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Ambiente

INCUBO URBANO

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Roma, settembre 2000. Lavori condominiali nel parcheggio interno dello stabile in zona Parioli dove lavoro. Per un mese e mezzo sperimento cosa vuol dire cercare un parcheggio ogni mattina, camminare con difficoltà per centinaia e centinaia di metri su marciapiedi resi impraticabili dagli escrementi dei cani o dai rifiuti che strabordano dai cassonetti.

Roma, ottobre 2000. Visita di controllo al Policlinico Gemelli di mio figlio Gabriele (2 mesi).
Dopo la visita decido di farmi una passeggiata a piedi con il piccolo nella sua carrozzina per le strade del quartiere Aurelio. Stravolto dal continuo zig-zagare per evitare auto e motorini parcheggiati sugli spazi pedonali, marciapiedi dai gradini altissimi, quasi impraticabili per le piccole ruote di una carrozzina, effluvi mixati di gasolio, benzine verdi e miscele irrespirabili, decido di non tornare più in città con il bambino, se non per motivi improcastinabili.

Io amo Roma: è la città dove sono nato e dove mi trattengono ancora tanti radici . Ma tanti anni fa ho deciso di andare ad abitare fuori città, in campagna. Molto probabilmente la percezione della mia città è mutata con gli anni e con l'età ma sempre più spesso mi interrogo sulla possibilità di adattamento alla città da parte di una persona particolarmente bisognosa di attenzioni (dovute ad una condizione temporanea o permanente di "a-normalità") come può essere un bambino, un anziano, un portatore di handicap.
Quando qualche anno fa, per un banale infortunio giocando a tennis, dovetti stare con una gamba ingessata per un mese, scoprii tutte le difficoltà di dovermi muovere con le stampelle in casa e fuori, di affrontare da "handicappato momentaneo" tante situazioni che ad un "normale" appaiono banali e scontate ma che possono diventare difficili per chi non è predisposto ad affrontare la "normalità".
Così allora, dopo un mese di immobilità forzata, dovetti reimparare a camminare: una cosa banale, direte voi, per chi lo faceva già da quarant'anni. Eppure, certi momenti mi veniva da piangere, nel vedermi incapace di fare un passo deciso, un percorso diritto.
All'ultimo, per liberarmi della stampella è stato necessario un forte atto volitivo: la mia andatura claudicante era solo frutto della paura di cambiare una postura solo momentanea ma che si era fortemente radicata nel mio cervello, facendomi dimenticare quella che fino a prima dell'incidente mi aveva consentito di fare una vita "normale".
E se un domani quella persona costretta dalle circostanze della vita a scoprire nuovi aspetti della realtà foste voi? Se da "automobilisti" diventaste "pedoni"? Se da adulti improvvisamente vi trasformaste in vecchi o in bambini? Probabilmente sareste costretti a cambiare ottica, come è capitato a me...


Un'antica invenzione umana...

Circa dieci o dodicimila anni dopo la prima comparsa del prototipo di agglomerato urbano e cinquemila anni dopo il suo definitivo affermarsi nel bacino mesopotamico, oggi abita in città oltre il 50 % della popolazione mondiale.
Nelle regioni del mondo in cui vivono le popolazioni più ricche tale soglia era stata superata già nel secolo scorso e, in alcune di esse, la popolazione urbana è quasi la totalità.
In Europa su 60 secoli circa di storia degli insediamenti urbani fino a due secoli fa il rapporto tra popolazione urbana e popolazione rurale è sempre stato di 1 a 9 per invertirsi solo negli ultimi 200 anni.
Un cambiamento radicale dunque che negli ultimissimi anni ha assunto ritmi sempre più veloci per cui oggi ci troviamo nel momento di passaggio tra un modello di città sviluppatosi attorno alle strutture produttive e sociali dell'economia industriale manifatturiera ed un nuovo modello di cui sappiamo ancora poco e soprattutto sul quale quasi mai il cittadino ha modo di esprimere la sua progettualità.
Oggi viviamo in città dove si svolgono attività per la maggior parte legate al settore terziario dei servizi ed in cui l'elemento preponderante è ancora la diffusione delle automobili e dei ciclomotori (diffusisi enormemente nel tentativo di risolvere i problemi di traffico e di parcheggio causati dalle auto).
Lo sviluppo delle tecnologie dell'informazione certamente darà una spinta decisiva alla formazione di un nuovo tipo di organizzazione delle città: l'avvento di macchine "time and labour saving" come i computer, strumenti che servono a far risparmiare lavoro e tempo e che cambiano l'organizzazione del lavoro che si deistituzionalizza e si distribuisce nello spazio, ci consentiranno sempre più di poter svolgere molte delle funzioni lavorative direttamente dalle nostre case.
Sta poi a noi far fruttare questo tempo risparmiato: il mercato ci propone tutta una serie di beni "time consuming" (dalle consolle elettroniche per i giochi alle attrezzature per la ginnastica passiva, dai televisori interattivi agli elettrodomestici collegati ad internet, dalle parabole con cui captare i programmi televisivi di altri continenti a tutti gli "intrattenimenti" che offre il moderno bricolage), che servono a consumare il tempo liberato e che ci riempiono progressivamente la casa.
Se le nostre case diventano sempre più comode che ne è della qualità delle strade e delle piazze delle nostre città dove un giorno si svolgeva la vita quotidiana di gran parte dei suoi abitanti?


Virtù private...

A giudicare dalle mie passeggiate romane, direi che nei quartieri alti della Capitale appare sempre più diffusa la tendenza ad abbellire attici e superattici di giardini pensili, pergole e fioriere per crearsi degli "angoli di campagna" privati in appartamenti urbani dal costo a metro quadro paragonabile forse a quello in Paradiso (del resto si sà che per i ricchi l'ingresso nell'Alto dei Cieli è piuttosto angusto... e quindi hanno pensato di farsene uno privato qui sulla Terra!).
In gran parte delle città infatti non ci sono più aree libere disponibili per il verde, anche se quasi tutte le case hanno un cortile, di solito grigio, lastricato di piastrelle e con pochi vasi di piante addossati alle pareti che, se non può essere usato come parcheggio per la vera protagonista della città contemporanea (l'automobile), resta uno spazio di servizio dove la gente passa in fretta.
In molte nazioni europee (Svizzera, Olanda, Svezia, Danimarca) però già da diversi anni sta prendendo piede l'idea di trasformare questi cortili interni in piccoli giasrdini, col prato al posto del cemento, alberi e cespugli al posto dei vasi, trasformandoli così in punto di incontro per gli adulti e in luogo di gioco per i bambini, al riparo da traffico e smog.
A Monaco, in Germania, i cittadini hanno già rinaturalizzato un migliaio di cortili interni per una superficie complessiva di circa 70 ettari, pari a quella del Westpark, il parco pubblico più grande della città. E tutto questo spendendo poco: è stato calcolato che, in 20 anni, per creare nuovi spazi versi sarebbe stata necessaria una spesa 50 volte superiore a quella sostenuta fornendo contributi direttamente ai cittadini.
Da noi il Comune di Torino ha deliberato di finanziare con un contributo fino al 50% dei costi totali sostenuti queste iniziative private, con un ulteriore aumento del 10% nel caso che due o più condomini decidano di abbattere i muri di divisione interna per creare un piccolo parco.


E (disser)vizi pubblici...

Le strade pubbliche, invece, assumono sempre più l'aspetto dell'inferno dantesco, lastricato... di buone intenzioni (per usare un eufemismo...).
Il problema numero uno è di natura... fisica: l'enorme numero di veicoli circolanti. L'indice di motorizzazione privata in Italia è passato dalle 4,8 auto ogni 100 abitanti del 1960 alle oltre 60 auto per 100 abitanti della fine degli anni 90.
La gestione del traffico e della mobilità urbana è ancora la vera emergenza-territorio per le anmministrazioni locali.
L'introduzione dei Piani urbani del traffico (Put), avvenuta ormai 8 anni fa, la novità dei Piani urbani di mobilità (Pum) e la massiccia previsione di strumenti di programmazione regionale e provinciale, di indirizzo e raccordo nei confronti di Put e Pum, non garantiscono da soli il decogestionamento del traffico e il miglioramento della qualità della vita nelle città, soprattutto quelle grandi.
Fondamentale è la presa di coscienza degli abitanti che i problemi urbani si devono e si possono risolvere modificando personali abitudini perverse e condizionamenti mentali che ci inducono poi a subire tutte le conseguenze nefaste delle nostre azioni.
Un esempio molto pratico: in Europa il 30% degli spostamenti in auto è per percorrere una distanza inferiore ai 3 chilometri! Tre chilometri che si potrebbero percorrere in 10-15 minuti con una bicicletta e in poco meno di una trentina di minuti a piedi, con utili ricadute sulla diminuzione dell'inquinamento
Alcuni esempi di come si possa arrivare a fare a meno di un uso ossessivo-compulsivo dell'automobile ci vengono dall'Europa (Amsterdam, Monaco di Baviera, Salisburgo) ma anche da Ferrara e Bolzano, da Bergamo e Mantova ci vengono esempi positivi di cittadinanze che hanno scelto di mettere pedoni e bici "al centro" del centro storico (mi si consenta il bisticcio di parole...)
Persino la nostra incontrastata capitale dell'auto sta diventando la città-motore per l'utilizzo della bicicletta. Torino, con oltre 400 chilometri di percorsi ciclabili all'interno della città e nella provincia, dimostra come sia realizzabile anche in una grande metropoli il progetto di sostituire in molte situazioni alla mobilità motorizzata quella basata sull'utilizzo della bicicletta.
L'impegno profuso dall'amministrazione capitolina nella gestione dei problemi del traffico urbano con l'incentivazione del trasporto pubblico nelle sue varie modalità alternative all'uso esclusivo dell'auto (linee ferroviarie e tramviarie, metropolitana) ha dato i suoi frutti anche se molto resta da fare. L'apertura di una gara per la privatizzazione dei servizi di bus in alcune aree della capitale è l'ultima sfida alle resistenze al cambiamento e alle lentezze spesso calcolate che si annidano nel cuore pigro dell'amministrazione della mobilità capitolina o nelle ottuse ostilità manifeste da parte di certe categorie commerciali.
Se il traffico diminuisce, in città si vive meglio e i commercianti continuano a vendere i loro prodotti come e meglio di prima: lo dimostrano le esperienze ormai radicate di città d'arte italiane e di tanti piccoli centri che hanno sperimentato con successo l'estensione delle aree pedonali e di quelle a traffico limitato.
A Roma (dove circolano ogni giorno 2 milioni di autoveicoli) con gli introiti della tariffazione della sosta in quasi 50.000 posti auto, sono stati realizzati 23 parcheggi di scambio (gratuiti in periferia e a pagamento nelle zone centrali) con oltre 9000 posti auto: sta ora ai romani riempirli lasciando fuori le automobili per godersi una città senza pari al mondo.
Altrimenti a cosa serve essere attorniati da ricchezze e beni artistici di ogni genere se non ne possiamo godere perchè sprechiamo il nostro tempo negli ingorghi del traffico o alla ricerca vana di un parcheggio?

La strada è ancora "maestra di vita"?

A giudicare dalla quantità di residui organici presenti sui marciapiedi del quartiere forse più altolocato di Roma dovremmo seriamente preoccuparci sulle possibilità di mantenere il nostro quinto posto nella classifica delle nazioni più avanzate del mondo.
Se fossimo giudicati non solo per il Pil (Prodotto interno lordo) ma anche in base ad altri parametri di civiltà, sicuramente meno complicati ma assai evidenti per chi soltanto si avventuri per certe strade dei quartieri residenziali della capitale, vedremo seriamente minacciata la nostra trimillenaria reputazione civica.
Certo, l'amore per gli animali è una nobile attestazione del grado di civiltà di un popolo ma che poi questo si ripercuota sulle condizioni igienico-sanitarie di un luogo pubblico mi sembra, francamente, solo segno di ignoranza, indolenza e di egoismo.
Basterebbero solo buona volontà e un minimo di attrezzatura al seguito per evitare di degradare quotidiananamente una città che, già ai tempi dei suoi più antichi re, si era dotata di una cloaca maxima per allontanare le deiezioni dei suoi abitanti e dei loro animali.
Se l'educazione del cane è lo specchio dell'educazione del padrone è fin troppo facile esclamare: "O tempora, o mores"...

