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Ambiente

L'UOMO E LE SUE ATTIVITA'


L'energia esiste in varie forme (elettrica, termica, chimica, ecc). Durante la nostra vita quotitiana siamo impegnati costantemente ad utilizzare o trasformare energia. L'uomo e le sue attività stanno aumentando sempre di più, così da far aumentare anche l'utilizzo e di conseguenza i costi dell'energia, da quelli economici a quelli sociali ed ambientali. Il risparmio energetico è l'insieme dei comportamenti, processi ed interventi che ci permettono di ridurre i consumi di energia necessaria allo svolgimento delle varie attività. Il risparmio può essere ottenuto sia modificando le nostre abitudini in modo che ci siano meno sprechi sia utilizzando tecnologie in grado di trasformare l'energia da una forma all'altra in modo più efficiente, ovvero, migliorare l'efficienza energetica.

Sotto il nome di risparmio energetico vanno diverse tecniche adatte a ridurre i consumi d'energia necessaria allo svolgimento delle varie attività umane. Il risparmio può essere ottenuto sia modificando i processi in modo che ci siano meno sprechi sia utilizzando tecnologie in grado di trasformare l'energia da una forma all'altra in modo più efficiente.

Vedi anche: http://it.wikipedia.org/wiki/Risparmio_energetico

  L'ENEA, su mandato e in collaborazione con il Ministero dello Sviluppo Economico, ha predisposto un apposito sito  (http://efficienzaenergetica.acs.enea.it) allo scopo di illustrare le modalità di accesso agli incentivi per il risparmio e l'efficienza energetica, a partire da quelli introdotti dalla legge Finanziaria 2007, al fine di sostenere gli interventi di razionalizzazione energetica nel settore civile, in quello industriale e nel terziario. Il sito è in continuo aggiornamento e sono inserite nuove pagine e nuovo materiale non appena si rendono disponibili.Un interessante e completo opuscolo sul risparmio energetico che possiamo ottenere intervenendo sui nostri impianti casalinghi è scaricabile al seguente link: http://efficienzaenergetica.acs.enea.it/doc/risparmio_casa_agg.pdf

  

Nel maggio 2007, Eni ha presentato la Campagna di Efficienza Energetica 30PERCENTO. La Campagna di Efficienza Energetica Eni permette di calcolare il beneficio effettivo di ogni singolo comportamento e quantificare, di conseguenza, il relativo risparmio. Questo risparmio può raggiungere i 1.600 euro, quasi una "quattordicesima fai da te". Si tratta di 24 consigli facilmente adottabili da tutti i cittadini poiché non comportano modifiche significative al proprio stile di vita; i settori per i quali vengono indicati i comportamenti sono, infatti, quelli che coinvolgono le azioni pratiche quotidiane, i trasporti, il riscaldamento, l'illuminazione domestica e gli elettrodomestici e riguardano il modo in cui una famiglia "tipo" di 4 persone, consuma energia in tutte le sue attività. L'effetto totale di questi comportamenti produce un risparmio fino al 30% dei consumi di energia di una famiglia.
Inoltre, se i 24 consigli fossero applicati da tutti, potrebbero permettere un notevole beneficio per l'intera nazione sia per quanto riguarda la spesa energetica del paese sia in termini di abbattimento dell'anidride carbonica: una riduzione del 30% dei consumi delle famiglie consentirebbe infatti di evitare ogni anno l'emissione di oltre 50 milioni di tonnellate di anidride carbonica, più della metà del deficit dell'Italia rispetto al target fissato dal protocollo di Kyoto.
Dei 24 comportamenti individuati, 14 sono a costo zero - non comportano, cioè, alcun esborso per le famiglie; gli altri 10 sono a costo sopportabile e comportano un investimento che si ripaga in tempi brevi e che in molti casi può godere di sussidi e incentivi.

 http://www.30percento.it/default.htm 

Molto utili (anche se un po’ datati) due Manuali disponibili in rete: il primo, realizzato dalla sede toscana di Amici della Terra, è scaricabile dal sito: http://www.amicidellaterra.org/download/manuale_risparmio_energetico.pdf

 Il secondo, frutto del lavoro dell’Adiconsum, si trova a questo indirizzo:http://adiconsum.inforing.it/shared/documenti/doc2_44.pdf

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TERRA FRAGILE

AMBIENTE

Premessa... storica

Quasi 4400 anni fa le città-stato dei Sumeri (nell’area oggi occupata dall’Iraq) dovettero affrontare un problema straordinario: i terreni accumulavano gradualmente sale, il residuo dell’acqua utilizzata per irrigare. Il sale avvelenò rapidamente il terreno fertile,

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TURISMO E CATASTROFI


Abbiamo speso 900 miliardi di dollari in spese militari,
300 miliardi in sostegni all’agricoltura,
50 miliardi in aiuti allo sviluppo.
Forse dovremmo provare a fare il contrario.

