni: in Africa e negli altri continenti le diverse potenze europee imposero ai coltivatori, durante il colonialismo, la coltura di specie vegetali utili alle industrie e ai mercati europei. Le terre coltivabili sono state così monopolizzate dalle colture d’esportazione di cui i governi locali non controllano neppure il prezzo di vendita sul mercato mondiale, mentre la coltivazione di prodotti alimentari diminuisce incessantemente.

• Contemporaneamente ci sono speculazioni sui prezzi degli alimenti di prima necessità, che impediscono un’equa distribuzione di tali risorse. Uno dei fattori che incidono sul problema della fame nel mondo è il prezzo di acquisto delle materie prime agricole. I prezzi delle materie prime agricole obbediscono unicamente al principio della massimizzazione dei profitti.
Il sistema in base al quale si determinano i prezzi dei beni alimentari sul mercato mondiale è molto complesso, ma sostanzialmente il ruolo principale è svolto dal volume dei raccolti, dal prezzo di trasporto, dalle manipolazioni speculative dei finanzieri e dalla domanda mondiale.
Il prezzo di tutti gli alimenti naturali che si acquistano sul mercato è determinato dalla legge della domanda e dell’offerta, ma anche seguendo le strategie del dumping (immissione improvvisa sul mercato di enormi quantità di prodotto che fa crollare il prezzo) o quelle, al contrario, dello stoccaggio (che crea invece una penuria artificiale e fa salire i prezzi), praticate dalle società multinazionali che commerciano questi prodotti agricoli. È dunque un prezzo speculativo, spesso gonfiato artificialmente.

• Le peggiori carestie sono causate da guerre locali che l’Occidente appoggia politicamente o tramite la fornitura di armi.

• Il soccorso d’emergenza, gli aiuti per il recupero del terreno, la lotta contro la desertificazione, la costruzione di infrastrutture permanenti nelle bidonville, il sostegno all’agricoltura, la trivellazione di pozzi, tutte queste operazioni sono in fin dei conti soltanto palliativi, misure provvisorie e temporanee. Gli aiuti umanitari urgenti soffrono infatti di una tara ormai evidente: raramente i donatori si interrogano sulla qualità delle strutture sociali, politiche ed economiche del paese beneficiario degli aiuti. Se esse sono guaste, ingiuste o dominate dalla corruzione i donatori più o meno inconsapevolmente rafforzano il potere dei ricchi, cementano strutture sociali ingiuste e rispediscono i poveri alla loro miseria e ad uno sfruttamento ormai secolare.

• L’economia e la vita civile in Africa e in altri continenti sono strangolate dal debito verso i paesi esteri. Attraverso gli interessi, l’Africa ha pagato, tra il 1980 e il 1996, il doppio dell’ammontare del debito contratto. E per tragico paradosso, oggi l’Africa ha tre volte i debiti che aveva nel 1980. Per un dollaro di aiuto ricevuto dal Nord del mondo ce ne sono tre che partono dall’Africa verso i paesi occidentali. L’Africa paga ai creditori dei paesi ricchi 13 milioni di dollari ogni anno. Secondo l’UNICEF ne basterebbero 9 in più di aiuti per salvare la vita di 11 milioni di persone.

 

URBANIZZAZIONE


• Il numero degli abitanti delle città cresce tre volte più velocemente della popolazione mondiale nel suo insieme: il suo tasso annuale è in media del 4,7% mentre quello della popolazione mondiale globale è dell’1,6%.

• Se questa pressione demografica continua nel 2015 ci saranno almeno 7,1 miliardi di esseri umani sulla Terra e più del 60% vivrà nelle città (la stragrande maggioranza di questi nuovi abitanti vivrà nelle bidonville)
Nel 1999 quasi il 70% dei latinoamericani popolava le città (la maggior parte di loro nelle favelas); in Africa il 35% della popolazione abitava in città, ma si stima che nel 2025 vi abiterà oltre la metà di essa. 

• Le cause di questa rapida crescita della popolazione urbana sono molteplici:
1. l’esodo rurale;
2. l’impoverimento delle campagne;
3. l’agricoltura intensiva meccanizzata e industrializzata rispondente alla necessità d’esportazione degli Stati;
4. la desertificazione.