La città per i bambini, secondo gli adulti

Nel numero scorso di "Cultura e Natura" nella rubrica "Notizie dalla ricerca medica" (a cura di Paola Guasco) veniva riportata la Dichiarazione per il diritto del bambino a un ambiente non inquinato, stilata nel settembre 1999 dal Comitato nazionale per la bioetica.
In questo documento vengono riportate le indicazioni per riconsiderare il problema della tutela ambientale in una prospettiva del tutto nuova, promossa nel nostro paese dalla sezione italiana dell'Isde, nota come "Medici per l'ambiente" (basata sulla ridefinizione dei parametri con i quali vengono misurate le soglie di tollerabilità dell'inquinamento ambientale, per ora tarati solo sulla popolazione adulta, prendendo come punto di riferimento la condizione fisiologica del bambino), affermazione di un principio etico che riporta in primo piano il problema stesso dei diritti dell'infanzia.
Se poi si tiene presente che tra i diritti rivendicati dalla Dichiarazione a vantaggio delle generazioni più giovani c'è anche quello di usufruire della bellezza dell'ambiente, appare evidente come le questioni poste sul tappeto non si fermino soltanto ai problemi più prettamente ecologici, ma abbraccino anche temi quali, per esempio, lo scempio urbanistico.
L'etnologa americana Margaret Mead, studiosa di antropologia culturale, così scriveva in un suo libro del 1966: "Nel costruire un quartiere che soddisfi i bisogni umani, dobbiamo cominciare con i bisogni dell'infanzia. Questi ci danno la base sulla quale possiamo costruire il 'contatto' con altri esseri umani, con l'ambiente fisico, con il mondo vivente, con le esperienze attraverso le quali si può realizzare la piena 'umanità' degli individui e delle collettività."
Chi più soffre la condizione urbana contemporanea sono infatti quei cittadini con meno potere, quelli senza voce (e senza voto), quelli senza automobili, quelli che non possono fuggire da città pianificate e funzionali a scopi incompatibili con i bisogni fondamentali dell'infanzia (movimento, socializzazione, autonomia, apprendimento, esplorazione, partecipazione).
Del resto cresce il riconoscimento anche da parte degli adulti che le nostre città sono sempre più insostenibili: a Istanbul, nel giugno 1996, i convenuti alla seconda Conferenza delle Nazioni Unite sugli insediamenti urbani (Habitat II) hanno confermato ufficialmente le preoccupazioni e le ammonizioni che erano nell'aria ufficiosamente da almeno tre decenni: gli attuali processi di sviluppo economico e di pianificazione e gestione urbana sono ecologicamente ed economicamente insostenibili.
Il rapporto tra sviluppo urbano e qualità della vita dei suoi abitanti più piccoli è al centro dell'attenzione internazionale in particolare dalla fine degli anni '80. Numerosi trattati e convenzioni internazionali e comunitari sono stati siglati da allora: dalla Convenzione ONU sui diritti dell'infanzia (1989) al Libro verde sull'ambiente urbano (1990), dalla Ricerca per una città senza auto (1991) e alla Carta delle città educative di Barcellona (1991), dall'Agenda 21 di Rio de Janeiro (1992) alla Carta di Aalborg (1994).
Tutti questi documenti - pur riconoscendo l'importanza di introdurre innovazioni tecnologiche e leggi che vietino o disincentivino le azioni dannose all'ecosistema città e che premino quelle che lo rendono più vivibile e sostenibile - sottolineano in particolare l'importanza di processi e strategie culturali che producano cambiamenti negli attegiamenti, nei comportamenti e nelle scelte dei diversi soggetti territoriali (dagli enti locali ai singoli cittadini, dalle associazioni di categoria alle imprese).
Lo scrittore e giornalista scozzese Colin Ward nel suo libro "Il bambino e la città", recentemente uscito anche in Italia, sottolinea la necessità di restituire l'iniziativa ai cittadini che dovrebbero partecipare direttamente alla vita del quartiere, progettare insieme agli urbanisti e trasformare lo spazio in cui vivono in spazio di crescita, non solo per i bambini. E' infatti molto importante attenuasre la crescente segregaziuone tra i due mondi, quello dell'infanzia e quello degli adulti.
Ciò che migliora la città per i bambini, la migliora anche per gli adulti: rivedere la città con gli occhi dei bambini, con un'ottica diversa, può aiutare a cambiarla.


La città per i bambini, secondo i bambini

Quando sono i bambini in prima persona ad immaginare come dovrebbe essere la loro città, ci offrono delle riflessioni contemporaneamente semplici e straordinarie. Dai risultati delle numerose esperienze di progettazione partecipata condotte nel nostro paese scaturisce un'idea di città molto diversa da quella attuale: sicura, socializzante, aperta ai bisogni delle categorie "deboli":

· I progetti dei bambini sono spesso su piccola scala, partono magari dall'adozione di un monumento (come nell'iniziativa realizzata per il sesto anno consecutivo a Palermo) o di una strada per ricostruire il sentimento di "proprietà" dei cittadini nei confronti del proprio territorio anche laddove l'azione disgregatrice della malavita organizzata tende ad impedire la formazione di un sentimento comune di cittadinanza e di protezione del tessuto connettivo naturale, sociale e culturale del luogo.

· I progetti sono per lo più localizzati nell'immediata vicinanza delle case, riducendo così la necessità di usare mezzi motorizzati e puntano alla trasformazione delle strade in aree pedonalizzate. Nelle Marche, il comune di Fano ha istituito il "Consiglio dei bambini" formato da un bambino e una bambina di ogni plesso delle scuole elementari, che si riunisce mensilmente e fa proposte e richieste su come vivere meglio la città, sviluppando per esempio le possibilità di compiere in sicurezza e autonomia il percorso casa-scuola.

· I bambini privilegiano il recupero e la riqualificazione architettonica, non richiedendo per lo più costruzioni nuove; utilizzano spesso materiali di recupero. Il Comune di Correggio (RE) ha svolto un'esperienza di progettazione partecipata coinvolgendo circa 700 bambini della scuola materna sul tema della casa (che cos'è; a cosa serve e perché; com'è fatta; come vorreste che fosse).

· Puntano ad una valorizzazione della natura presente nelle città (giardini ed orti urbani; piante commestibili locali; animali non esotici; acque e fontane) e delle potenzialità che possono scaturire dalla raccolta differenziata dei rifiuti e dal loro riciclo.


Conclusioni

Dalla creatività dei bambini ci vengono idee e progetti attuabili per umanizzare le nostre città.
Purtroppo quasi mai noi adulti siamo disposti ad ascoltarli, pressati come siamo dalla necessità di "parcheggiarli" (un pò come le nostre automobili) a scuola, in palestra o davanti ad un videogame o alla TV.
Peccato. Spesso servirebbe solo starli ad ascoltare per capire quali strade prendere, che genere di casa costruire, che tipo di vita fare insieme.
Gli ostacoli momentanei che ci si frappongono davanti talvolta sono dei piccoli campanelli d'allarme che squillano per segnalarci qualcosa che non va, per avvisarci che c'è forse qualcosa di sbagliato nella nostra organizzazione sociale.
Accorgersene è il primo passo per fare qualcosa per cambiare. In meglio, si spera...
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UN PREMIO PER LE CITTA' SOSTENIBILI ... DEGLI ADULTI


Si è svolta a fine maggio a Roma la Cerimonia conclusiva della Prima edizione del Premio per le Città sostenibili, istituito dal Ministero dell'Ambiente nel 1998, allo scopo di valorizzare le iniziative più innovative realizzate a livello urbano e ispirate al principio della sostenibilità ambientale.
Quest'anno sono state premiate quali città sostenibili Riccione, Ferrara e Palermo (ripettivamente per le categorie da 30.000 a 50.000 abitanti, da 50.000 a 250.000 abitanti e oltre 250.000) alle quali sono andati i primi premi - ciascuno di 250 milioni. I secondi premi (100 milioni) sono andati a Empoli, Prato e Torino. Dieci premi parimerito (70 milioni) sono stati attribuiti a Carpi, Cinisello Balsamo, Cremona, Modena, Padova, Potenza, Roma, Salerno, S. Giuliano Milanese, Siena.
I Comuni selezionati (73, candidatosi con più di 200 iniziative) sono stati premiati per essere stati attivamente impegnati nell'attuazione di politiche ambientali di competenza locale particolarmente innovative.

Queste le motivazioni per l'attribuzione dei premi

Selezione Comuni che ricadono nella fascia dimensionale i (da 30 a 50.000 abitanti).

La Commissione ha stabilito di attribuire all'unanimità:
- il Primo premio al Comune di Riccione per la candidatura "L'albergo ecologico: un marchio di qualità a Riccione". Motivazione: Per l'impegno nella realizzazione di un iniziativa che ha messo in atto strumenti innovativi con riferimento ad un settore divenuto ormai di rilevanza ambientale strategica, quale il turismo nelle aree costiere italiane più densamente urbanizzate, e un'azione che ha saputo valorizzare l'idea di partnership tra i diversi soggetti, risultati fondamentali per il suo successo. Il Comune di Riccione ha così sperimentato, in anticipo sulla realtà nazionale, una sorta di ecolabel, anche se minimale, definito con l'accordo volontario delle associazioni di albergatori e ambientaliste. I partner hanno inoltre promosso un'interessante iniziativa di sensibilizzazione rivolta agli operatori e ai turisti.
- Il 2° premio al Comune di Empoli per la candidatura "Costruire una città amica con la partecipazione". Motivazione: Per le interessanti modalità di coinvolgimento dei cittadini (e dei giovani in particolare) nella fase di attuazione del Programma di recupero del quartiere Avane e nel percorso di elaborazione del nuovo Piano Regolatore. I Laboratori di progettazione partecipata, sulla base dei quali é stata sviluppata l'iniziativa, hanno saputo proporre ed ottenere modifiche significative dal punto di vista ambientale dei progetti in discussione, e hanno rafforzato il senso di appartenenza dei cittadini al territorio.

In questa categoria dimensionale, la Commissione ha deciso di attribuire uno dei 10 premi "minori", ex aequo:
al Comune di S. Giuliano Milanese - "Il Centro Lineare di 5. Giuliano Milanese".
Motivazione: Per l'apprezzabile sforzo di costruzione di un accordo con partner istituzionali e privati che costituisce la condizione preliminare e fondamentale per l'attuazione di un progetto mirato al risanamento del centro abitato e alla riduzione dei rischi connessi all'inquinamento elettromagnetico.

Selezione Comuni della fascia dimensionale 2 (da 50.001 a 250.000 abitanti), La Commissione all'unanimità ha deciso di attribuire:
- il 1° Premio al Comune di Ferrara per l'iniziativa "Ufficio biciclette". Motivazione:
Per la scelta di promuovere in modo sistematico l'uso della bicicletta come modello di mobilità sostenibile effettivamente altemativo all'auto (la bici oggi a Ferrara viene utilizzata nel 44% degli spostamenti effettuati per fare la spesa). L'iniziativa ha, infatti, saputo cogliere e valorizzare tutte le opportunità di integrazione tra la bici e gli altri mezzi di spostamento (trasporto pubblico, mezzi privati, piedi,...), ha garantito l'offerta di servizi dedicati (bici card, bici park, bici a nolo,...) e ha saputo sviluppare una campagna di comunicazione molto efficace.
- il 2° Premio al Comune di Prato per l'iniziativa "L'acquedotto industriale della città di Prato". Motivazione: Per il contributo innovativo di un'iniziativa che interviene a tutela della disponibilità di una risorsa critica come l'acqua e agisce su un comparto produttivo idroesigente come il settore tessile, di grande rilevanza per il contesto industriale italiano. Il riutilizzo delle acque derivanti dall'impianto di depurazione garantisce un risparmio idrico molto importante. L'iniziativa è anche lodevole per l'ampia partecipazione degli attori economici coinvolti.