James Wolfensohn
Presidente della Banca Mondiale

Emerge, anche alla luce del pallido sole che illumina ciò che resta di una paradiso turistico, un contrasto inaccettabile: tra la formidabile macchina organizzativa che i paesi ricchi sanno mettere in campo quando decidono di fare la guerra, e la povertà di mezzi con cui affrontiamo una calamità globale che ha superato i 150.000 morti e oltre 500.000 feriti, inclusi molti occidentali.
Lo tsunami ha colpito molti Paesi che aderiscono all’ASEAN (Associazione delle Nazioni dell’Asia Sudorientale che oggi riunisce Brunei, Cambogia, Filippine, Indonesia, Laos, Malaysia, Myanmar, Thailandia, Singapore e Vietnam), un’alleanza nata nel 1967 e che, dal 1992, ha l’ambizione di prefigurare qualcosa di simile al processo di integrazione europeo. Finalizzata alla cooperazione politica, economica e sociale (la protezione dell’ambiente non è inclusa tra le finalità) la regione ha ottenuto ottime performance sul piano dell’innalzamento del Prodotto Interno Lordo dell’area ma, solo agli inizi degli anni ‘90 - sotto gli effetti congiunti del crollo della pesca, di una deforestazione che procedeva al ritmo di un milione e mezzo di acri all’anno, di un deperimento pauroso della qualità delle acque e di un altissimo pericolo di contaminazione da rifiuti tossici e nocivi - si è giunti alla firma di un “Accordo sulla conservazione della natura e delle sue risorse” (sulla carta antesignano della Dichiarazione di Rio e di parte del programma dell’Agenda 21 del 1992) che però è stato finora ratificato solo da tre paesi e che per divenire esecutivo deve esserlo da tutti i paesi dell’ASEAN.
Nel 1992 il Presidente delle Maldive Maumoon Abdul Gayoom era intervenuto alla Conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente di Rio de Janeiro ammonendo i suoi colleghi, capi di stato e di governo di tutto il mondo: «Un innalzamento di venti centimetri del mare in trent’anni forse a voi non potrà sembrare molto, ma per noi significa sparire dalla faccia della Terra se ciò dovesse succedere entro il 2030: perché l’80% delle Maldive è fatto di territorio alto meno di 2 metri sul livello del mare».
Ora siamo qui, leader politici e semplici cittadini, a guardare in televisione gli effetti devastanti di una marea imprevista e forse prevedibile che ha travolto tragicamente l’esistenza delle milioni di persone direttamente coinvolte e, indirettamente, la sensibilità di qualunque cittadino del mondo che ha potuto assistervi mediaticamente.
Da quest’ultimo punto di vista il cataclisma ha avuto dalla sua il fatto di svolgersi in un’area geografica densamente visitata da turisti occidentali, il che ne ha fatto oggetto di una immediata e ridondante cassa di risonanza a livello mondiale. Vip e normali vacanzieri di Natale e Capodanno al sole dei tropici si sono ritrovati uniti su una scialuppa di salvataggio, sballottati da un mare che ha travolto barriere coralline e di censo, che li ha messi al livello dei poveri abitanti di quei luoghi che per noi sono “di vacanza”, “di evasione”, ma per chi ci vive sono “di lavoro”, “di sfruttamento”.

 

Beata vacanza, beata ignoranza…


Il turismo è considerato per definizione un’attività leggera e disimpegnata: in realtà esso provoca ogni anno 6 miliardi di spostamenti, occupa 127 milioni di persone (1 persona su 15 nel mondo lavora nel settore) e produce il 6% del Prodotto Interno Lordo del pianeta. Queste cifre, destinate peraltro a crescere, spiegano l’impatto che questa industria ha e potrebbe avere sempre di più in futuro sull’ambiente e sulle sue risorse naturali, già pesantemente minacciate da altri tipi di industria. Per fare un esempio, le Maldive (le honey moon’s islands perché ci andavano a finire tutte o quasi le coppie europee dopo il fatidico “sì”) sono per noi turisti inconsapevoli solo sinonimo di “paradiso” ma non tutto è così celestiale, né dal punto di vista ambientale né da quello sociale: ma andiamo con ordine.
È dalla fine del 1997 che le barriere coralline di gran parte dell’Oceano Indiano cominciano a mostrare i segni del loro degrado: le madrepore, formate da miliardi di esseri viventi (minuscoli polipi in simbiosi con alghe microscopiche) che costruiscono il reef - caratterizzato dai più sgargianti colori (rosa, blu, viola, verdi, gialli, marroni) - a seguito del riscaldamento dell’oceano, legato ai mutamenti climatici e all’effetto serra, o anche dell’inquinamento delle acque, muoiono e diventano… bianche. Nel giro di soli tre anni il fenomeno si amplia in maniera sempre più preoccupante anche in isole lontane da Malè, a nord e a sud dell’arcipelago, a Minadunmadulu, a Kolumadulu. È scandaloso che nessuno ne parli. Ma ormai non sono solo le Maldive in questo stato: le madrepore stanno morendo anche alle Seychelles, a Mauritius, negli atolli di Karavatti e Cannanore delle Laccadive, persino nelle semisconosciute Andatane e nelle Nicobare, negli atolli più sperduti di fronte alla penisola arabica e alle coste del Madagascar.

Ma sui depliant turistici le immagini che appaiono sono sempre quelle coloratissime di una volta: chi se ne intende ormai lo sa e cerca un altro paradiso intatto altrove (finché se ne troveranno…) e, chi non ci capisce niente di mare, ammirerà… la morte del corallo e di un fragilissimo ecosistema (non solo metaforicamente) su cui poggia l’immenso “edificio” di un turismo di massa costruito disinvoltamente dall’uomo.
Sul piano sociale l’arcipelago delle Maldive è una repubblica di 300 mila cittadini (oltre 852 per km2 - una densità maggiore perfino di quella del Bangladesh - a cui si sommano quasi 600.000 turisti stranieri, tra cui 140 mila italiani ogni anno!) dove non tutto fila liscio: nei mesi scorsi ci sono stati scontri tra potere e opposizione, con tanto di feriti e perfino morti. Gli avversari del Presidente Gayoom (al potere dal 1978, una longevità politica che supera quella di tutti gli altri capi di stato asiatici in carica) hanno dovuto fondare un loro partito all’estero, nello Sri Lanka, perché nelle Maldive i partiti sono vietati.
Seppure il turismo abbia permesso all’economia locale di decuplicare il reddito pro capite negli ultimi 25 anni (il 60% delle risorse valutarie viene da questo settore, il resto dalla pesca del tonno), i due terzi della popolazione, in maggioranza giovani sotto i 25 anni, guadagna in un mese meno del costo di una camera per notte, lavorando in condizioni di lavoro non certo “paradisiache”: uno sfruttamento che ha provocato ribellioni sempre più frequenti.
Ma per il turista (e per il tour operator, soprattutto, business as usual) è meglio non sapere niente di tutto questo. I contatti con la popolazione locale sono quasi del tutto inesistenti: non si è verificata alcuna “contaminazione” culturale tra la popolazione locale e i turisti, a differenza di quanto accaduto in altre aree vicine (Goa, Bali o Thailandia, nel bene e nel male, si pensi allo sciagurato “turismo sessuale”…).
Dev’essere una beata vacanza nella più beata ignoranza… È quanto stanno già sperimentando gli ignavi (non ignari) vacanzieri che, ad una settimana appena dal cataclisma, sono lì, a pochi passi dalla disperazione e dalla devastazione, a sorseggiare un drink, a godersi una sacrosanta vacanza, costi quel che costi…
Non che prima le cose andassero meglio: solo persone con il prosciutto sugli occhi e/o con il pelo sullo stomaco potevano trascorrere le ferie in paradisi “fuori dal mondo” infernale che è lì, a due passi dal resort, dietro il muro del villaggio turistico, nella bidonville a breve distanza dall’albergo cinque stelle… E dire che di posti non proprio tranquilli al mondo ce ne sono: basta informarsi presso il sito internet del nostro Ministero degli Esteri. Ma sembra che per godersi la vacanza in certi paesi dell’Africa, dell’Asia, dell’America Latina non devi vedere, non devi parlare, in una parola: non devi pensare.