IL VERTICE MONDIALE SULL’ALIMENTAZIONE E IL SUO SEGUITO

Il Vertice Mondiale sull’Alimentazione ebbe luogo tra il 13 e il 17 novembre 1996. Furono cinque giorni di incontri al più alto livello con i rappresentanti di 185 paesi e della Comunità Europea. Questo evento storico, svoltosi nel Quartier generale della FAO a Roma, riunì quasi 10.000 partecipanti e fornì un forum di discussione su una delle questioni più importanti che devono affrontare i leader del mondo nel nuovo millennio: l’eliminazione della fame.
L’adozione da parte di 112 Capi o vice Capi di Stato e di Governo, e di oltre 70 rappresentanti di alto livello di altri paesi, della Dichiarazione di Roma sulla Sicurezza Alimentare Mondiale e del Piano d’Azione del Vertice Mondiale sull’Alimentazione, in un incontro che vide inoltre l’attiva partecipazione, tra gli altri, di rappresentanti delle organizzazioni inter-governative (IGO) e delle organizzazioni non governative (ONG), ha fornito un quadro di riferimento per la realizzazione di importanti cambiamenti nelle politiche e nei programmi necessari per raggiungere l’obiettivo del Cibo per Tutti.

 

Gli Impegni del Piano d’Azione del Vertice Alimentare Mondiale

Impegno n. 1: assicureremo un valido ambiente politico, sociale ed economico mirante a creare le condizioni migliori per l’eliminazione della povertà e per una pace duratura, basato sulla partecipazione piena e a pari titolo degli uomini e delle donne, ossia l’ambiente più adatto a conseguire una sostenibile sicurezza alimentare per tutti.

Impegno n. 2: realizzeremo politiche finalizzate all’eliminazione della povertà e della diseguaglianza e al miglioramento dell’accesso fisico ed economico di tutti, in ogni momento, a una provvista di cibo sufficiente, nutrizionalmente adeguata e sicura, garantendone l’efficace utilizzazione.

Impegno n. 3: perseguiremo politiche e pratiche partecipatorie e sostenibili, nelle aree ad alto come in quelle a basso potenziale, nel campo dell’alimentazione, dell’agricoltura, della pesca, della silvicoltura e dello sviluppo rurale; politiche e pratiche indispensabili per poter disporre di scorte alimentari adeguate e affidabili a livello familiare, nazionale, regionale e globale, e per combattere i parassiti, la siccità e la desertificazione, tenendo conto del carattere multifunzionale dell’agricoltura.

Impegno n. 4: ci batteremo per assicurare che le politiche alimentari e le politiche commerciali (sia quelle generali sia quelle relative ai prodotti agricoli) siano tali da promuovere la sicurezza alimentare per tutti attraverso un sistema commerciale mondiale equo e orientato al mercato.

Impegno n. 5: ci adopereremo per prevenire (e comunque per essere preparati ad affrontare) le catastrofi naturali e le emergenze provocate dall’uomo, e per soddisfare le necessità alimentari transitorie e di emergenza in modi che incoraggino la ripresa, la ricostruzione, lo sviluppo e la capacità di far fronte ai bisogni futuri.

Impegno n. 6: favoriremo l’allocazione e l’utilizzazione ottimali degli investimenti pubblici e privati al fine di promuovere, nelle aree ad alto come in quelle a basso potenziale, le risorse umane e sistemi sostenibili nel campo dell’alimentazione, dell’agricoltura, della pesca, della silvicoltura e dello sviluppo rurale.

Impegno n. 7: realizzeremo, verificheremo e svilupperemo ulteriormente questo Piano d’Azione a tutti i livelli, in collaborazione con la comunità internazionale.

 

PAESE CHE VAI, FAME CHE TROVI...

BRASILE

• Il paese è tra i maggiori esportatori di cereali al mondo, ma negli Stati del nordest la sottoalimentazione provoca ogni anno vere e proprie stragi.

• L’1% dei proprietari terrieri controlla il 43% delle terre arabili; solo il 3% della popolazione possiede ? del territorio. Nel 1999, 153 milioni di ettari di terreno sono incolti, 5 milioni di contadini sono senza terra e le loro famiglie vagano sulle strade di questo immenso paese.