Proprio per la migliore qualità delle candidature presenti in questa fascia demografica, la Commissione ha altresì deciso di attribuire a questi Comuni, 8 dei 10 premi "minori ex aequo, previsti dal concorso. In particolare (in ordine alfabetico):
- al Comune di Carpi (MO) per l'iniziativa "Trattamento, recupero e riciclaggio dei beni durevoli". Motivazione: Per il carattere pilota, nel contesto regionale emiliano, della piattaforma di raccolta, smontaggio, trattamento e recupero di elettrodomestici. Il successo dell'iniziativa è misurabile nella quota elevata di beni recuperati e nella creazione di nuova imprenditoria.
- al Comune di Cinisello Balsamo (MI) per l'iniziativa "La raccolta differenziata per una Cinisello Balsamo sostenibile". Motivazione: Per la pluralità e la capillarità delle azioni sostenute, volte ad incrementare la raccolta differenziata ed il riciclo dei rifiuti. La campagna di iniziative tra loro coordinate ha infatti prodotto risultati tali da portare il comune, già nel '98, all'ottimo risultato del 47% di Raccolta Differenziata.
- al Comune di Cremona per l'iniziativa "Gestione integrata del ciclo dei rifiuti e del sistema energetico". Motivazione: Per i buoni risultati ambientali ottenuti, grazie ad un sistema integrato che copre per una quota significativa il fabbisogno di Thò~idàinento ùfbànòe 'di produzione elettrica, utilizzando tecnologie a mifìore impatto ambientale quali la cogenerazione e il recupero energetico dal trattamento dei rifiuti.
- al Comune di Modena per l'iniziativa "Modena in movimento". Motivazione: Per la qualità e l'efficacia di una strategia che interviene su un tema critico quale la mobilità urbana. Il comune dopo aver ottenuto negli scorsi anni risultati importanti attraverso il rafforzamento dei servizi di trasporto pubblico, ha nominato il proprio Mobility Manager assegnandogli l'incarico di offrire ai cittadini servizi alternavi alla mobilità su auto.
- al Comune di Padova per l'iniziativa "Padova energia". Motivazione: Per l'approvazione di un Piano Energetico Comunale che ha saputo individuare una pluralità di azioni, di cui numerose già in corso di realizzazione, volte alla riduzione delle emissioni climalteranti e alla valorizzazione delle risorse energetiche rinnovabili.
- al Comune di Potenza per l'iniziativa "Sistema urbano di connessione meccanizzata con il centro storico", Motivazione: Per l'efficacia dimostrata dall'adozione di un sistema di ascensori e scale mobili, utilizzate per collegare tra loro zone della città, che hanno ottenuto l'obiettivo di decongestionare il traffico e ottimizzare il trasporto pubblico e la qualità dei servizi pubblici nel centro storico.
- al Comune di Siena per l'iniziativa "Infrastrutture a larga banda per lo sviluppo sostenibile". Motivazione: Per l'installazione nel tessuto urbano di una rete di trasmissione dati e di un sistema di servizi tesi ad aumentare 1' accessibilità telematica ai servizi (riducendo così la domanda di trasporto) e finalizzato ad eliminare la presenza delle antenne TV sui tetti.
- al Comune di Salerno per l'iniziativa "La riqualificazione urbana come recupero integrato del territorio". Motivazione: Per l'apprezzabile approccio integrato al recupero ambientale del territorio urbano, che si è sviluppato con un programma di azioni dedicate alle tematiche dei rifiuti, del dissesto idrogeologico, del recupero delle cave, dello sviluppo di aree a parco.

Selezione Comuni della fascia dimensionale 3 (oltre 250.00i abitanti).
All'unanimità la Commissione ha deciso di attribuire:
- il 1° premio al Comune di Palermo, per il "Parco agricolo di Palermo". Motivazione: Per l'elevato numero e la qualità dell'insieme delle iniziative candidate dal Comune, tra le quali l'iniziativa premiata emerge per la sua esemplarità e per il fatto di rappresentare un esempio innovativo di riqualificazione ambientale e socio-economica di territori agricoli periurbani, quali quelli dell'area di Ciaculli nella Conca d'Oro. Grazie all'iniziativa è stata recuperata la capacità produttiva dell'area agricola, sviluppando nel contempo funzioni di rigenerazione del paesaggio naturale e urbano o occasioni di fruizione per i cittadini. L'azione ha inoltre saputo coinvolgere attivamente gli agricoltori dell'area e ha offerto opportunità di nuova occupazione ai giovani.
il 2°premio al Comune di Torino per l'iniziativa "The Gate living, not leaving".
Motivazione: Per l'alto livello di innovazione di un programma di azioni tra loro integrate, che agisce in un quartiere centrale di Torino, caratterizzato da situazioni di disagio e degrado. Il Programma è riuscito ad individuare le strategie per valorizzare le risorse sociali e il patrimonio edilizio presente, e sta attivando azioni diverse nel campo dell'integrazione sociale, della vivibilità, del risparmio energetico, della riqualificazione ambientale e urbana. La sua gestione vede la partecipazione attiva di tutte le componenti sociali e sta creando occasioni concrete di nuova occupazione.

'Per-questa ultima categoria -dimensionale, la Commissione ha stabilito di attribuire uno dei premi minori ex-aequo:
- al Comune di Roma per l'iniziativa "La rete ecologica alla base del Nuovo Piano Regolatore Generale". Motivazione: Per il numero e la qualità delle iniziative candidate, tra le quali l'iniziativa premiata, pur non ancora compiutamente realizzata, evidenzia le potenzialità ambientali positive risultanti dall'integrazione di strumenti di valorizzazione delle reti ecologiche presenti nel tessuto urbano, all'interno dei piani urbanistici comunali.

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UN PREMIO PER LE CITTA' SOSTENIBILI ... DELLE BAMBINE E DEI BAMBINI


Il riconoscimento quest'anno è andato a queste città, grandi e piccole, che hanno promosso iniziative per la sostenibilità delle aree urbane coinvolgendo direttamente bambine e bambini nelle iniziative.
Il decreto prevedeva l'attribuzione del riconoscimento di "Città sostenibile delle bambine e dei bambini" scelta tra i Comuni con popolazione superiore ai 10.000 abitanti ( a cui va anche un premio di 200 milioni da destinarsi alle iniziative per la sostenibilità urbana) e l'istituzione di un premio (50 milioni) per i Comuni con popolazione inferiore ai 10.000 abitanti per l'iniziativa più significativa finalizzata a migliorare l'ambiente urbano per e con i bambini.
E' stato poi istituito il "Registro delle buone pratiche", pubblicato annualmente a cura del Ministero dell'Ambiente per promuovere e diffondere azioni positive a favore dell'infanzia attuate dai comuni italiani.
Le città premiate dal Ministero dell'Ambiente per il 1999 sono:
Cremona, Novellara, Alfonsine, Asti, Atripalda, Belluno, Casagiove, Cassina de'Pecchi, Cormano, Cosenza, Guastalla, La Spezia, Mantova, Melegnano, Muggia, Pergine Valsugana, Piacenza, Scandicci, Sondrio, Valderice, Cavriago, Calimera, Colmurano.
Bolzano, Cinisello Balsamo, Cuneo, Ferrara, Modena, Molfetta, Pesaro, Pistoia, Ravenna, Rivoli, San Lazzaro di Savena e Torino, vincitrici dell'edizione 1998 del premio, hanno ottenuto anche per il 1999 la sua riconferma in quanto hanno proseguito le attività già intraprese o ne hanno attivate altre.



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UNA BARRIERA ALLE BARRIERE ARCHITETTONICHE

Il disegno di legge per la Finanziaria 2001stanzia 70 miliardi in due anni a fondo perduto a favore dei disabili, per l'abbattimento delle barriere architettoniche negli edifici privati.
Solo negli ultimi anni lo Stato ha riaperto il rubinetto dei finanziamenti a fondo perduto concessi ai privati (singolarmente o come condomini) per l'eliminazione delle barriere architettoniche. Tra il 1992 e il 1995 erano stati stanziati in totale due miseri miliardi, per poi passare a 25 milardi nel 1996, 10 nel 1997, 20 nel 1998 10 nel 1999 e 30 miliardi nel 2000.
I fondi tuttavia rimangono inferiori al fabbisogno, cioé alle richieste dei disabili presentate ai sensi della legge 13/89 che ha avuto il merito di rendere meno pesanti le discriminazioni verso i portatori di handicap.
Questa normativa stabilisce innanzitutto che dall'agosto 1989 tutti i progetti relativi alla costruzione o alla completa ristrutturazione di edifici, ad uso abitativo o meno, debbano essere adeguati alle prescrizioni tecniche sull'eliminazione delle barriere architettoniche stabilite dal decreto del Ministero dei lavori pubblici n. 236 del 14 giugno 1989. Si tratta cioé della possibilità, per un disabile in sedia a rotelle, di raggiungere da solo il proprio appartamento dalla strada e, all'interno di questo, di muoversi agevolmente in base ai seguenti criteri di "accessibilità":
Ecco, di seguito, cosa si intende per "accessibilità" in relazione agli interventi più ricorrenti in base al Dm 236/89. Alcune regioni fissano poi ulteriori requisiti tecnici, necessari anche per poter accedere ai contributi propri.

Porte
Devono essere facimlmente manovrabili da tutti, accessibili a persone su sedia a rotelle: sono consigliate porte scorrevoli o con anta a libro. Devono essere evitate porte girevoli, con ritorno automatico non ritardato e quelle vetrate se non fornite di accorgimenti di sicurezza e facilmente individuabili. I piani antistanti e retrostanti devono essere sullo stesso livello.

Pavimenti
Gli eventuali dislivelli devono essere contenuti e segnalati con vartiazioni di colore. Devono essere antisdrucciolevoli nelle parti comuni o di uso pubblico.

Apparecchi elettrici
Devono essere posti ad altezza tale da essere utilizzabili anche da persona su sedia a ruote ed individuabili anche in condizioni di scarsa visibilità.

Servizi igienici
Devono essere accessibili a persone su sedie ea ruote e disposti in modo da garantire adeguati spazi tra di loro. Si devono preferire rubinetti con manovra a leva.

Cucine
Tutti gli apparecchi devono essere preferibilmente disposti sulla stessa parete o su pareti contigue; al di sotto degli apparecchi e dei piani di lavoro va previsto un piano vuoto per consentire un agevole accostamento anche a persone su sedia a ruote.

Balconi e terrazze
La soglia di accesso non deve costituire ostacolo a persone su sedia a ruote. Almeno una parte del balcone o terrazza deve avere una profondità tale da consentire la manovra di rotazione della sedia a rotelle.

Corridoi
Non devono presentare variazioni di livello: in caso contrario devono essere superati da rampe di larghezza tale da consentire il passaggio e la manovra di sedie a rotelle.

Rampe
Devono avere pendenza non superiore all'8% e devono essere previsti piani orizzontali di riposo (pianerottoli) per le rampe particolarmente lunghe.

Ascensore
Deve essere accessibile e utilizzabile da persone su sedia a ruote. Le porte devono essere automatiche e dotate di un meccanismo di riapertura in caso di ostruzione del vano di accesso.
I tempi di apertura e di chiusura devono assicurare l'accesso a persone su sedia a rotelle.
la bottonierea dei comandi, esterna e interna, deve essere posta ad altezza tale da essere utilizzabile da persone su sedia a rotelle e idonea ad un uso agevole da parte di non vedenti.
All'interno ci devono essere citofono, luce di emergenza, campanello di allarme con luce che confermi che l'emergenza è stata segnalata, deve esistere una segnalazione sonora all'arrivo del piano e un dispositivo luminoso per segnalare ogni stato di allarme.
Deve essere garantito un arresto ai piani che renda complanari il piano dell'ascensore con quello del pianerottolo.

Arredi fissi
Vanno predisposti per il transito di persone su sedia a rotelle nonché un agevole utilizzo di tutte le attrezzature in essi contenute. Sono da preferire arredi non taglienti e privi di spigoli.

 

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ARIA INQUINATA? UNA SOLUZIONE DALLA BIOINGEGNERIA !

Agronomo – Direttore di Cultura e Natura -  Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. email Autore

Il cocktail di gas che quotidianamente respiriamo nelle grandi città e nelle aree urbane sottoposte ad un intenso traffico automobilistico  a breve termine determinerà quel temuto ma ormai imminente salto evolutivo che attende un umanità sempre più lanciata verso traguardi tecno-biologici affascinanti: la comparsa del primo essere vivente dotato di bio-carburatore incorporato!
Ciò comporterà una rapida estinzione di tutti coloro che non saranno in grado di competere con i vantaggi offerti da questo tipo di mutazione (non sappiamo ancora se naturale o indotta da qualche geniale scienziato) che consentirà di utilizzare al meglio tutti quegli ottimi composti (piombo, benzene, alcheni, aldeidi, chetoni, alcani) altrimenti vanamente sparsi per l’aere.
I primi a subirne le conseguenze saranno vecchi e bambini, categorie professionalmente irrilevanti perché improduttive, con notevoli benefici anche per quell’altro annoso problema del “walfare state”.
L’innovazione tecnologica che consentirà ai più fortunati di meglio adattarsi alla rinnovata atmosfera terrestre (inizialmente nelle aree industrializzate ed urbanizzate, successivamente verranno studiate opportune modifiche per le aree rurali per consentire di sfruttarne la composita atmosfera fatta di biogas, pesticidi, metano, ammoniaca e miasmi organici) apre poi lo sfruttamento degli altri pianeti del nostro sistema solare e di nuovi mondi, finora negatoci da un evoluzione respiratoria quanto mai primitiva e limitante.
Ma non precipitiamo le tappe! Andiamo con ordine ad analizzare i vari passi che ci hanno condotto all’idea di sviluppare quest’applicazione biotecnologica per risolvere l’annoso problema delle difficoltà respiratorie, delle malattie broncopolmonari e dei tumori indotti dalla miscela di gas che vagano per le nostre città.