 

 

Chi piange, chi ride…


A una prima valutazione molto sommaria l’impatto del maremoto sulle economie delle nazioni più colpite dalla calamità appare limitato. Per due motivi: o perché si tratta di aree già molto depresse, dove l’onda anomala aveva poco da portarsi via, se non la vita della povera gente; oppure perché, per quanto devastante ed invasivo (ad Aceh, la regione indonesiana più vicina all’epicentro, l’acqua è penetrata per quasi 6 km nell’entroterra), lo tsunami ha prodotto la maggior parte del suo effetto distruttivo in prossimità delle coste dove solitamente la presenza degli insediamenti industriali è scarsa.
È stato invece un colpo molto duro per l’industria turistica dei paesi sconvolti dall’onda anomala, ma anche per quella dei paesi ricchi dell’Occidente. Qui il settore del turismo organizzato avrà un ulteriore tracollo: l’associazione dei tour operator stima che il settore possa perdere fra i 70 e gli 80 milioni di euro nel solo mese di gennaio sulle rotte asiatiche, con una flessione della domanda stimabile nel 30%.
Le assicurazioni invece tirano un sospiro di sollievo: la catastrofe del Golfo del Bengala è un disastro di serie B nelle ciniche graduatorie dei broker mondiali. I costi a carico delle grandi compagnie assicurative, secondo le prime stime molto provvisorie degli analisti, oscilleranno tra 1 e 5 miliardi di dollari, “pochi” spiccioli rispetto ai 20 miliardi di danni ai bilanci del settore causati dai 4 uragani caraibici abbattutisi sulla Florida nello scorso autunno.
Le ragioni di un conto così sproporzionato rispetto alle dimensioni della tragedia sono due.
La prima è che ben poca gente nell’area interessata dal maremoto era assicurata: la spesa media annua pro-capite per le polizze in Indonesia, il più avanzato dei paesi travolti dallo tsunami, è di 14,5 dollari contro i 3638 degli USA. La seconda è che il costo del lavoro nell’area è molto basso e così anche le spese per la ricostruzione saranno relativamente ridotte.
Peraltro il 2004 è stato per le grandi compagnie di assicurazioni un anno “nero”: i danni economici provocati da “disastri per cause naturali” hanno superato per la prima volta la barriera dei 100 miliardi di dollari, di cui 42 sono o diverranno richieste di risarcimento. I dolori peggiori però le compagnie non li hanno avuti da eventi catastrofici avvenuti in paesi in via di sviluppo (che pure da soli hanno sofferto quasi la metà dei 21 mila morti in queste tragedie, esclusa quella del Golfo del Bengala), ma dagli uragani abbattutisi in passato sugli USA e sul Giappone, dove, si sa, il costo e… il “valore” della vita è di serie A!
Adesso che la bolletta di quei disastri ha sfondato l’argine dei 100 miliardi di dollari di perdite economiche, qualche associazione ambientalista spera che questo indurrà i vertici economici e politici mondiali a “inventarsi” qualche cosa per prevenire o ridurre gli effetti dei cataclismi “naturali” in cui talvolta c’è anche lo zampino dell’uomo (come nel caso dei cambiamenti climatici).

 

La parola alla… Scienza


Gli scienziati sono molto cauti nel mettere in relazione l’intensificarsi dei disastri naturali con l’effetto serra o altre alterazioni dell’ecosistema causate dall’uomo. È però significativo che i dati forniti da Swiss Re, la più grande società di ri-assicurazione mondiale, mettono bene in risalto una coincidenza perlomeno sospetta: dal 1990 il tasso di catastrofi naturali ha subito un’impennata, lo stesso anno in cui il fenomeno del riscaldamento del clima è diventato più significativo.
Il Centro di ricerca sull’epidemiologia dei disastri dell’Università di Lovanio (che collabora con l’Organizzazione Mondiale della Sanità) ha contabilizzato in 570 i disastri naturali verificatisi negli ultimi 30 anni: 75 disastri nel 1975, 150 nel 1982, 225 nel 1994, 546 nel 2000. L’ONU afferma poi che il numero dei morti per effetto dei disastri naturali negli anni ‘90 è raddoppiato rispetto agli anni ‘70.
Da questi dati emerge un’altra tragedia… nella tragedia: i maggiori danni provocati da catastrofi naturali (alluvioni, cicloni, eruzioni vulcaniche, tempeste, terremoti) gravano sistematicamente sui Paesi poveri. Non si tratta di accanimento della natura matrigna contro i meno abbienti: il problema sta nel fatto che il moderno sviluppo delle scienze naturali e dell’elettronica-informatica che consente la trasmissione istantanea delle informazioni, permette ai paesi avanzati di evitare o limitare catastrofi: per esempio anche con la costruzione di case antisismiche, realizzate su vasta scala in Giappone per limitare o addirittura eliminare i danni dei terremoti.
Anche il modo in cui si protegge il territorio è importante: l’uragano Jeanne fece 3000 morti ad Haiti e solo 20 nell’altra parte della stessa isola, nella Repubblica Domenicana. È vero che quest’ultima ha avuto un maggiore sviluppo economico rispetto ad Haiti, ma c’è anche un’altra spiegazione: Haiti ha distrutto i suoi boschi, che hanno un ruolo fondamentale nel proteggere il suolo dal dilavamento causato dalle piogge e nel limitare i danni degli uragani, mentre la Repubblica Domenicana li ha protetti.
Ma avere risorse non è sempre sufficiente: bisogna saperle usare. Purtroppo a questa categoria appartiene anche l’Italia: siamo l’unico Paese industrializzato compreso nell’elenco di quelli che hanno subito le peggiori catastrofi naturali per numero di morti a partire dal 1970. Il triste primato dipende dal terremoto che il 23 novembre 1980 causò ben 3100 vittime in Campania e Basilicata. La scossa era inevitabile, ma le costruzioni inadatte a resistervi pesano sulla coscienza non solo dei cittadini ma soprattutto dei Governi nazionali e locali che non promossero la costruzione di edifici asismici e, anzi, con i condoni incoraggiano edificazioni raffazzonate e in località a rischio.