RUSSIA

• Nel 1997 una commissione di nutrizionisti, medici, antropologi, incaricata da Boris Eltsin di valutare i danni prodotti dalla fame e dalla sottoalimentazione cronica nei popoli della Federazione russa, ha pubblicato le seguenti conclusioni: nelle classifiche della speranza di vita media gli uomini della Federazione occupano la 135ma posizione nel mondo, le donne la 100ma.

• Mentre prima del 1991 (data della caduta dell’Unione Sovietica) la speranza di vita media era perlopiù identica a quella degli europei e degli americani, oggi è paragonabile a quella dei cambogiani e degli afgani. Un cittadino russo muore 17 anni prima di uno svedese e 13 prima di un americano.


SENEGAL

• Le arachidi prodotte dai contadini vengono acquistate dal governo ed esportate in Europa. In genere il contadino riceve per il prodotto un prezzo molto inferiore rispetto a quello realizzato dal governo con l’esportazione. Con tale differenza il regime finanzia, tra l’altro, una burocrazia parassitaria ed il lusso inaudito di molti suoi dirigenti.

• Il riso è l’alimento principale in Senegal e viene prevalentemente importato! Con una parte dei guadagni ottenuti dall’esportazione delle arachidi il governo compra riso in Thailandia, in Cambogia ed in altri paesi: le importazioni sono prossime alle 400 mila tonnellate annue. In questo modo il Senegal è diventato sempre più dipendente dai paesi stranieri per la sua risorsa alimentare di base.


Bibliografia

AAVV (1996): Voce “Fame” in: “Società Internazionale” - Collana “I Dizionari”. Jaca Book, Milano.
FAO (2001): La situazione mondiale dell’insicurezza alimentare. SOFI 2001
FAO (2002): Sicurezza alimentare e ambiente. Roma.
FAO (2002a): Declaration of the World Food Summit: Five years later – International Alliance Against Hunger. Roma
FIDAF - Federazione Italiana Dottori in Agraria e Forestali (2001): 5 anni dopo: ancora fame nel mondo. Agriculture
GREHG (1990): La geografia economica del nostro tempo. Zanichelli, Bologna
IFPRI (2000): Public investment and regional inequality in rural China. Washington (USA)
SALTINI Antonio (1996): I semi della civiltà. Edizioni Avenue Media, Bologna.
VELTRONI Walter (2000): Forse Dio è malato. Rizzoli Libri, Milano.
WORLDWATCH INSTITUTE (2002): State of the World ‘02. Edizioni Ambiente
ZIEGLER Jean (1999): La fame nel mondo spiegata a mio figlio. Nuova Pratiche Editrice, Milano.

Stampa

Verso l'attuazione di un Diritto, di una Cultura, di un'Educazione utile alla salute dell'uomo e dell'ambiente: una grande sfida per l'Italia del XXI secolo

"L'ambiente deve essere protetto col più ampio consenso e con una crescente consapevolezza di tutti i cittadini ; dall'ambiente dipendono sempre più la salute e la qualità della vita di ciascun cittadino, ma anche la possibilità di uno sviluppo reale e duraturo".

Con queste parole il Ministro dell'Ambiente introduce la Sintesi della III Relazione sullo stato dell'ambiente (1996), un documento che offre un quadro conoscitivo sintetico della situazione ambientale in Italia e che, oltretutto, esce a dieci anni dall'istituzione del Ministero dell'Ambiente.
Il bilancio della politica ambientale italiana di questo ultimo decennio mostra, accanto a elementi positivi, tutta una serie di elementi di grave problematicità :
· una legislazione complessa, stratificata, spesso contraddittoria ;
· una scarsa efficacia attuativa di tali norme sul piano amministrativo e giudiziario ;
· inefficienza dei controlli attuati dalla pubblica amministrazione ;
· l'esistenza di un sistema di corruzione che ha lucrato su progettazioni e realizzazioni d'opere ad alto impatto ambientale ;
· una fitta rete di criminalità organizzata che ha prosperato in assenza di una forte presenza delle Istituzioni ;
· difficoltà economiche e finanziarie che hanno limitato gli investimenti pubblici e privati nel settore ambientale ;
· i problemi legati ai conflitti con i lavoratori a difesa dei posti di lavoro in aree ad alto rischio industriale ;
· la pressoché totale assenza di un reale coordinamento con gli altri Ministeri interessati al governo e alla salute del territorio .