 

 Dal piombo, al benzene, ai composti ossigenati a... il bio-carburatore!

 La questione è a tutti nota: purtroppo la benzina non si può usare tal quale. Bisogna aggiungerci degli antidetonanti che, in ordine di apparizione sono stati in passato prima il piombo tetraetile, poi il benzene, ora i composti ossigenati.
Ognuno di essi ha dimostrato però di avere un rovescio della medaglia che, nel tempo, ne ha sconsigliato l’uso per la salute (vedi scheda).
Con il passaggio dalla benzina al piombo a quella “verde” e l’adozione delle marmitte catalitiche si era diffusa la convinzione di aver trovato il modo di determinare un significativo miglioramento della qualità dell’aria delle città in cui viviamo.
Ma il benzene che ha sostituito il piombo ha deluso queste aspettative, dimostrandosi un nemico ancora più subdolo della nostra salute: e non è il solo!
Nelle benzine sono presenti altri 200 idrocarburi policiclici aromatici che la Legge tenta come può di fronteggiare (recentemente la Commissione Ambiente della Camera ha approvato un emendamento al disegno di legge sul contenuto di benzene nei carburanti che prevede un limite agli aromatici del 40% dal 1o luglio 1998 e del 35% dal 1o luglio 1999. Per il benzene, ritenuto il composto aromatico più pericoloso, il limite previsto dal luglio ‘98 è fissato nell’1 %).
Secondo il parere di numerosi esperti sarebbe prioritario riformulare la benzina portando il contenuto di benzene sotto l’1% e quello degli idrocarburi aromatici sotto al 25%: inoltre la “benzina verde” dovrebbe essere utilizzata solamente da autovetture munite di marmitta catalitica.
Ahi! Ahi! Ahi! Spauracchio di tanti automobilisti, che tanto hanno dovuto penare per dotarsene, prima magari ricorrendo al “retro-fit” per poi dover accettare sonde lambda e scappamenti al platino. Con quello che costavano specialmente qualche anno fa! E subendo addirittura lo strazio della separazione dalla vecchia cara automobile, destinata alla demolizione per acquistare ecomodelli dall’emissione immacolata ma dal catalizzatore assai delicato...
Malgrado ciò le auto non dotate del catalizzatore in Italia sono circa la metà del parco auto circolante ed esse inquinano più del doppio rispetto alle altre.
Peraltro un’indagine sullo stato pietoso delle marmitte delle auto ecologiche sottoposte ad avviamenti a freddo, marce a singhiozzo nel traffico urbano, rifornimenti anche con benzine non “verdi” ci darebbe certo modo di verificare quanto poco esse siano in grado di ripulire l’aria che emettiamo e che poi respiriamo.
Ecco quindi la necessità di un “biocarburatore” in grado di consentirci una opportuna carburazione dei nostri gas respiratori: lanciamo quindi un appello a tutte le menti creative perché concepiscano un simile manufatto, prima che la Natura stessa attraverso i suoi meccanismi di mutazione e di selezione realizzi questa necessaria  soluzione adattativa,  rendendo così obsoleti gli eventuali brevetti umani.

Meditate, gente, meditate...

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LA FEBBRE DEL PIANETA

AgronomoQuesto indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. email Autore Video


I medici al capezzale del pianeta in preda alla febbre sono perplessi: anamnesi, diagnosi ed evoluzione della malattia presentano ancora lati oscuri, tali da emettere un asciutto comunicato: il paziente è in prognosi riservata.
Non mancano  i contrasti tra gli illustri luminari, persino sugli strumenti diagnostici: i modelli matematici con cui si cerca di prevedere l'evolversi di un paziente piuttosto complicato come può essere la Terra, dimostrano sempre più spesso di essere inadeguati e quindi la cautela sembra ancora essere lo stato d'animo più diffuso tra gli scienziati.
Si è poi discusso se fosse più scientifico riferirsi alle temperature della superficie terrestre raccolte dalle stazioni a terra e non piuttosto a quelle misurate nella bassa atmosfera dai satelliti e dalle radiosonde: un pò come si fa tra medici di scuole diverse, divisi tra un "partito" che si affida alla misurazione ascellare ed un altro, partigiano di una misurazione interna (sottolinguale o rettale).
La brulicante popolazione biologica (che ha ormai superato i sei miliardi di individui) abitanti sulla superficie del paziente, peraltro, è stata assai poco esaminata sotto il profilo patologico: pochi sono stati gli scienziati che ne hanno prospettato il potenziale distruttivo della diffusa ignoranza che ne pervade le menti.
Eppure, come quasi innocui saprofiti o, sempre più spesso, come voraci parassiti, succhiamo dalle viscere di questo povero macro-organismo terrestre linfe vitali (acqua dolce, petrolio, gas), scaviamo nei ricettacoli della sua epidermide campi e città, strade e miniere, aggiungiamo al suo respiro ossigenato a cui dobbiamo la vita, fetidi veleni e miasmi irrespirabili.
Poi, stupiti dell'improvviso innalzarsi della temperatura del nostro ospite, ci chiediamo come mai, se è proprio vero, se siamo stati noi a causare quello stato di malessere che i più sensibili tra noi cominciano a percepire.

Le autorità politiche, coloro cioè a cui spetta prendere delle decisioni sul "che fare", oscillano tra due posizioni:

 

a) porre qualche freno al deterioramento dell'atmosfera, per limitarne il decadimento ecologico;

b) continuare a comportarsi come fatto fin qui, per non danneggiare il nostro sviluppo economico.

 

 

Scienziati a confronto

Il convegno internazionale dal titolo "Global climate change during the lata quaternary", tenutosi a Roma nello scorso mese di maggio presso l'Accademia dei Lincei, ha messo in evidenza da un lato, la diversità degli approcci  utilizzati fin qui per studiare l'evolversi dei meccanismi climatici e, dall'altro, la difficoltà di pervenire ad una sintesi delle attuali conoscenze su questi fenomeni.
La sfiducia nei modelli matematici di simulazione è stata evidenziata in più interventi: nella sua introduzione al simposio il prof. Antonio Brambati (Università di Trieste) ha ricordato come nel 1980 qualcuno prevedeva che le calotte polari si sciogliessero e le acque salissero di ben sette metri e mezzo mentre già nel 1985 l'innalzamento previsto del livello dei mari "scendeva" ad un solo metro: oggi si parla di un innalzamento ridotto ad una ventina di centimetri. Secondo le previsioni le isole Maldive entro il 2100 dovrebbero finire sotto il livello del mare ma, osservazioni recenti (prof. Nils-Axel Morner, Univ. di Stoccolma) hanno evidenziato che negli ultimi anni le acque anziché salire, sono scese di una decina di centimetri.
Fabrizio Antonioli dell'ENEA ha sottolineato come queste previsioni sull'innalzamento dei mari a seguito dei cambiamenti climatici siano andate ridimensionandosi notevolmente nel corso degli ultimi venti anni grazie anche al ricorso ad altre tecnologie - come l'osservazione diretta della Terra fatta con i satelliti - che in certi  casi hanno evidenziato addirittura un calo  (dieci centimetri lungo le coste della Sardegna, dal 1993 al 2000). In effetti, almeno per quanto riguarda molte zone costiere italiane, il rischio di inondazione è bilanciato da tutta un'altra serie di fenomeni geologici (movimenti tettonici, fenomeni di subsidenza dovuti anche a cause antropiche, idro-isostatici ed eustatici) il cui studio sistematico, per molti versi, è ancora agli inizi. Delle 33 pianure costiere italiane potenzialmente interessate da un innalzamento del livello del mare solo tre (la piana del Po, la Versilia e la pianura pontina presso Fondi) sono veramente a rischio, anche in considerazione dell'impatto socio-economico che un evento del genere produrrebbe.
George Kukla della Columbia University di New York ha ironizzato sulla fiducia con cui molti fanno previsioni sul clima futuro, mentre restano ancora da spiegare i dati di fatto del passato: gli studi sul sistema climatico del nostro pianeta e sulla sua evoluzione temporale presuppongono anche l'analisi di zone remote della Terra dove si conservano testimonianze storiche del suo passato divenire. L'analisi dei campioni estratti dai ghiacci antartici o dalle profondità dei depositi oceanici ci possono offrire infatti spunti per capire i meccanismi di alterazione del clima nei periodi più antichi della storia terrestre, così come lo studio dei ghiacciai, dei sedimenti lacustri, dei bacini acquiferi sotto i deserti, dei pollini fossili e degli anelli di crescita dei tronchi degli alberi può servire a ricostruire il clima del passato più recente, almeno a scala regionale.
Per avere le idee più chiare occorrerebbe anche comprendere meglio il ruolo dei cicli solari e la loro interazione con alcuni fenomeni atmosferici (monsoni) e con determinati gas (metano), come hanno suggerito con le loro relazioni l'inglese Frank Oldfield e William Ruddiman (University of Virginia).
Non poche critiche, come accennato precedentemente, sono state rivolte da alcuni illustri relatori, ai loro altrettanto illustri colleghi facenti parte dell'IPCC - Intergovernmental panel on climate change (vedi riquadro): l'accusa è stata quella di basare le loro previsioni su dati scelti ignorandone altri, oppure sui già riferiti criteri di misurazione della temperatura terrestre (la "febbre del pianeta").
Ma, al di là di queste "piccolezze" umane, resta la preoccupazione per un quadro globale in fase di rapida evoluzione con una prognosi non certo benigna.

 

Una priorità internazionale

Come si vede, la riduzione delle emissioni di gas serra nel mondo corrisponde ad uno specifico interesse di tutti i paesi, sviluppati e no. Occorre quindi che tutte le nazioni del mondo contribuiscano ad un mutamento apprezzabile dell'attuale modello di sviluppo economico che ha alterato la composizione di quel sottilissimo velo d'aria che circonda il nostro pianeta.
Per avere un'idea di come sia sottile basta pensare che i 3/4 della nostra atmosfera sono racchiusi in uno strato di soli 8 chilometri, uno strato più sottile della distanza che esiste tra un quartiere e l'altro di Roma!
Questo sottilissimo velo che riveste la superficie della Terra ci fornisce ossigeno e calore, acqua e protezione dalle radiazioni, ci consente di respirare e quindi di vivere: la nostra sopravvivenza senza cibo è limitata a qualche settimana, senza acqua a qualche giorno, senza aria a pochi minuti.
Da qui a cinquant'anni avremo forse la certezza, fin nei dettagli, delle nostre responsabilità nell'alterazione del clima terrestre, ma attendere fino ad allora per decidere se intraprendere o meno delle azioni sarebbe quanto mai sconsiderato.
Ciò che appare più sconcertante è la lentezza e l'inadeguatezza con la quale il mondo sta reagendo a questi rischi: alla nostra ossessione di dotarci di sistemi di controllo e di sicurezza in ogni ambito della vita personale e sociale (dal controllo sui cibi alla prevenzione degli infortuni sul lavoro, dalle cinture di sicurezza ai criteri di costruzione degli edifici, alle limitazioni nella capienza degli ambienti confinati) faceva riscontro fino al 1992, per la struttura che sostiene la vita sulla Terra, all'assenza pressoché totale di regole sulla sua sicurezza  e di mobilitazione delle volontà politiche.
Con la Conferenza Mondiale sull'Ambiente e lo Sviluppo di Rio de Janeiro del 1992 i paesi aderenti alle Nazioni Unite si sono assunti dei precisi impegni politici e giuridici internazionali sottoscrivendo obblighi di carattere legale ("Convenzione quadro sui cambiamenti climatici").
Le modalità di attuazione di tale obbligo comune, che deve essere formalizzato attraverso opportuni protocolli attuativi, sono ancora oggi, a quasi dieci anni di distanza dalla firma della Convenzione, oggetto di discussione e perfino di controversie.
La gamma delle decisioni da prendere, peraltro, è abbastanza vasta (vedi le anticipazioni sull'ultimo rapporto dell'IPCC) ma fondamentalmente si scontra con gli interessi dei politici timorosi della impopolarità di alcune scelte e dei gruppi economici legati allo sfruttamento delle risorse energetiche tradizionali.
L'interesse di pochi rischia di mettere in pericolo una risorsa che è di tutti gli abitanti del pianeta, una risorsa fragile e preziosa che dobbiamo conoscere sempre meglio per saperla gestire nel modo più responsabile.