Per altro vi è da dire che le catastrofi naturali, terremoti e maremoti, sono sempre accadute a intervalli più o meno regolari, ma le conseguenze sono adesso spesso più gravi perché avvengono in zone ad alta densità di popolazione e, in termini di vite umane, il bilancio finisce per essere peggiore.
Secondo alcuni scienziati, malgrado il fatto che la possibilità di prevenire i terremoti è al momento quasi inesistente, anche questo sisma avrebbe potuto provocare meno morti se fosse stato affrontato meglio, perché ci sono volute 2-3 ore per raggiungere alcuni dei posti colpiti. L’entità di questa tragedia poteva essere drasticamente ridotta anche della metà con un adeguato sistema di preallerta, costituito da tecnologie avanzate, un’efficace organizzazione di protezione civile ed una capillare educazione della popolazione nelle zone a rischio.
Il termine “globalizzazione” ci induce a pensare che tutto il mondo è connesso, che l’informazione possa viaggiare in tempo reale tra i punti più distanti del pianeta, ma non è affatto così, e ce ne accorgiamo dolorosamente in questi casi. Adesso, di colpo, ci rendiamo conto che non solo i due terzi dell’umanità non ha mai effettuato una telefonata, ma un terzo non sa neppure cosa sia un interruttore della luce, perché non è collegata alla rete elettrica.
Uno degli ostacoli più evidenti nell’opera di soccorso è la mancanza di infrastrutture che rallentano la nostra buona volontà di soccorrere le popolazioni colpite: solo oggi scopriamo che anche prima dello tsunami in molte di queste regioni (quelle poco battute dai turisti) mancavano reti di trasporto, acqua, energia, fogne, sanità, comunicazione. I media criticano i governi per non averle costruite, come se i beni collettivi fossero una priorità in tempi di libero mercato…
Se si fossero avvertite più tempestivamente le popolazioni di alcune zone, dopo che si è creata la prima onda, sarebbe stato possibile evacuarle e salvare molte vite. Le onde avanzavano a 500 km/h ma certe località erano a 2500 km di distanza: la Thailandia meridionale è stata investita un’ora dopo il terremoto originario, l’India e lo Sri Lanka due ore e mezzo dopo. Ancora più tardi Malesia e Maldive. Si potevano avvisare le aree interessate del pericolo incombente e lanciare un ordine di evacuazione per la popolazione. Nessuno lo ha fatto: perché?
Eppure sistemi di monitoraggio e prevenzione esistono in Giappone e sulla costa pacifica degli USA ed hanno funzionato anche in questo caso: il direttore della stazione di Honolulu del “Centro di allerta maremoti per il Pacifico” (i cui sismografi avevano captato quello che stava accadendo sotto le acque intorno a Sumatra) 15 minuti dopo la scossa ha emesso un bollettino diffondendolo a tutti i 26 paesi membri del DART (Sistema internazionale di allarme anti tsunami), tra cui anche Indonesia e Thailandia. L’allarme nei paesi interessati è stato però evidentemente sottovalutato e l’informazione si è diffusa troppo lentamente, via telefono, senza la tempestività garantita da sistemi tecnologicamente più avanzati: la mancanza nei Paesi colpiti di sensori in grado di capire in anticipo direzione e caratteristiche dei maremoti ha fatto il resto.
I costi di un sistema di monitoraggio, analogo a quelli americani e giapponesi, sono infatti molto elevati e serve personale specializzato per gestirlo: secondo gli studiosi, le probabilità che un evento del tipo tsunami si verificasse nell’oceano Indiano erano scarsissime e quindi alcuni paesi, come India e Bangladesh, avevano preferito investire le poche risorse disponibili per realizzare un sistema congiunto di monitoraggio anti-tifoni, in grado di salvare la vita di migliaia di persone da questi eventi naturali tipici di quest’area. Là i pescatori sono ormai abituati ad ascoltare le previsioni meteo alla radio: le loro vite, molto spesso, dipendono da semplici, banali radioline a transistor che descrivono i movimenti e i cambi di traiettoria dei cicloni. L’India non poteva permettersi 26 milioni di dollari per un sistema di monitoraggio dopo aver speso 3 miliardi di dollari per fabbricare bombe atomiche, che speriamo non userà mai…
Il ruolo più cruciale del DART spetta agli individui incaricati di trasmettere l’allarme dal centro di segnalazione terrestre al pubblico: negli USA i bollettini possono essere irradiati immediatamente e in maniera capillare a tutte le radio e tv del paese. Entro la fine del 2005 è previsto un nuovo dispositivo di allarme che azionerà automaticamente altoparlanti su torrette poste su tutte le spiagge del paese.
Solo un problema di pertinenza di Paesi in via di sviluppo, carenti di fondi e di conoscenza scientifica? A giudicare dalla situazione in Italia non si direbbe. Pur avendo completato il catalogo storico dei maremoti nel nostro paese, di cui abbiamo notizie fin dal 79 d.C, e pur consapevoli del fatto che la vicinanza delle loro sorgenti alla fascia costiera è un’aggravante per l’esiguità del tempo (pochi minuti) a disposizione per avvertire la popolazione, di fatto anche noi siamo privi di un sistema capace di dare tempestivamente l’allarme.
Va inoltre considerato un altro fattore: nel caso dello tsunami del sud-est asiatico, oltre ad una carenza di tecnologia si è manifestata una carente valutazione dell’informazione. Lentezza ed errata percezione della gravità della situazione hanno dunque amplificato i termini della catastrofe e hanno contribuito a moltiplicare le morti. Un problema più umano che tecnico, dunque.