Da queste considerazioni emerge (paradossalmente proprio in Italia, Paese che dai beni culturali e ambientali trae tanta parte del proprio benessere economico!) la mancanza di una "cultura dell'ambiente" capace di integrare anziché conflittualizzare le apparenti antinomie ambiente/sviluppo sociale, tutela giuridica/interessi economici, Stato/Istituzioni locali.
Le cause di questo "handicap culturale" sono certamente molteplici : esso risente certamente di mali comuni all'insieme del sistema politico e partecipativo dei cittadini alla gestione della nostra appena cinquantenne "res publica" ma è necessario che esso non si trasformi in una specie di malattia ereditaria, trasmessa alle nuove generazioni alle soglie del Terzo millennio.
Il quadro globale della situazione spinge dunque ad una serie di riflessioni che dovrebbero servire soprattutto da stimolo a riconsiderare, costruttivamente, le finalità ed il ruolo che la tutela dell'ambiente deve avere in un Paese che si ritiene "culla di civiltà" più che millenaria.
Al di là delle giustificazioni legate alle ridotte dimensioni dell'apparato ministeriale, allo squilibrio tra competenze e funzioni sempre maggiori che è chiamato a svolgere, alle sue insufficienti dotazioni di organico e di finanziamenti, l'Istituzione centrale dello Stato in questo ambito ha bisogno di fare chiarezza soprattutto sugli obiettivi principali per avviare una nuova politica ambientale di Governo.
Qualità dell'acqua dei fiumi, dissesto idrogeologico, rifiuti, inquinamento da traffico nelle grandi città sono le quattro frontiere che l'attuale titolare del Dicastero segnala come "prioritarie".
Ma come affrontarle sperando in un qualche successo se non si rimuovono a monte le cause su accennate che hanno, di fatto, limitato e talvolta del tutto impedito l'azione di governo in tutti questi anni ?


Prospettive di realizzazione del "Diritto all'ambiente"

In questi ultimi trent'anni si è verificata un'enorme crescita di sensibilità e di interesse per i gravi problemi posti dalla manipolazione della natura da parte dell'uomo, sia per effetto di un miglioramento delle conoscenze scientifiche al riguardo sia per l'evoluzione delle concezioni sul rapporto uomo/ambiente con le rilevanti implicazioni che esse hanno comportato anche sul piano normativo.
Il diritto all'ambiente rientra a tutti gli effetti tra i diritti umani fondamentali, così come espresso, in primo luogo, nella dichiarazione finale della Conferenza delle Nazioni Unite sull'Ambiente (Stoccolma, 1972) e ribadito dal rapporto alla Commissione mondiale per l'ambiente e lo sviluppo, creata dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 1983: da allora numerosi Stati hanno introdotto, nelle loro costituzioni o legislazioni, il riconoscimento del diritto ad un ambiente adeguato e l'obbligo per lo Stato di proteggerlo.
Con la Conferenza mondiale sull'ambiente e lo sviluppo (Rio de Janeiro, 1992) - che ha visto riuniti Capi di Stato e di governo di 183 Paesi - più che diritto l'ambiente diventa un dovere dell'uomo, al quale corrisponde quello che nella sostanza potremmo chiamare il "diritto" della natura ad essere considerata e protetta nel quadro di un equilibrio generale uomo/natura, requisito fondamentale per la sopravvivenza di entrambi e del progresso e sviluppo umano.
Si è giunti così - almeno formalmente, finora - a sostanziare in precisi fondamenti giuridici il lungo dibattito sull'etica della responsabilità dell'uomo verso la natura.
Ma fino a che punto le leggi e l'azione di uno Stato riescono da sole a realizzare un effettiva tutela dell'ambiente a beneficio dei suoi cittadini ?
In una ricerca triennale, realizzata per conto del Consiglio Nazionale delle Ricerche, dal Dipartimento di Ecologia del CEU, in collaborazione con il Dip.to di Scienze Giuridiche e Diritti Umani, dedicata all'analisi ed alla comparazione tra lo stato dell'ambiente in Italia e la legislazione nazionale in materia (C.E.U., 1992) sono chiaramente emersi i limiti di un sistema informativo e normativo che non genera motivazioni alla partecipazione nell'individuo e che figura spesso ai margini della programmazione dello sviluppo del Paese, salvo poi riscoprirne la centralità nel momento delle emergenze e dei disastri "naturali", inevitabile conseguenza di questa incuria individuale e sociale.
A questo proposito l'ultima Relazione sullo stato dell'ambiente del Ministero segnala "la scarsissima attenzione da parte dei media sugli argomenti ambientali (solo lo 0,1% di tutte le ore di trasmissione) spesso solo in occasione di catastrofi .
Ritornando alla nostra ricerca per il CNR, in essa si evidenziava lo scollamento esistente spesso tra normativa e realtà oggettiva, la scarsa capacità da parte dell'ordinamento statuale di concretizzare in un effettiva azione di tutela ambientale e di prevenzione una pletora di leggi non coordinate e, talvolta, in stridente contrasto fra loro.
Nella parte conclusiva e propositiva, infine, veniva sottolineata l'importanza di una corretta impostazione dell'educazione ambientale, intesa come strumento di formazione di una coscienza ambientale motivante al rispetto delle norme naturali e giuridiche.