 


Scheda

Dall'inizio del XX secolo ad oggi si è avuto un graduale incremento nel livello di CO2 atmosferico (anidride carbonica o biossido di carbonio): per dare qualche cifra, dal 1957 al 1999 il livello di CO2 nell'atmosfera è passato da 315 ppm (parti per milione) a 365 ppm. Una concentrazione così alta di CO2 nell'atmosfera non si osservava da almeno 160.000 anni (ben prima che l'uomo moderno influisse sull'ambiente con la sua attività).
A livello planetario, nel 1996 si è registrato il record negativo di 6,2 miliardi di tonnellate di CO2 emesse in atmosfera, con un aumento di circa quattro volte rispetto al 1950. Attualmente le emissioni annue ammontano a poco più di 6,3 miliardi di tonnellate e  sono seconde, in termini di massa, solo ai flussi di acqua collegati alle attività umane.
L'anidride carbonica, insieme ad altri gas facenti parte dell’atmosfera, intrappolano la radiazione infrarossa riflessa dalla superficie terrestre e impedendone la fuoriuscita nello spazio, come accade in una serra, causano l’aumento della temperatura della superficie e alterano il bilancio energetico del pianeta. La CO2 contribuisce all’”effetto serra” per circa il 70%, il metano per il 20% e gli ossidi di azoto e altri gas per il rimanente 10%.
La temperatura globale media è salita di 0,6 gradi centigradi negli ultimi 130 anni ma l'Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), organismo delle Nazioni Unite costitutito da un gruppo di più di 2000 scienziati, prevede che un raddoppio della concentrazione di CO2 - del tutto verosimile da qui al 2100 - comporterà un aumento della temperatura globale da 1 a 4,5 °C, con conseguenze al momento difficilmente prevedibili per gli ecosistemi del pianeta.
Poiché il raddoppiamento della CO2 implicherebbe comunque serie conseguenze, l’IPCC ha anche considerato l’obiettivo più ambizioso di stabilizzazione a 450 ppm: secondo l’IPCC centrare questo obiettivo richiederebbe un taglio delle emissioni di carbonio di circa il 60-70% - cioè fino a circa 2,5 miliardi di tonnellate annue – entro il 2100 e alla fine un contenimento sotto i 2 miliardi di tonnellate all’anno.
Nel dicembre 1997 i rappresentanti di oltre 160 nazioni si sono riuniti a Kyoto, in Giappone, nell'ambito della Convenzione sul clima promossa dalle Nazioni Unite, per firmare un protocollo di intesa finalizzato a contenere decisamente le emissioni di CO2 e degli altri gas-serra.
L'obiettivo fissato era quello di ridurre entro il 2012 le emissioni globali del 5,2 % rispetto al 1990. In particolare, per l'Unione europea la riduzione doveva essere dell'8%, per gli Stati Uniti del 7% e per il Giappone del 6%.
Di fatto però il protocollo di intesa è stato sottoscritto, dopo lunghi negoziati, da soli 38 paesi con l'esclusione, ad esempio, di grandi stati come Cina, Brasile ed India. Fino al marzo del 2001 nessun Paese del G-8 lo aveva ancora firmato.
Le linee guida codificate dalla Convenzione di Kyoto hanno demandato ai governi nazionali la responsabilità di mettere in atto politiche efficaci e tra loro coordinate per ridurre le emissioni di gas-serra e in particolare di CO2. Ma come ha dimostrato la recente sessione di aggiornamento dei firmatari tenutasi a L'Aja nel novembre scorso, il coordinamento è ancora ben lontano dal realizzarsi.
La riduzione del carbonio implica anche cambiamenti sostanziali nell’operato delle istituzioni internazionali come la Banca Mondiale e le agenzie di credito per l’esportazione. Negli anni ’90 queste ultime hanno investito fino a 100 miliardi di dollari in attività ad alta intensità di emissione di carbonio nei paesi in via di sviluppo.
La sfida della riduzione del carbonio sta conquistando anche i protagonisti del mondo degli affari: la spinta al risparmio di carbonio può trasformarsi in un nuovo importante vantaggio in termini di competitività, dal momento che le aziende orientate al risparmio energetico e allo sviluppo di tecnologie a bassa emissione di carbonio si troveranno avvantaggiate sul mercato.
Nel marzo del 2000 i partecipanti al World Economic Forum di Davos (Svizzera) hanno votato il cambiamento climatico come problema globale più significativo da affrontare nel XXI secolo e hanno concluso che il mondo degli affari e i governi dovranno sentirsi assai più coinvolti nel ruolo di leadership che spetta loro.

* * *

Il documento - "Etica e cambiamento climatico - Scenari di giustizia e sostenibilità" (2008):
http://www.fondazionelanza.it/epa/verso_una_nuova_responsabilita_globale.pdf


euronews - space - Il surriscaldamento globale visto...

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COOPERARE PER L’AMBIENTE

Agronomo – Direttore di Cultura e Natura - Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. email Autore

 

Verso l’attuazione di un Diritto, di una Cultura, di un’Educazione utile alla salute dell’uomo e dell’ambiente: una grande sfida per l’Italia del XXI secolo


“L’ambiente deve essere protetto col più ampio consenso e con una crescente consapevolezza di tutti i cittadini ; dall’ambiente dipendono sempre più la salute e la qualità della vita di ciascun cittadino, ma anche la possibilità di uno sviluppo reale e duraturo”.

 Con queste parole il Ministro dell’Ambiente introduce la Sintesi della III Relazione sullo stato dell’ambiente (1996), un documento che offre un quadro conoscitivo sintetico della situazione ambientale in Italia e che, oltretutto, esce a dieci anni dall’istituzione del Ministero dell’Ambiente.

Il bilancio della politica ambientale italiana di questo ultimo decennio mostra, accanto a elementi positivi, tutta una serie di elementi di grave problematicità :

  • una legislazione complessa, stratificata, spesso contraddittoria ;

  • una scarsa efficacia attuativi di tali norme sul piano amministrativo e giudiziario ;

  • inefficienza dei controlli attuati dalla pubblica amministrazione ;

  • l’esistenza di un sistema di corruzione che ha lucrato su progettazioni e realizzazioni d’opere ad alto impatto ambientale ;

  • una fitta rete di criminalità organizzata che ha prosperato in assenza di una forte presenza delle Istituzioni ;

  • difficoltà economiche e finanziarie che hanno limitato gli investimenti pubblici e privati nel settore ambientale ;

  • i problemi legati ai conflitti con i lavoratori a difesa dei posti di lavoro in aree ad alto rischio industriale ;

  • la pressoché totale assenza di un reale coordinamento con gli altri Ministeri interessati al governo e alla salute del territorio .

 

Da queste considerazioni emerge (paradossalmente proprio in Italia, Paese che dai beni culturali e ambientali trae tanta parte del proprio benessere economico!) la mancanza di una “cultura dell’ambiente”  capace di integrare anziché conflittualizzare le apparenti antinomie ambiente/sviluppo sociale, tutela giuridica/interessi economici,  Stato/Istituzioni locali.
Le cause di questo “handicap culturale” sono certamente molteplici : esso risente certamente di mali comuni all’insieme del sistema politico e partecipativo dei cittadini alla gestione della nostra appena cinquantenne “res publica” ma è necessario che esso non si trasformi in una specie di malattia ereditaria, trasmessa alle nuove generazioni alle soglie del Terzo millennio.
Il quadro globale della situazione spinge dunque ad una serie di riflessioni che dovrebbero servire soprattutto da stimolo a riconsiderare, costruttivamente, le finalità ed il ruolo che la tutela dell’ambiente deve avere in un Paese che si ritiene “culla di civiltà” più che millenaria.
Al di là delle giustificazioni legate alle ridotte dimensioni dell’apparato ministeriale, allo squilibrio tra competenze e funzioni sempre maggiori che è chiamato a svolgere, alle sue insufficienti dotazioni di organico e di finanziamenti, l’Istituzione centrale dello Stato in questo ambito ha bisogno di  fare chiarezza soprattutto sugli obiettivi principali per avviare una nuova politica ambientale di Governo.
Qualità dell’acqua dei fiumi, dissesto idrogeologico, rifiuti, inquinamento da traffico nelle grandi città sono le quattro frontiere che l’attuale titolare del Dicastero segnala come “prioritarie”.
Ma come affrontarle sperando in un qualche successo se non si rimuovono a monte le cause su accennate che hanno, di fatto, limitato e talvolta del tutto impedito l’azione di governo  in tutti questi anni ?

  

Prospettive di realizzazione del “Diritto all’ambiente”

 In questi ultimi trent’anni si è verificata un’enorme crescita di sensibilità e di interesse per i gravi problemi posti dalla manipolazione della natura da parte dell’uomo, sia per effetto di un miglioramento delle conoscenze scientifiche al riguardo sia per l’evoluzione delle concezioni sul rapporto uomo/ambiente con le rilevanti implicazioni che esse hanno comportato anche sul piano normativo.
Il diritto all’ambiente rientra a tutti gli effetti tra i diritti umani fondamentali, così come espresso, in primo luogo, nella dichiarazione finale della Conferenza delle Nazioni Unite sull’Ambiente (Stoccolma, 1972) e ribadito dal rapporto alla Commissione mondiale per l’ambiente e lo sviluppo, creata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 1983: da allora numerosi Stati hanno introdotto, nelle loro costituzioni o legislazioni, il riconoscimento del diritto ad un ambiente adeguato e l’obbligo per lo Stato di proteggerlo.
Con la Conferenza mondiale sull’ambiente e lo sviluppo (Rio de Janeiro, 1992) - che ha visto riuniti Capi di Stato e di governo di 183 Paesi - più che diritto l’ambiente diventa un dovere dell’uomo, al quale corrisponde quello che nella sostanza potremmo chiamare il “diritto” della natura ad essere considerata e protetta nel quadro di un equilibrio generale uomo/natura, requisito fondamentale per la sopravvivenza di entrambi e del progresso e sviluppo umano.
Si è giunti così - almeno formalmente, finora - a sostanziare in precisi fondamenti giuridici il lungo dibattito sull’etica della responsabilità dell’uomo verso la natura.
Ma fino a che punto le leggi e l’azione di uno Stato riescono da sole a realizzare un effettiva tutela dell’ambiente a beneficio dei suoi cittadini ?
In una ricerca triennale, realizzata  per conto del Consiglio Nazionale delle Ricerche, dal Dipartimento di Ecologia del CEU, in collaborazione con il Dip.to di Scienze Giuridiche e Diritti Umani, dedicata all'analisi ed alla comparazione tra lo stato dell'ambiente in Italia e la legislazione nazionale in materia (C.E.U., 1992) sono chiaramente emersi i limiti di un sistema informativo e normativo che non genera motivazioni alla partecipazione nell’individuo e che figura spesso ai margini della programmazione dello sviluppo del Paese, salvo poi riscoprirne la centralità nel momento delle emergenze e dei disastri “naturali”, inevitabile conseguenza di questa incuria individuale e sociale.
A questo proposito l’ultima Relazione sullo stato dell’ambiente del Ministero segnala “la scarsissima attenzione da parte dei media sugli argomenti ambientali (solo lo 0,1% di tutte le ore di trasmissione) spesso solo in occasione di catastrofi .
Ritornando alla nostra ricerca per il CNR, in essa si evidenziava lo scollamento esistente spesso tra normativa e realtà oggettiva, la scarsa capacità da parte dell'ordinamento statuale di concretizzare in un effettiva azione di tutela ambientale e di prevenzione una pletora di leggi non coordinate e, talvolta, in stridente contrasto fra loro.
Nella parte conclusiva e propositiva, infine, veniva sottolineata l'importanza di una corretta impostazione dell'educazione ambientale, intesa come strumento di formazione di una coscienza ambientale motivante al rispetto delle norme naturali e giuridiche.