 

Due mondi accomunati


Secondo alcuni lo tsunami dell’Oceano Indiano ha rimarcato in modo tragico lo squilibrio tra due mondi, quello scientifico e tecnologico, un club ristretto che possiede strumenti di previsione e di protezione per i suoi cittadini, e l’altro mondo, ai margini dello sviluppo, dove le popolazioni sono abbandonate alla furia degli elementi, senza aiuto, senza soccorso.
L’ignoranza, fattor comune ai due mondi di cui sopra, ha dimostrato ancora una volta di essere all’origine di gran parte dei mali dell’umanità. L’egoismo impedisce di condividere i progressi scientifici, la povertà di attrezzarsi adeguatamente per fronteggiare i pericoli.
Qui ricchi e poveri hanno condiviso una stessa tragica sorte. Nei primi momenti dopo una catastrofe, scatta immediata l’onda della solidarietà capace di superare antiche e profonde divisioni: fu così dopo un terremoto al confine tra India e Pakistan alcuni anni fa, così è adesso in Sri Lanka, dove la comunità civile si è prodigata negli aiuti senza tenere in conto l’etnia delle vittime, se fossero tamil o cingalesi.
Dalle rovine di questa catastrofe potrà nascere un comune impegno per la ricostruzione di un mondo unito nella comune lotta all’ignoranza?
Saranno capaci le Nazioni Unite, di nome e di fatto, di colmare le enormi differenze che diventano sempre più abissi tra ricchi e poveri?
Saranno capaci i nostri governanti di rivedere le loro convinzioni sulle catastrofi, considerate solo fenomeni naturali (forse manifestazioni divine?) contro le quali non si può far niente, se non rassegnarsi e ricominciare, cambiando tutto per non migliorare niente?
Saremo capaci, noi tutti, di ricordarci che la vita di ogni essere umano è importante aldilà del colore della pelle? Che il valore della vita non dipende dal fatto che appartenga ad un turista o ad un locale ma dal fatto di scoprirne il senso?


Indonesia tsunami fear

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SVILUPPO SOSTENIBILE

 AMBIENTE

 

 
Il RUOLO DELL’EDUCAZIONE NELLA COOPERAZIONE ALLO SVILUPPO SOSTENIBILE

Il dibattito sullo sviluppo, di fronte alla realtà contemporanea, si sposta sempre più dal campo della tecnica economica a quello della costituzione socio-istituzionale, responsabilizzando, tra gli altri soggetti complementari in causa, il ruolo dello Stato quale elemento fondamentale per l’innesco del processo di sviluppo. Due sembrano essere i nodi fondamentali da sciogliere:

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I LIMITI MENTALI DELLO SVILUPPO INSOSTENIBILE

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«Senza una forte ventata di opinione pubblica mondiale, alimentata a sua volta dai segmenti più creativi della società – i giovani e l’“intellighenzia” artistica, intellettuale, scientifica, manageriale – la classe politica continuerà in ogni paese a restare in ritardo sui tempi, prigioniera del corto termine e d’interessi settoriali o locali, e le istituzioni politiche, già attualmente sclerotiche, inadeguate e ciò nonpertanto tendenti a perpetuarsi, finiranno per soccombere.»

Aurelio Peccei


Trenta anni fa queste riflessioni del fondatore del Club di Roma (prestigioso cenacolo di premi No-bel, leader politici ed intellettuali dedicatisi ad analizzare i cambiamenti della società contempora-nea) ammonivano i politici di tutto il mondo a fare qualcosa per affrontare i problemi sociali, am-bientali, culturali posti da una crescita economica apparentemente senza limiti. La presa di coscien-za che qualcosa dovesse essere fatto si concretizzò in quel lontano 1972 nella prima Conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente umano, cui parteciparono delegati di 113 paesi, e che portò alla creazione dell’UNEP, l’agenzia dell’ONU che si occupa delle questioni ambientali.
L’urgenza di fare qualcosa in più a livello politico si manifestò solo vent’anni dopo, nel 1992, con l’Earth Summit di Rio de Janeiro, cui parteciparono rappresentanti di oltre 178 paesi e 117 capi di Stato. Dopo altri 10 anni si è appena concluso a Johannesburg il Vertice sullo Sviluppo sostenibile, la più grande manifestazione mai organizzata dalle Nazioni Unite. La questione cui esperti e politici hanno tentato di rispondere è stata: cosa è stato fatto nei passati trent’anni per la tutela dell’ambiente e cosa occorre fare in futuro?


L’interesse per l’ambiente: coscienza contro distruzione?

Solo il verificarsi di grandi eventi catastrofici e la convocazione di queste grandi riunioni sembra ridestare il sopito interesse dell’opinione pubblica per la tutela dell’ambiente. Possiamo grossola-namente suddividere la popolazione mondiale in tre gruppi a seconda del sentimento prevalente e-spresso nei confronti della Natura che oscilla tra:
a) la venerazione per la Madre Terra (sentimento di rispetto proprio delle culture cosiddette “pri-mitive”, ripreso dai movimenti ecologisti contemporanei);
b) la grande apatia (J. Goodall, 2002) di gran parte della popolazione mondiale (dovuta probabil-mente ad una diffusa ignoranza su quale sia il “valore” - che qualcuno ha cercato anche di calco-lare in termini monetari - dei servizi che la natura fornisce al genere umano);
c) l’assenza di una coscienza individuale e di controlli sociali che pongono un individuo o un im-presa in grado di provocare involontariamente o deliberatamente dei danni ambientali impunemen-te.

a) L’idea che la Terra sia un “essere vivente” è antica quanto l’uomo. I nostri antenati, anche se non avevano sviluppato una tecnologia raffinata come la nostra, dimostravano di avere una comprensio-ne delle leggi della Natura semplice e profonda e, in un certo senso, più raffinata della nostra.
In tutte le mitologie del mondo i diversi popoli hanno sempre pensato che la porzione di universo da loro conosciuta fosse qualcosa di vivo: la foresta per i Pigmei, l’oceano per i Polinesiani, la monta-gna per i Tibetani, il deserto per i Tuareg e così via. Tale visione di “terra madre” è stata abbando-nata con l’Illuminismo e il prevalere della ragione ma, anche nel pensiero moderno e contempora-neo, non sono mai mancati richiami all’antica concezione, perfino a livello scientifico.
b) Fra i più, tuttavia, prevale l’oblio circa l’importanza della Natura per la sopravvivenza stessa dell’uomo. Anche in presenza di segnali inequivocabili di reazioni eclatanti in risposta ad interventi umani ormai divenuti globali, l’atteggiamento più diffuso è l’assuefazione o, peggio, il diniego. Il diniego consiste nel negare, nelle forme più svariate e ipocrite, l’esistenza di ciò che esiste e per giunta si conosce. Si tratta di un vizio antico ma, paradossalmente, la iperdiffusione dei mezzi di comunicazione odierni l’hanno reso esponenziale e scandaloso (Cohen, 2002). Il diniego, che all’origine era solo del potere politico, è passato, in forme variegate ad obnubilare la sensibilità del-la gente comune, non nella forma cinica e brutale di chi mente, ma in quella più morbida di chi non sa o finge di non sapere come vanno davvero le cose, o che comunque ritiene che non sia di sua competenza intervenire. Se il diniego politico è cinico, calcolato ed evidente, il nostro diniego di cittadini di fronte ai problemi ambientali, divenuto indifferenza, è disastroso perché toglie ogni spe-ranza a una possibile reazione e inversione del corso degli eventi: i fatti sono conosciuti ma non so-no percepiti come un elemento di “disturbo psicologico” o carichi di un imperativo morale ad agire. Ma così finiamo con il sostituire alla responsabilità, alla sensibilità morale, alla compassione, al senso civico, al coraggio, all’altruismo, al senso della comunità, l’indifferenza, l’ottundimento emo-tivo, la desensibilizzazione, la freddezza, l’alienazione, l’apatia, l’anomia e alla fine la solitudine di tutti nella vita della città (Galimberti, 2002).
c) Nel peggiore dei casi poi, individui singoli o associati giungono involontariamente o deliberata-mente ad alterare gli equilibri naturali provocando quei fenomeni talvolta eclatanti e tristemente famosi che vanno sotto il nome di “inquinamento”.