 

Verso una Scienza e una Coscienza della Vita

Sensibilità ambientale e studio dell'ambiente e delle sue capacità autoregolative sono al tempo stesso frutto di una evoluzione culturale (scientifica e tecnologica) e motore di una trasformazione sociale e produttiva fin qui attuata, come abbiamo già detto, per lo più per necessità (sotto la spinta delle emergenze: Seveso, Bhopal, Chernobyl, per citarne solo alcune).
L'esperienza fin qui accumulata dovrebbe spingerci invece ad una precisa scelta di voler imboccare la strada di una evoluzione cosciente dell'umanità tutta, nel rispetto dell'ambiente da cui essa (volente o nolente) dipende per l'alimentazione, la salute, l'energia, la vita.
Ma per scegliere bisogna conoscere ed è quindi necessario approfondire le conoscenze da un punto di vista scientifico sia sull'ambiente e la sua fisiologia (per prevenirne la patologia) sia sull'uomo, sui meccanismi neuropsicologici che spingono a comportamenti distruttivi nei confronti delle risorse naturali.
Le problematiche derivate dalla manipolazione dell'ambiente da parte dell'uomo, in effetti, dovrebbero essere analizzate innanzitutto sotto il profilo della "manipolazione delle informazioni" che pilotano l'opinione pubblica verso l'accoglimento o il rifiuto delle trasformazioni ambientali, spesso solo in base a fattori emotivi.
Per poter quindi realizzare concretamente nelle società di tutto il mondo quel Diritto all'ambiente, ormai sancito a livello internazionale, è necessario ribadire fortemente la necessità di una realizzare programmi educativi che rendano consapevole l'individuo dei meccanismi cerebrali che determinano i nostri comportamenti, per far si che le nostre scelte siano veramente nostre e non dettate da condizionamenti altrui.
Una educazione scientifica integrata alla vita, ispirata a valori universali, siamo certi potrebbe offrire orizzonti nuovi al Paese non solo per attuare una effettiva tutela ambientale ma utili anche ad una Scuola in molti casi avulsa dalla realtà storica e territoriale, incapace ormai di seguirne il dinamismo e di coinvolgere i giovani su temi e problemi utili alla loro crescita culturale e individuale.