 

Verso una Scienza e una Coscienza della Vita

 Sensibilità ambientale e studio dell’ambiente e delle sue capacità autoregolative sono al tempo stesso frutto di una evoluzione culturale (scientifica e tecnologica) e motore di una trasformazione sociale e produttiva fin qui attuata, come abbiamo già detto, per lo più per necessità (sotto la spinta delle emergenze: Seveso, Bhopal, Chernobyl, per citarne solo alcune).
L’esperienza fin qui accumulata dovrebbe spingerci invece ad una precisa scelta di voler imboccare la strada di una evoluzione cosciente dell’umanità tutta, nel rispetto dell’ambiente da cui essa (volente o nolente) dipende per l’alimentazione, la salute, l’energia, la vita.
Ma per scegliere bisogna conoscere ed è quindi necessario approfondire le conoscenze da un punto di vista scientifico sia sull’ambiente e la sua fisiologia (per prevenirne la patologia) sia sull’uomo, sui meccanismi neuropsicologici che spingono a comportamenti distruttivi nei confronti delle risorse naturali.
Le problematiche derivate dalla manipolazione dell’ambiente da parte dell’uomo, in effetti, dovrebbero essere analizzate innanzitutto sotto il profilo della “manipolazione delle informazioni” che pilotano l’opinione pubblica verso l’accoglimento o il rifiuto delle trasformazioni ambientali, spesso solo in base a fattori emotivi.
Per poter quindi realizzare concretamente nelle società di tutto il mondo quel Diritto all’ambiente, ormai sancito a livello internazionale, è necessario ribadire fortemente la necessità di una realizzare programmi educativi che rendano consapevole l’individuo dei meccanismi cerebrali che determinano i nostri comportamenti, per far si che le nostre scelte siano veramente nostre e non dettate da condizionamenti altrui.
Una educazione scientifica integrata alla vita, ispirata a valori universali, siamo certi potrebbe offrire orizzonti nuovi al Paese non solo per attuare una effettiva tutela ambientale ma utili anche ad una Scuola in molti casi avulsa dalla realtà storica e territoriale, incapace ormai di seguirne il dinamismo e di coinvolgere i giovani su temi e problemi utili alla loro crescita culturale e individuale.

 

Cooperare per una “Cultura dell’ambiente”

In effetti ci sembra necessario rimarcare la necessità di un impegno più incisivo proprio in quel settore cui accennava il Ministro dell’Ambiente nell’Introduzione alla Relazione sullo Stato dell’Ambiente in Italia 1996 : investendo cioè “nella consapevolezza di tutti i cittadini. “
Trattasi certo di “investimento a lungo termine”, che poco si confà agli interessi politici “a breve” che hanno finora caratterizzato la scena politica italiana ma si tratterebbe sicuramente di un buon investimento, a costi assai bassi e a rendimenti costanti nel tempo.
La proliferazione “tumorale” di norme giuridiche non incentiva ma semmai ostacola il rispetto dell’ambiente, soprattutto in un momento storico in cui il rispetto delle leggi  è sempre più legato al grado di consapevolezza della loro utilità e di conseguenza alla motivazione dell’individuo e della società.
La sempre più accentuata attenzione da parte dei cittadini alla “qualità della vita” sotto il profilo del benessere individuale e sociale rappresenta un valore da coltivare nell’interesse di tutta la collettività, puntando molto soprattutto sulla prevenzione dei rischi non solo in campo ambientale ma anche in quello sanitario.
La consapevolezza degli stretti legami tra stato dell’ambiente e salute dell’uomo è stata “scoperta” solo in questi ultimi anni dalle grandi Istituzioni internazionali (OMS, 1992), sotto la spinta delle grandi emergenze planetarie e delle situazioni a livello locale, ma purtroppo l’operatività delle istituzioni a tutti i livelli (internazionale, regionale, nazionale, locale) rimane imprigionata in una separazione burocratica di funzioni, ruoli, competenze poco funzionale alla risoluzione di problemi complessi ed interfacciati quali quelli dello sviluppo demografico, economico, della povertà, della fame, della gestione delle risorse idriche, energetiche, dei grandi insediamenti urbani.
Tutti queste tematiche ambientali vedono al loro centro l’uomo, le sue capacità e la sua volontà politica di trovare delle soluzioni :  cooperare per accrescere l’evoluzione della conoscenza e della coscienza di questo “minimo comune denominatore”  dei problemi globali, può essere forse la strada giusta per risolverli.

  

Riquadro

 Le quattro grandi emergenze ambientali in Italia

(Dati tratti dalla Sintesi della III Relazione sullo stato dell’ambiente 1996 del Ministero dell’Ambiente)

 

RIFIUTI

  • Nel 1994 la produzione pro capite di rifiuti ha sfiorato i 400 kg.

  • L’87% dei rifiuti urbani va direttamente in discarica, solo il 7 % accede alla raccolta differenziata mentre negli inceneritori ne passa il 6 %.

  • Oltre 23.000 metri cubi di rifiuti radioattivi sono accumulati nei siti nazionali in cui erano stati prodotti e, nella maggior parte, devono ancora essere trattati e condizionati.

 

TRAFFICO URBANO

  • In rapporto alle emissioni totali di inquinanti prodotti dal trasporto stradale, il traffico urbano contribuisce per il 77% delle emissioni di ossido di carbonio, per il 39 % delle emissioni di anidride carbonica, per il 27% delle emissioni di ossidi di azoto, del 76% dei composti organici volatili e per il 29% delle particelle sospese totali, rendendo così assai grave lo stato dell’aria nelle grandi città.

  • Il 72% della popolazione residente in ambiente urbano è esposto a livelli di rumore ampiamente superiori ai limiti di accettabilità definiti in ambito comunitario e fissati dalla normativa vigente in Italia.

  • Nel 1994 in Italia sono stati registrati oltre 170.000 incidenti stradali con 6.578 morti e oltre 239.000 feriti : circa il 73% degli incidenti avviene nelle aree urbane.

 

INQUINAMENTO DELLE ACQUE

  • Il 30 % degli scarichi non ha alcuna depurazione e soltanto il 39% della popolazione usufruisce di una depurazione in grado di abbattere anche nitrati e fosfati.

  • L’inquinamento chimico raggiunge le maggiori concentrazioni nel bacino padano, in relazione all’intenso sfruttamento agrozootecnico del suolo, all’elevata concentrazione di impianti industriali e all’inurbamento : l’80% dei casi di inquinamento di origine industriale è concentrato in questa area. 

 

DISSESTO DEL TERRITORIO

  •  Solo il 20% del territorio italiano (circa 60.000 kmq) può essere considerato significatamente non modificato dall’uomo.
  • Per quanto riguarda la conoscenza del territorio e il suo controllo, le strutture tecniche dello Stato contano al 1995 solo su 427 dipendenti.

  • Si spende, per interventi straordinari di emergenza, 5-6 volte almeno quello che si spende per la prevenzione ordinaria.

 

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UN LAVORO VERDE

 

Agronomo – Direttore di Cultura e Natura - Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. email Autore

 

Nel cupo quadro della ricerca di un lavoro che tanto preoccupa chi lavoro non ha, non poche speranze vengono riposte nelle opportunità che una sempre più forte coscienza ambientale potrebbe offrire come possibilità di nuova occupazione. Documenti europei (come lo studio condotto dalla Commissione Europea su “Crescita, competitività, occupazione” nel 1994 - ma meglio conosciuto come il Libro Bianco di Jacques Delors - in cui si stimano in 700.000 i posti di lavoro che potrebbero nascere in vista della realizzazione di una nuova politica di tutela ambientale in Europa, di cui 165.000 solo in Italia) e affermazioni di politici italiani (dopo l’approvazione dell’ultimo decreto legislativo sui rifiuti, nel gennaio di quest’anno, il Ministro dell’Ambiente Ronchi ha avanzato il convincimento che il nuovo riordino della materia avrebbe creato 100.000 nuovi posti di lavoro) confermerebbero, anche se trattandosi di promesse di... politici il condizionale è d’obbligo, l’apertura di nuove prospettive di lavoro in settori verso i quali vi è soprattutto tra i giovani un forte interesse. Ma è necessario fare chiarezza sulla reale consistenza di queste opportunità e, soprattutto sulle motivazioni che spingono un giovane verso un lavoro in questo settore: al di là della ricerca di un lavoro interessante e pagante (oltre che in termini economici anche di soddisfazione morale) è importante sgombrare il campo da tante illusioni che talvolta un’approccio troppo idealista può incautamente alimentare e che inevitabilmente, possono dar luogo in seguito a disillusioni cocenti che talvolta sfociano nelle cosiddette “sindromi da burn-out”. Un piccolo ma interessantissimo contributo in questo senso ci viene offerto dalla collana “Guida Task al mondo del lavoro” pubblicata dal Sole 24 Ore Libri, in cui spicca il volume “Le professioni dell’ambiente” in cui in poco più di 100 pagine ci si può orientare in un mercato del lavoro quanto mai diversificato e vario, che tra l’altro, molto si baserà sulla creatività e sull’inventiva imprenditoriale dei giovani. Ma saranno necessarie anche solide basi scientifiche per chi vorrà operare nell’ambito della ricerca applicata all’ambiente o una buona conoscenza degli aspetti gestionali, economici e giuridici per chi pensa di poter dare un contributo all’ecologia nella pubblica amministrazione o nel settore industriale. Un settore chiave e sul quale molto si dovrà fare è proprio quello della formazione, quanto mai varia e articolata trattendosi di problemi ambientali le cui competenze spettano a diverse discipline scientifiche, a diversi Dicasteri sul piano amministrativo e a settori produttivi tra i più vari, merceologicamente parlando. Certo molto dipenderà dalla volontà politica di “investire” sull’ambiente, non solo economicamente ma politicamente: la valorizzazione di alcuni settori produttivi passa non solo attraverso “iniezioni di denaro” ma anche e direi soprattutto in una “ricostruzione” morale di certi comparti produttivi (si pensi a quanto è poco considerata l’agricoltura nel nostro Paese in confronto al peso politico e culturale che la stessa ha in Germania o in Francia). Le stime dell’OCSE ci vedono fanalino di coda nella classifica europea di fatturato di beni e servizi per la tutela dell’ambiente per una serie di ragioni che fanno sì che molte siano le potenzialità ancora inespresse di questo settore che peraltro potrebbe avere ricadute interessanti non solo per il lavoro che potrebbe offrire ma per garantire a tutti i cittadini una migliore salute e per rompere quel circolo vizioso che arricchisce la malavita organizzata che vede nelle gestione sconsiderata dei rifiuti un affare da almeno 20.000 miliardi l’anno. Ma lavorare per l’ambiente potrebbe voler dire anche operare per la prevenzione all’interno del sistema industriale, sempre desideroso di ottimizzare tempi, risorse e “know-how”: le nuove sfide della competititività e della globalizzazione spingono a ricercare risparmi energetici e sinergie produttive all’interno delle aziende, a caratterizzarsi con etichette di “amici dell’ambiente”, tutte componenti che aprono interessanti prospettive di lavoro. Il capitolo dedicato nel libro alla “burocrazia verde” è invece piuttosto desolante non per ciò che prospetta (è comunque utile pensare “positivo”!) ma per l’analisi dell’esistente: meglio dunque guardare in faccia la realtà ma darsi da fare perchè questa cambi alla svelta... In sintesi dunque uno sguardo prospettico su ciò che l’ambiente nel suo complesso può offrirci: sta a tutti noi, ora, offrire qualcosa del nostro impegno e delle nostre capacità per il suo futuro che è, poi, non dimentichiamocelo, anche il nostro.

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NOBEL DELL’ECONOMIA… ALLA NATURA!

 

 

Tutti i popoli in tutte le società dipendono dalla Natura per la propria sopravvivenza: senza acqua pulita, senza suoli fertili e senza diversità genetica delle piante e degli animali, la specie umana non può sopravvivere. Ma l’uomo di oggi è accecato dal mito del denaro facile, dell’economia trainante, dei nuovi mercati asiatici, dell’interesse economico a breve realizzo, e in nome di questi “valori” è pronto a dilapidare il “capitale” che la Natura gli ha offerto gratuitamente!