Chi inquina? E perché si inquina?

Potrebbero sembrare delle domande ingenue, ma vale la pena di farle per chiarire come stanno le cose. La risposta in entrambi i casi è: chiunque non abbia una coscienza individuale e sia posto in grado di poterlo fare impunemente. Di solito si dice: «È l’industria che inquina». Ma è altrettanto vero che anche l’agricoltura inquina e che anche il cittadino comune inquina (riscaldamento dome-stico, traffico automobilistico, rifiuti). A fronte di risonanti grandi inquinatori, la grande massa dei piccoli ma numerosi inquinatori svolge un ruolo di entità analoga, se non superiore.
L’inquinatore inquina in quanto deve allontanare da se stesso i materiali (rifiuti) che procurano un danno immediato (economico, igienico, estetico, di ingombro, ecc.) nella maniera più economica possibile per se stesso, che consiste solitamente nello spostare i rifiuti al di fuori del proprio oriz-zonte di azione personale. Lo stesso fanno gli Stati: i Paesi sviluppati mandano i loro scarichi tossici nei Paesi in via di sviluppo; il Giappone manda le sue scorie nucleari in Inghilterra in attesa di tro-vare forse qualche altro pianetino dell’Universo dove spedirle per una.... soluzione finale. Ma al di fuori del proprio orizzonte personale d’azione si incontra quello del nostro prossimo, sul quale si ri-versa il costo di smaltimento (in termini di qualità ambientale) che noi abbiamo risparmiato.
Ecco così che, da un piano individuale, si passa a problemi di natura sociale più vasti. Per citare al-cuni esempi:
- tutti voglio l’elettricità e il gas in casa, ma nessuno vuole una centrale elettrica o un gasometro vicino a casa propria;
- tutti vogliono il servizio di fognatura e ritiro rifiuti, ma nessuno vuole un impianto di depurazione o un inceneritore oppure una discarica vicino alla propria abitazione o al luogo di villegiatura pre-scelto;
- tutti sanno che esistono lavori meno salubri di altri, che sono indispensabili per il nostro stile di vita, ma nessuno vuole per i propri figli tali lavori.
Si può concludere dicendo quindi che si inquina:
• per risparmiare soldi sui sistemi di allontamento e smaltimento dei rifiuti;
• per lo scarso valore che si attribuisce alla qualità dell’ambiente in relazione al godimento di altri beni che vengono privilegiati anche se agiscono negativamente sull’ambiente (automobili, moto-scafi, località turistiche affollate, ecc.)
• per ignoranza degli effetti dell’inquinamento sulla propria salute.
Per quanto si voglia allontanare da noi gli aspetti più “sporchi” del nostro modello di sviluppo, la globalizzazione ormai imperante fa sì che ciò che noi vogliamo far uscire dalla porta spesso ci si riaffacci in casa dalla finestra (la Gran Bretagna manda pesticidi banditi nel suo territorio nelle Fi-lippine per la coltivazione di frutti esotici che vengono poi esportati nei Paesi sviluppati, Inghilterra compresa, tanto per fare solo un esempio).
Ma se l’inquinamento è dannoso alla qualità della vita umana, non è insensato inquinare?
È sicuramente insensato il comportamento dell’inquinatore che procura un danno a se stesso e ai suoi familiari: solo la non conoscenza dell’entità e delle conseguenze del fenomeno giustifica infatti l’apparente disprezzo per il bene di persone che rivestono per l’inquinatore un grande valore affetti-vo. Qualora conscio di tale pericolo l’inquinatore non dovrebbe esitare a pagare i costi del disinqui-namento o di un diverso modo di produrre beni o un diverso stile di vita. 

 

Capire se e come il mondo è cambiato: la parola agli scienziati

Alcuni scienziati come Edward O. Wilson (sociobiologo dell’Università di Harvard) e Hal Mooney (ecologo dell’Università di Stanford) sono convinti che, specialmente negli ultimi dieci anni, l’umanità abbia molto più a cuore la sorte del pianeta anche in virtù dei progressi scientifici nella conoscenza delle dinamiche del nostro pianeta e dell’emanazione di apposite convenzioni interna-zionali che ha spostato l’attenzione sui problemi ambientali e che spinge ad elaborare strategie glo-bali con cui affrontarli. Sherry Rowland (chimico dell’atmosfera dell’Università di Irvine, Califor-nia) sottolinea altresì il fatto che, malgrado questi progressi, «quanto a modificare i nostri compor-tamenti, tutto è fermo a dieci anni fa».
Gli scienziati stanno collaborando come mai prima d’ora per proteggere il patrimonio biologico del-la Terra ed è ormai chiara a molti di loro la necessità di rendere le loro scoperte vincolanti sia per il grande pubblico sia per chi ci governa, dimostrando che con la conoscenza dei fenomeni naturali si possa arrivare alla previsione dei loro effetti più negativi per l’uomo e che quindi sia possibile adot-tare misure per ridurre i disagi. Ma tra gli scienziati sono anche in molti a pensare che solo l’impatto con eventi drammatici possa indurci a modificare i nostri comportamenti riguardo l’ambiente.