Cooperare per una "Cultura dell'ambiente"

In effetti ci sembra necessario rimarcare la necessità di un impegno più incisivo proprio in quel settore cui accennava il Ministro dell'Ambiente nell'Introduzione alla Relazione sullo Stato dell'Ambiente in Italia 1996 : investendo cioè "nella consapevolezza di tutti i cittadini. "
Trattasi certo di "investimento a lungo termine", che poco si confà agli interessi politici "a breve" che hanno finora caratterizzato la scena politica italiana ma si tratterebbe sicuramente di un buon investimento, a costi assai bassi e a rendimenti costanti nel tempo.
La proliferazione "tumorale" di norme giuridiche non incentiva ma semmai ostacola il rispetto dell'ambiente, soprattutto in un momento storico in cui il rispetto delle leggi è sempre più legato al grado di consapevolezza della loro utilità e di conseguenza alla motivazione dell'individuo e della società.
La sempre più accentuata attenzione da parte dei cittadini alla "qualità della vita" sotto il profilo del benessere individuale e sociale rappresenta un valore da coltivare nell'interesse di tutta la collettività, puntando molto soprattutto sulla prevenzione dei rischi non solo in campo ambientale ma anche in quello sanitario.
La consapevolezza degli stretti legami tra stato dell'ambiente e salute dell'uomo è stata "scoperta" solo in questi ultimi anni dalle grandi Istituzioni internazionali (OMS, 1992), sotto la spinta delle grandi emergenze planetarie e delle situazioni a livello locale, ma purtroppo l'operatività delle istituzioni a tutti i livelli (internazionale, regionale, nazionale, locale) rimane imprigionata in una separazione burocratica di funzioni, ruoli, competenze poco funzionale alla risoluzione di problemi complessi ed interfacciati quali quelli dello sviluppo demografico, economico, della povertà, della fame, della gestione delle risorse idriche, energetiche, dei grandi insediamenti urbani.
Tutti queste tematiche ambientali vedono al loro centro l'uomo, le sue capacità e la sua volontà politica di trovare delle soluzioni : cooperare per accrescere l'evoluzione della conoscenza e della coscienza di questo "minimo comune denominatore" dei problemi globali, può essere forse la strada giusta per risolverli.

 


Riquadro

LE QUATTRO GRANDI EMERGENZE AMBIENTALI IN ITALIA
(Dati tratti dalla Sintesi della III Relazione sullo stato dell'ambiente 1996 del Ministero dell'Ambiente)

· RIFIUTI
- Nel 1994 la produzione pro capite di rifiuti ha sfiorato i 400 kg.
- L'87% dei rifiuti urbani va direttamente in discarica, solo il 7 % accede alla raccolta differenziata mentre negli inceneritori ne passa il 6 %.
- Oltre 23.000 metri cubi di rifiuti radioattivi sono accumulati nei siti nazionali in cui erano stati prodotti e, nella maggior parte, devono ancora essere trattati e condizionati.

· TRAFFICO URBANO
- In rapporto alle emissioni totali di inquinanti prodotti dal trasporto stradale, il traffico urbano contribuisce per il 77% delle emissioni di ossido di carbonio, per il 39 % delle emissioni di anidride carbonica, per il 27% delle emissioni di ossidi di azoto, del 76% dei composti organici volatili e per il 29% delle particelle sospese totali, rendendo così assai grave lo stato dell'aria nelle grandi città.
- Il 72% della popolazione residente in ambiente urbano è esposto a livelli di rumore ampiamente superiori ai limiti di accettabilità definiti in ambito comunitario e fissati dalla normativa vigente in Italia.
- Nel 1994 in Italia sono stati registrati oltre 170.000 incidenti stradali con 6.578 morti e oltre 239.000 feriti : circa il 73% degli incidenti avviene nelle aree urbane.

· INQUINAMENTO DELLE ACQUE
- Il 30 % degli scarichi non ha alcuna depurazione e soltanto il 39% della popolazione usufruisce di una depurazione in grado di abbattere anche nitrati e fosfati.
- L'inquinamento chimico raggiunge le maggiori concentrazioni nel bacino padano, in relazione all'intenso sfruttamento agrozootecnico del suolo, all'elevata concentrazione di impianti industriali e all'inurbamento : l'80% dei casi di inquinamento di origine industriale è concentrato in questa area.

· DISSESTO DEL TERRITORIO

- Solo il 20% del territorio italiano (circa 60.000 kmq) può essere considerato significatamente non modificato dall'uomo.
- Per quanto riguarda la conoscenza del territorio e il suo controllo, le strutture tecniche dello Stato contano al 1995 solo su 427 dipendenti.
- Si spende, per interventi straordinari di emergenza, 5-6 volte almeno quello che si spende per la prevenzione ordinaria.

 

Stampa