 

I beni della Natura che stiamo dilapidando

È urgente guardare in faccia la realtà. Circa due terzi dei servizi forniti dalla Natura al genere umano sono in declino e il degrado dei servizi degli ecosistemi rappresenta una vera e propria perdita del capitale naturale di cui l’uomo può disporre. Per i nostri figli si profila un futuro polveroso, fatto di carenza d’acqua e di pochi pesci negli oceani, di aria irrespirabile, terreni maltrattati e cambiamenti di clima. In molti casi, il danno è stato fatto e il tempo è scaduto. Ma qualcosa si può ancora fare per invertire la rotta.
Negli ultimi 50 anni, gli esseri umani hanno modificato gli ecosistemi naturali più che in qualunque altro periodo della nostra storia, al punto che questi ecosistemi presto non riusciranno più a fornire ciò che permette la nostra vita sul pianeta: cibo, acqua, aria respirabile, legno, combustibile e così via. In altre parole, «la capacità degli ecosistemi di sostenere le future generazioni non può più essere presa per certa». Questo sostiene e argomenta, con dati e analisi approfondite, il rapporto diffuso recentemente dalle Nazioni Unite. Un «mega» rapporto: il Millennium Ecosystem Assessment è il risultato di cinque anni di lavoro di 1.360 esperti di tutto il mondo, con la partecipazione di Nazioni Unite, Banca Mondiale, IUCN. Con presentazioni nelle maggiori capitali del pianeta (a Roma è stato presentato congiuntamente dalla FAO e dal WWF), il board di scienziati che ha coordinato questo lavoro ha illustrato le sue conclusioni, riassunte in un titolo: «stiamo vivendo al di sopra dei nostri mezzi».La novità di questo rapporto non risiede tanto nelle analisi e nei dati, anche se non era mai stato messo insieme un compendio così ampio delle conoscenze disponibili sullo stato del pianeta e il declino degli ecosistemi, risiede piuttosto nella sua prospettiva e nella sua ambizione politica. La prospettiva: definisce e misura gli ecosistemi in termini di “servizi” che forniscono agli umani, ovvero i benefici tratti dalla natura (cibo, acqua, legno, fibre, carburante, ecc.) e anche la capacità di foreste e mari di regolare il clima, la capacità delle coste di proteggere dall’erosione di onde e cicloni, fino ai “benefici culturali”, estetici, ricreativi.L’idea è che «gli umani sono al centro degli ecosistemi globali, ne dipendono, e con le loro azioni ne modificano il funzionamento», ha spiegato alla presentazione del Rapporto Prabhu Pingali, direttore della Divisione agricoltura e sviluppo presso la FAO a Roma. Gianfranco Bologna, direttore scientifico e culturale del WWF Italia, l’ha messa in altri termini: la salute degli ecosistemi naturali e quella degli ecosistemi umani (che ne dipendono) sono interdipendenti (M. Forti, 2005).La prima conclusione cui sono giunti gli scienziati è che circa il 60% dei servizi forniti dagli ecosistemi, cioè i benefici che offrono agli esseri umani – acqua, cibo, pesca, regolamentazione del clima, per citarne alcuni – sono degradati o utilizzati in modo insostenibile. Fornire cibo, acqua, energia e materiali a una popolazione in continua crescita ha comportato un prezzo altissimo per i complessi sistemi di piante, animali e processi biologici. Presto toccherà a noi uomini provvedere a pagare i costi altissimi di servizi fin qui forniti gratuitamente dalla natura: saremo in grado di farlo? E con quali stratagemmi economici? Basterà un po’ di “finanza creativa”?

 

Cicale e formiche

Oggi sono soprattutto i Paesi industrializzati a beneficiare di queste risorse naturali. Ma nel futuro i “servizi” resi dall’ambiente saranno sempre meno disponibili. In un’intervista a Radio Vaticana (A. Lomonaco, 2005) il prof. Riccardo Valentini dell’Università della Tuscia (membro del Board del Millennium Ecosystem Assessment) ammoniva: «In questo momento noi siamo delle “cicale”: stiamo utilizzando le risorse del pianeta senza pensare alle conseguenze. Il grido d’allarme di questo rapporto, quindi, è molto chiaro: se non si inverte la tendenza del declino ambientale, ci ritroveremo nel futuro con problemi molto gravi. Problemi che non riguardano soltanto i paesi poveri. Questa emergenza ritornerà come un boomerang anche nei paesi industrializzati. L’uso insostenibile delle risorse aumenta il divario tra paesi ricchi e paesi poveri.»«I problemi con cui dobbiamo fare i conti - perdita di biodiversità, scarsezza d’acqua, degrado delle terre aride - potrebbero peggiorare in modo significativo nei prossimi 50 anni se non si interverrà subito», avverte il Direttore Generale della FAO, Jacques Diouf. E continua: «Siamo responsabili non solo verso noi stessi, ma soprattutto verso i poveri del mondo». Il rapporto mette in luce, infatti, che sono le popolazioni più povere quelle che subiscono maggiormente gli effetti dei cambiamenti nell’ecosistema.
E il declino nella capacità degli ecosistemi di fornire “servizi” sarà il principale ostacolo a realizzare gli obiettivi di sviluppo che si è data l’Assemblea dell’ONU nel 2000 (noti come «Obiettivi di Sviluppo del Millennio», da raggiungere entro il 2015): “problemini” come la sconfitta della fame e della povertà, l’accesso alla salute e all’istruzione, che chiamano in causa una non più procrastinabile cooperazione tra i popoli.

 

Perfino l’economia si evolve: da “Homo homini lupus” a… gregge di pecore!

Di tanto in tanto, animali e persone si aiutano l’un l’altro senza che chi presta aiuto ne tragga un chiaro vantaggio. Come può essersi evoluto un comportamento del genere?

Gli esseri umani e alcuni animali (pesci, pipistrelli, delfini, molte scimmie) condividono un’eredità di comportamenti economici, tra cui la cooperazione, lo scambio di favori reciproci e la rabbia nel trovarsi a corto di risorse. Eppure l’economia classica considera gli individui dei massimizzatori di profitto guidati da puro egoismo. Per dirla con le parole del filosofo inglese Thomas Hobbes (quello di “Homo homini lupus”), «si presume che ogni uomo persegua naturalmente ciò che è bene per lui stesso, e ciò che è giusto invece solo a beneficio della Pace, e in modo fortuito».In questa visione, tuttora predominante, la socialità non è che un’appendice, un “contratto sociale” che i nostri antenati stipularono per i vantaggi che presentava e non perché si sentissero reciprocamente attratti. Ma dal punto di vista della biologia questa ricostruzione immaginaria è quanto di più sbagliato si possa pensare. Noi discendiamo da una lunga linea di primati che vivevano in gruppo, e ciò significa che siamo naturalmente dotati di un forte desiderio di andare d’accordo e trovare partner con cui vivere e lavorare.
Questa spiegazione evolutiva delle ragioni per cui interagiamo sta guadagnando credito grazie a una nuova linea di ricerca, nota come behavioral economics, o economia comportamentale, che si concentra sul comportamento umano reale, invece che sulle forze astratte del mercato, quale guida per comprendere i processi decisionali. Questa nuova disciplina sta sfidando, e modificando, il “modello standard” della ricerca economica, secondo cui gli esseri umani basano le scelte economiche su processi di pensiero razionali.
Nel 2002 la scuola è stata ufficialmente riconosciuta con un premio Nobel condiviso da due dei suoi fondatori: Daniel Kahnemann, psicologo alla Princeton University, e Vernon L. Smith, economista alla George Mason University. Nei loro studi hanno analizzato il modo in cui gli esseri umani effettuano una scelta quando sono alle prese con l’incertezza e il rischio. Gli economisti classici avevano pensato alle decisioni umane in termini di vantaggio atteso: la somma dei profitti che le persone si aspettano di ricavare da un evento futuro moltiplicata per la sua probabilità di accadere. Gli studi di Kahnemann e Smith hanno dimostrato che le persone sono molto più spaventate dalle perdite di quanto siano attratte da potenziali profitti, e che in genere seguono… il gregge.
L’esplosione della bolla speculativa del mercato azionario del 2000 è un potente esempio: il desiderio di comportarsi come gli altri può aver portato gli investitori a pagare le azioni molto di più di quanto avrebbe fatto un agente puramente razionale.

 

Economia… bestiale

L’economia comportamentale animale è una disciplina giovane, che offre sostegno alle nuove teorie dimostrando che tendenze economiche e attività umane fondamentali, come la reciprocità, la divisione dei profitti e la cooperazione, non sono limitate alla nostra specie. Si sono probabilmente evolute in molti animali per le stesse ragioni per cui si sono evolute in noi: affinché gli individui traggano il massimo vantaggio l’uno dall’altro senza mettere in pericolo gli interessi comuni alla base della vita collettiva. Sia lo scambio di beni e servizi nelle economie umane sia le interazioni tra gli animali sono influenzati dalle dinamiche di domanda e offerta.
Quando ogni individuo cerca di conquistare i partner migliori e contemporaneamente mette in vendita i propri servizi, l’ambito in cui si estrinseca la reciprocità diventa quello della domanda e dell’offerta, che è precisamente ciò a cui si riferiscono Ronald Noe, dell’Università Louis Pasteur di Strasburgo, e Peter Hammerstein, della Humboldt di Berlino, con la loro “Teoria del mercato biologico”. Questa teoria, applicabile in tutti i casi in cui i partner commerciali possono scegliere con chi trattare, afferma che il valore delle merci e dei partner varia in relazione alla loro disponibilità. Peraltro le trattative di esseri umani e animali si basano su reazioni emotive, come l’indignazione nel caso di accordi non equi.
Rifiutare un compenso inadeguato – cosa che fanno le scimmie e anche gli esseri umani – è contrario alla logica dell’economia tradizionale. Se l’unica cosa che conta fosse la massimizzazione del profitto, si dovrebbe prendere ciò che si può senza lasciare interferire l’indignazione o l’invidia. Gli economisti comportamentali, d’altra parte, presuppongono che l’evoluzione abbia selezionato emozioni che preservano lo spirito di cooperazione e che queste emozioni influenzino fortemente il comportamento. Nel breve termine, preoccuparsi di ciò che ricevono gli altri può sembrare irrazionale, ma nel lungo periodo fa sì che gli altri non approfittino di noi. Scoraggiare lo sfruttamento è fondamentale ai fini di una cooperazione continuativa. Questo spiega perché gli esseri umani si proteggano da opportunisti e sfruttatori costruendo relazioni di amicizia con partner – come i coniugi e i buoni amici – che hanno superato la prova del tempo. Una volta che abbiamo stabilito di chi fidarci, tendiamo ad allentare le regole. Solo con partner più distanti conserviamo dei registri mentali e reagiamo pesantemente agli squilibri, definendoli “ingiusti”.
La teoria del mercato biologico offre un’elegante soluzione al problema dei profittatori, che ha a lungo preoccupato i biologi, dato che i sistemi di reciprocità sono ovviamente vulnerabili a chi prende piuttosto che dare. I teorici spesso suppongono che i trasgressori vengano puniti, anche se questo non è ancora stato dimostrato per gli animali. Ma i truffatori possono essere rimessi a posto in modo più semplice. Se ci sono più partner tra cui scegliere, basta abbandonare le relazioni insoddisfacenti e sostituirle con quelle che offrono più vantaggi. I meccanismi del mercato sono più che sufficienti a mettere al bando i profittatori. Anche nelle nostre società diffidiamo di chi prende più di quanto dia (F.B.M. de Waal, 2005).

 

I tanti modelli economici delle società umane

Le fondamentali necessità del sostentamento esigono da ogni società umana la continuata esplicazione di attività più o meno complesse, per assicurarsi anzitutto il cibo e una serie di altri beni indispensabili alla vita. Tali attività vengono comunemente definite economiche. Nella società occidentale moderna la quotidiana esperienza ci dice quali siano i fenomeni che possono essere qualificati economici. Tuttavia in qualunque società (e in particolar modo nelle comunità “arretrate”) il fattore economico non è circoscritto a un solo e specifico settore della cultura, ma li pervade tutti. I bisogni umani non sono infatti limitati alle sole esigenze della materiale sopravvivenza: essi abbracciano anche la sfera sociale e spirituale. (V. L. Grottanelli, 1965)
Il soddisfacimento di un bisogno (inteso come “mancanza”) e le relative priorità acquistano valori differenti a seconda delle culture umane, anche se è ovvio che esistono bisogni primari immediati legati alle esigenze biologiche, avvertibili attraverso stimoli fisiologici: nutrimento, riproduzione, difesa dall’ambiente (freddo, caldo, intemperie, ecc.). Questi bisogni sono indipendenti dalla cultura: quello che varia è la tipologia di risposte che le popolazioni umane danno allo stesso stimolo.
Totalmente legati alla cultura che li produce sono invece i bisogni non primari di due categorie: mediati e integrativi. I bisogni mediati sono quelli direttamente connessi al soddisfacimento dei bisogni primari, quali il sistema tecnologico di arco e frecce (o di zappe e fertilizzanti) necessario per ottenere direttamente il cibo. Bisogni mediati sono anche la necessità di cooperazione e di culto, talvolta ritenuti indispensabili per l’espletazione di una certa attività economica. I bisogni integrativi possono essere, per esempio, il senso di appartenenza al gruppo sociale, lo svago, il gioco, l’arte e altre forme di piacere.
L’economia non include solo il momento dell’acquisizione o produzione dei beni, ma anche le fasi successive della loro distribuzione e consumo che sono inestricabilmente collegate alle varie forme culturali. Possiamo dire che, mentre è impossibile isolare un settore meramente economico nel complesso delle attività delle popolazioni umane, esiste un aspetto economico in quasi ciascuna di esse. In questo senso non esiste un Homo economicus, ma un individuo che, inserito in un gruppo culturale, risolve problemi attraverso una sequenza operativa di scelte collegate a tutti gli ambiti della propria cultura. Le decisioni non vengono prese in un vacuum personale, ma sono direttamente collegate a fini preferenziali, variabili da popolazione a popolazione, oltre che da individuo a individuo (A. Salza, 2005).