Le leggi dell’ambiente

La consapevolezza della gravità delle minacce ecologiche transnazionali e globali e della necessità di trovare delle contromisure, ha determinato negli ultimi decenni un aumento straordinario del nu-mero di accordi internazionali in questo ambito. Il diritto ambientale è la branca del diritto interna-zionale che ha registrato, soprattutto negli ultimi anni e spesso a seguito di eventi catastrofici, gli sviluppi più rapidi e notevoli.
Dal 1919 ad oggi il numero dei trattati internazionali è cresciuto in maniera esponenziale ed oggi sono circa 240. Oltre i 2/3 sono stati stipulati dopo la Prima Conferenza dell’ONU di Stoccolma del 1972. I 20 anni trascorsi poi tra la Conferenza di Stoccolma del 1972 a quella di Rio del 1992 hanno visto lo sviluppo di oltre 300 tra testi, regolamenti e leggi internazionali sull’ambiente, contenenti migliaia di disposizioni, il cui solo esame pone non poche difficoltà.
Quanto poi alla reale attuazione gli Stati si comportano un po’ come i singoli individui di fronte alla Legge: in genere si dimostrano estremamente restii a riconoscere pubblicamente le proprie respon-sabilità in tutti i settori della scena internazionale compreso l’ambiente. Il che si traduce nella mani-festa riluttanza con la quale gli Stati accettano di sottoporre le controversie ambientali che li riguar-dano ad un giudizio arbitrale presso la Corte Internazionale di Giustizia o presso altri organi di ga-ranzia. Gli Stati (ma anche le multinazionali o i singoli individui) preferiscono negoziare e inden-nizzare spontaneamente piuttosto che sottostare alle leggi di un tribunale e rischiare di creare un di-battito sulle proprie responsabilità.
Ed in questo senso si capisce perché ultimamente a livello internazionale sempre più si parli di co-dici di autoregolamentazione (per es. per le imprese multinazionali) attraverso cui accettare le rego-le più comode per sé piuttosto che di un Tribunale Internazionale dell’Ambiente di fronte al quale “lavare i propri panni sporchi”...
Anche sul piano nazionale la pletora di leggi ambientali rischia talvolta di favorire anziché preveni-re e combattere l’inquinamento. Per fare un esempio, negli USA una rete di nove agenzie governa-tive i cui budget sono controllati da ben 44 commissioni e sottocommissioni controlla gli oceani sta-tunitensi: una macchina lenta, priva di un’unica legislazione, che ostacola le procedure di salva-guardia delle aree marine in pericolo a causa dell’inquinamento. Per fare fronte al problema che si trascina da tempo, sono stati create altre due commissioni (sic!) che stanno esaminando l’attuale si-stema in ogni sua componente: dall’intricata struttura di controllo ai problemi del degrado dell’ecosistema, agli interessi economici legati alla viabilità delle acque e alle risorse petrolifere.
Insomma tra il legiferare ed il fare c’è di mezzo un ampio mare...


Controlli e punizioni

Come abbiamo visto il difficile non è fare le leggi, ma farle rispettare.
«Se si vuole una convivenza civile, attraverso regole condivise da tutti, bisogna fare in modo che tali regole vengano davvero rispettate. È molto difficile che ciò avvenga spontaneamente, per senso civico: crederlo sarebbe illusorio. Soprattutto quando si tratta non di singoli individui, ma di gruppi umani o di intere popolazioni» (P. Angela, 2000).
Un esempio paradossale in questo senso è rappresentato dalla posizione degli USA: nel 1990 la prima amministrazione Bush impose alle duecento principali centrali a carbone degli Stati Uniti di mantenere le proprie emissioni di biossido di zolfo entro una certa quota annuale, oltre la quale si rischiavano pesanti multe. Da allora i limiti sulle emissioni inquinanti vengono applicati in tutto il mondo, coinvolgendo anche ossidi di azoto, metano, polveri sottili e naturalmente i sei gas respon-sabili dell’“effetto serra”, con in testa l’anidride carbonica.
Oggi invece le prese di posizione della seconda amministrazione Bush sono quantomeno contraddit-torie: mentre sul piano politico militare internazionale esige adeguati controlli e minaccia severe punizioni a chi non rispetta i dettami dell’ONU, sul fronte ambientale si guarda bene dal sottoscri-vere documenti delle stesse Nazioni Unite che potrebbero solo lontanamente comportare “controlli e punizioni” sicuramente meno severe di quelle che il Pentagono intende infliggere all’Irak di Sad-dam Hussein.


Punizioni ma anche premi...

C’è anche un’altra strategia per orientare il comportamento sociale: riuscire a usare in modo creati-vo dei premi anziché delle punizioni è molto redditizio quando si tratta di agire sul comportamento umano. Del resto, gli psicologi sottolineano sempre i vantaggi dell’istituzione del premio rispetto alla repressione e alla punizione. Utilizzare il premio può risolvere in modo brillante situazioni for-temente conflittuali (P. Angela, 2000).
Sui gas a effetto serra gli USA hanno proposto di assegnare dei permessi per l’inquinamento che le aziende possano acquistare e vendere: prendiamo il caso di una centrale a carbone che sta consu-mando più rapidamente del dovuto la quota di biossido di zolfo (il gas responsabile delle piogge a-cide) assegnatale dal governo. Per ovviare al problema la centrale può rivolgersi a un “trader” di biossido di zolfo e acquistare le partite in più corrispondenti al suo fabbisogno, offerte sul mercato da altre centrali che sono riuscite a ridurre le loro emissioni più del dovuto.
In questo modo tutti hanno dei vantaggi: il compratore evita la multa e quindi risparmia, il venditore ci guadagna e l’inquinamento diminuisce, da un lato perché l’Ente federale per l’ambiente di anno in anno abbassa le quote, dall’altro perché la possibilità di vendere il surplus è un potente incentivo a ridurre le emissioni. Negli USA la produzione complessiva di biossido di zolfo negli ultimi 10 an-ni è significativamente calata anche grazie a questi scambi di quote sui mercati finanziari.
L’idea potrebbe essere applicata ad altri aspetti della tutela ambientale.
Le foreste e i suoli agricoli assorbono anidride carbonica e in tal modo frenano il riscaldamento globale. Se le foreste e le comunità agricole potessero ricavare denaro in cambio dello “smaltimen-to” dell’anidride carbonica, avrebbero un ulteriore incentivo a difendere tali risorse e un’altra fonte di guadagno. In tal modo, per esempio, aziende produttrici di energia europee, americane o giappo-nesi, pagando gli abitanti dei villaggi africani in modo che questi salvaguardino meglio i loro patri-moni forestali, acquisirebbero dei “crediti” ambientali spendibili sul mercato internazionale.
Non tutti però sono così entusiasti: alcuni temono che, trasformando le risorse naturali in una mac-china per fare soldi, le multinazionali potrebbero sostituirsi agli abitanti di quei villaggi, magari piantando grandi appezzamenti di monocolture geneticamente modificate a crescita ultrarapida, per massimizzare la rendita e così si finirebbe per derubare ancora una volta i più poveri e l’ambiente.
Per evitare questi rischi molti chiedono anche un bastone insieme alla carota cioè la stipula di un accordo sulla responsabilità di impresa che esiga dalle aziende l’adesione a precisi impegni ambien-tali e sociali (F. Pearce, 2002).