 

Dalla Natura patrimonio comune all’economia di mercato

Nelle società umane ci sono sempre stati il commercio e lo scambio di beni e servizi, entrambi soggetti alle leggi di natura e della comunità. Le cosiddette culture a livello etnografico sono contraddistinte da una caratteristica essenziale: ogni membro lavora per vivere, producendo direttamente le risorse necessarie. Può esistere una certa dose di scambio con altre popolazioni per ottenere risorse speciali, ma la sopravvivenza è garantita dall’autosufficienza, un livello produttivo obbligato per chi non conosce il denaro (A. Salza, 2005).
Per secoli la sostenibilità ha fornito all’umanità le basi materiali della sopravvivenza: si lavorava per vivere, senza violare gli equilibri naturali attraverso meccanismi di auto-approvvigionamento. I limiti della Natura erano rispettati e regolavano il consumo umano. Quando i rapporti sociali sono organizzati secondo il principio del sostentamento, la Natura è patrimonio comune.
In seguito il mercato e il capitale sono diventati i nuovi principi organizzatori di alcune società, causando l’abbandono delle leggi naturali e comunitarie. La Natura diventa una risorsa quando i principi d’organizzazione sono il profitto e l’accumulazione che generano lo sfruttamento delle risorse necessario alla crescita del mercato.
Ancora oggi l’economia di mercato dominata dal capitale non è l’unica esistente: nella maggior parte dei paesi del Sud del mondo molte persone continuano a vivere grazie ad una economia di sopravvivenza, che resta invisibile nei libri contabili dello sviluppo calcolato secondo le leggi di mercato (V. Shiva, 2005).
Noi, cittadini di questo Piccolo Mondo, rimaniamo convinti di avere soluzioni per tutto, anche per il Grande Mondo, cioè per quella parte di pianeta dove vive la stragrande maggioranza della popolazione. Ma la nostra cecità ci fa pensare che il nostro sia il Grande Mondo e quell’altro, dove vive l’80% della popolazione mondiale, sia piccolo per il semplice fatto che non è capace di svilupparsi, di crescere, di creare “prodotto interno lordo”, di far galoppare l’economia di mercato.
Mai, però, ci si chiede perché il principe dei valori della nostra economia di mercato, cioè la proprietà che genera capitale e di conseguenza mercato, non abbia cittadinanza nella parte più popolosa del pianeta. Perché questo misterioso capitale non riesce ad affermarsi nel Sud del mondo? Perché non si afferma nonostante i cittadini vivano in abitazioni, immaginino e sviluppino attività artigianali per la sopravvivenza, coltivino i campi come si è fatto e si continua a fare anche da noi?
Eppure case, campi e attività artigianali non vanno al di là delle semplici esigenze di avere un tetto, di procurarsi il cibo e, magari, avere del denaro per i bisogni quotidiani. Tutto rimane in una sorta di sommerso che fatica ad emergere o, addirittura, non vuole emergere: da noi si chiama sommerso, nel Sud del mondo si chiama informale (A. Ferrari, 2005).

 

“Ottimizzazione” ed “efficienza” sono obiettivi davvero indispensabili per il benessere economico dell’individuo?

Prendiamo per esempio un ipotetico semplice contadino africano che debba decidere sul da farsi di un suo campicello: potrebbe cercare di ottenere il massimo profitto monetario coltivando caffè per venderlo sul mercato internazionale attraverso le agenzie governative, oppure tentare di massimizzare la resa calorica per acro e coltivare manioca da mangiare direttamente. Potrebbe invece voler ottenere il massimo di proteine per acro, coltivando soia o tentare di avere la massima sicurezza di ottenere un qualche raccolto scegliendo piante resistenti alla siccità, oppure diversificando i raccolti. Potrebbe anche decidere di ottenere la massima resa proteica per ora-di-lavoro/uomo (consumo energetico) e piantare raccolti a crescita rapida che richiedano poche cure. Oppure di voler ottimizzare la produzione calorica in funzione del dispendio totale di calorie che deve utilizzare per la coltivazione, selezionando pertanto raccolti che non richiedano fertilizzanti o aiuto da parte di altri contadini, e l’utilizzo di macchine agricole. D’altro canto potrebbe cercare di ottenere invece il massimo prestigio sociale piantando frutti ricercati, o palme da birra, o facendo pascolare qualche mucca. Il contadino potrebbe anche convincersi che per lui, in fondo, sarebbe meglio garantire la continuità della famiglia e regalare pertanto il campo al genero. Naturalmente potrebbe avere molte altre scelte, tutte ugualmente valide, a seconda della serie di parametri economici e culturali che vengono definiti come il cosiddetto “bene dell’individuo”, fine dell’attività economica.
Non tutte le opzioni, all’interno delle varie popolazioni, sono ugualmente disponibili o percepite. Gli stessi concetti di “efficienza” e “ottimizzazione” devono fare i conti con l’individuo inserito nella propria società. Queste sfumature comportamentali entrano con difficoltà in un modello che consideri l’economia un insieme di bilanci positivi tra il “dare” e l’“avere”.Il contadino che abbiamo portato come esempio può essere ragionevolmente efficiente secondo criteri differenti: potrà riuscire a vivere con pochi rischi di fallimento nel proprio bilancio (economico e sociale, oltre che semplicemente energetico); sarà in grado di ottenere un adeguato quantitativo di proteine, calorie e grassi (almeno per sostenersi); e potrà ricavare dalla sua vita un certo prestigio. La sua sopravvivenza (dalla radice latina super vivere, vivere al di sopra dei bisogni) non è legata alla mera sussistenza. In realtà, egli non sta cercando di ottimizzare la produzione dei beni materiali e spirituali, ma di essere soddisfatto per quello che fa.
Le popolazioni a livello tecnologico semplice, i cosiddetti “primitivi”, sono all’avanguardia contro l’ottimizzazione e l’efficienza come la intendono gli uomini dell’era postindustriale. L’etnologo sul campo si trova spesso a studiare uomini che, attraverso le più svariate tecniche, cercano di sopravvivere in un ambiente che, ai suoi occhi, appare decisamente ostile. Le economie primitive sono decisamente sottoproduttive: nessuna di esse pare sfruttare a pieno le potenzialità economiche. La forza lavoro è usata a basse percentuali di impiego, i mezzi tecnologici non vengono utilizzati appieno, buona parte delle risorse naturali non viene sfruttata. In compenso però i risultati globali delle economie “primitive” non sono disprezzabili: gli uomini e le donne sono contenti, i figli crescono nella tradizione, si vive e si muore senza traumi. In termini endogeni queste popolazioni sono soddisfatte di sé.
Quello che è interessante è che anche i loro bilanci energetici risultano, nella maggior parte dei casi, decisamente positivi. Alcune tribù aborigene australiane “lavorano poco”, sottoutilizzano cioè le risorse del territorio. Non vivendo al di sopra dei propri bisogni, queste economie primitive sono in un certo senso all’avanguardia, al punto che alcuni antropologi economici parlano di “società opulente” per popoli che pochi decenni prima venivano considerati dei “bruti” alla mercè dei rigori di una vita non degna di essere vissuta da un uomo. Quando Herskovits scriveva Economic Anthropology (1958) poteva considerare gli aborigeni australiani come «il classico esempio di una popolazione le cui risorse economiche sono tra le più scarse, al punto che solo la massima intensità di applicazione rende possibile la sopravvivenza». Prendendo in esame il tempo impiegato per procurarsi il cibo in due settimane dagli adulti di un gruppo di aborigeni del Fish Creek, nella Terra di Arnhem (Australia settentrionale) si ricava una media giornaliera di 3 ore e 45 minuti! I dati sono ancora più impressionanti considerando il fatto che sono stati raccolti durante la stagione secca, con scarsità di risorse vegetali e canguri da cacciare sparsi su un territorio più vasto del normale. Le attività considerate comprendono la caccia, la raccolta, la preparazione del cibo, la raccolta della legna da ardere e la riparazione delle armi e degli utensili necessari. In compenso, economicamente parlando, gli aborigeni di Fish Creek ricavano dalla loro attività 2130 calorie giornaliere, il 104% di quanto considerato ottimale secondo standard nutrizionali occidentali. Queste persone non sembrano lavorare duro. Per lo più non lo fanno tutti i giorni: la ricerca del cibo è intermittente, appena ce n’è abbastanza, finisce il lavoro. Non stupisce che gli Yir-Yront, un altro gruppo di australiani, non abbiano differenziazione linguistica per indicare il lavoro e il gioco… (A. Salza, 2005).

 

Concludendo…

Una più attenta analisi delle varie forme di economia tuttora utilizzate dalle popolazioni umane e compresenti in un mondo sempre più globalizzato ce ne mostra pregi e difetti. A quanto pare, anche per un modo di produzione più “sofisticato”, l’ottimizzazione è legata a fattori limitanti che sfuggono alla comprensione dell’economia di bilancio. Fattore comune è la diversità degli approcci: non c’è infatti relazione deterministica tra economia e ambiente, tra ambiente e società, tra scelte individuali e valori economici.
L’economia “primitiva” richiede un’analisi dall’interno per essere valutata, al di là del fatto che molti dei fattori costitutivi di tali economie sono stati sopraffatti e inglobati nell’economia di mercato, rendendole improduttive. La scomparsa di alcuni modi di produzione e dei modelli comportamentali che li sottendono non è una prova del valore assoluto del modello sostitutivo (A. Salza, 2005). Sappiamo bene che, nella storia, modelli economici, politici e culturali hanno spesso prevalso su altri solo grazie all’arroganza del potere e alla forza delle armi. Quella stessa arroganza continua oggi a dirigere l’economia globalizzata verso il depauperamento delle risorse del Pianeta, risorse che diventano “economiche” perché sono accumuli “appetibili” di un capitale naturale limitato e irriproducibile.
La lezione che ci danno altre forme di economia, altrettanto diffuse ma più sommerse e fisiologiche ai sistemi naturali, ci dovrebbe far riflettere sul fatto che la sostenibilità di cui tanto si parla nei conclavi dell’ONU, della Banca Mondiale e del WTO non può prescindere dal rispetto dell’altro essere umano e dell’ambiente che ci sostiene nel “presente”, e che non è detto che lo faccia anche per il “futuro”.
La nostra stoltezza, del tutto illogica economicamente parlando, è quella di vivere al di sopra delle nostre possibilità (stressati e spesso infelici) non solo dilapidando gli interessi del capitale naturale che ci siamo ritrovati “gratis”, ma addirittura intaccando pesantemente il capitale stesso della Vita, sempre più in difficoltà nel darci quei “buoni fruttiferi” che finora abbiamo dato per scontati.

 

Bibliografia

De Waal F.B.M. (2005): L’economia delle scimmie. Le Scienze, n. 442, giugno 2005

Ferrari A. (2005): Il big bang della povertà. Paoline Editoriale Libri.
Forti M. (2005): L’ONU misura il declino degli ecosistemi. Il Manifesto, 31 marzo 2005
Grottanelli V.L. (1965): Etnologica.

Lomonaco A. (2005): Il declino degli ecosistemi mette a grave rischio il futuro delle risorse: è quanto emerge dal Millennium Ecosystem Assessment, il più ampio studio sullo stato del pianeta. Interviste per Radio Vaticana, 31 marzo 2005

Salza A. (2005): Economia. In: “Atlante delle popolazioni”. Enciclopedia Geografica. Corriere della Sera.

Shiva V. (2005): Riscrivere la storia. In: “Internazionale” n. 593, 32-33, 3 giugno 2005

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