“Carote” per alcuni, “bastoni” per tutti...

Purtroppo ultimamente le “carote” sembrano scarseggiare e quindi si tende a riservarle ai propri e-lettori... .
A Johannesburg, al di là dei cinque “temi chiave” all’ordine del giorno (acqua, biodiversità, energia, agricoltura, salute), i veri temi caldi di negoziato (o conflitto) politico, formale o dietro le quinte, sono stati il commercio mondiale, i sussidi agricoli, gli investimenti privati e gli aiuti internazionali allo sviluppo.
Ricorderete il recente viaggio in Africa, largamente propagandato, della strana coppia Bono (leader del complesso musicale U2) - Paul O’Neill (Ministro del Tesoro statunitense). Quest’ultimo, dopo aver visto da vicino le condizioni in cui versa il Continente Nero, così dichiarava: «L’unica speran-za di pace e prosperità per il continente è l’abbattimento delle barriere commerciali» (T.C. Fi-shman, 2002). A ciò ha fatto seguito la recente approvazione da parte dell’amministrazione Bush di nuovi sussidi per i coltivatori di cotone statunitensi, una misura che contribuisce a diminuire i prezzi mondiali della materia prima, colpendo le economie dei paesi africani che dipendono dalla coltiva-zione ed esportazione del cotone.
Ma così facendo lo scarto fra le intenzioni dichiarate e i comportamenti reali, fra l’enormità dei problemi cui si promette una soluzione e l’esiguità degli sforzi poi messi in campo, può soltanto ag-gravare la rabbia dei contestatori.
In un recente incontro dal titolo “Dopo il Vertice mondiale sullo sviluppo sostenibile di Johanne-sburg: quali impegni e quale ruolo della società civile mondiale nel contesto delle Conferenze In-ternazionali delle Nazioni Unite” Gianfranco Bologna del WWF Italia sottolineava l’esiguità degli investimenti internazionali a favore dell’ambiente (325 milioni di dollari) annunciati a Johanne-sburg se confrontati con i calcoli dello scienziato Norman Myers secondo cui i governi finanziano azioni contrarie all’ambiente per 2000 miliardi di dollari all’anno!
Questo sentimento di impotenza e di ingiustizia non può certamente giustificare l’uso dei “bastoni” ma giustifica quantomeno la domanda: a che servono incontri internazionali che si pongono obietti-vi irrealistici, ai quali per giunta si dà poco spazio effettivo alle istanze della società civile e dove gli unici che hanno i mezzi per fare qualcosa si presentano senza un progetto comune e con nessuna intenzione di tirar fuori i soldi necessari?
Il Segretario Generale dell’ONU in occasione del Civil Society Forum di Johannesburg ha afferma-to che «la società civile occupa uno spazio unico nel quale nascono idee, all’interno del quale si modificano gli schemi mentali e dove non ci si limita a parlare di conservazione e sviluppo ma si opera attivamente per raggiungerli». Ha inoltre ricordato ai gruppi appartenenti alla società civile quanto egli faccia affidamento su di loro: «Voi avete la capacità di mantenerci sempre vigili - ha detto - di fare pressione e di dire e fare cose che noi non osiamo».
Un altro bell’esempio di “carota”? Forse...
Il dibattito sull’utilità di questi megavertici delle Nazioni Unite è all’ordine del giorno soprattutto nelle agende delle Organizzazioni non governative (Ong) che percepiscono ormai con chiarezza come le grandi decisioni sui temi mondiali siano sempre più prese in altri consessi (G8, Organizza-zione Mondiale del Commercio; Fondo Monetario Internazionale, Banca Mondiale) rappresentativi esclusivamente degli interessi del grande capitale.
Ma al tempo stesso, di fronte a questi processi involutivi dei valori della politica e della democrazia internazionale, si assiste al crescere di una nuova tendenza: la mobilitazione dei cittadini (Lembo, 2002).


Una umanità capace di futuro

Forse non si dovranno aspettare altri 10 anni per verificare quanto di buono saranno in grado di rea-lizzare coloro che hanno preso impegni per il nostro futuro comune.
Certamente le scelte dei “grandi” possono influire e condizionare le scelte di tutti: sarebbe ingenuo non pensarlo. Eppure se una coscienza diversa inizierà a farsi strada, se uno sguardo più saggio e coraggioso caratterizzerà il nostro rapporto con il pianeta, noi inizieremo a vivere meglio e a veder vivere meglio chi sta intorno a noi.
«I nostri rapporti con il mondo dipendono in maniera cruciale dalla nostra visione di noi stessi»: questa frase del Premio Nobel Amartya Sen coglie bene la sfida che ognuno di noi dovrà intrapren-dere in primis con se stesso.
La nostra presa di coscienza individuale è il primo presupposto per la nascita di una coscienza pla-netaria, attenta alla salvaguardia dei diritti fondamentali dell’uomo e dell’ambiente.
Tutto ciò passa attraverso la comprensione del valore della vita di ogni individuo, delle immense potenzialità che ognuno può esprimere, della forza che scaturisce da una chiarezza degli obiettivi di vita da realizzare, della potenza della consapevolezza per la realizzazione di un fine comune ad altri individui. 

 

Se noi inserissimo gli interessi dell’uomo in un diagramma spazio-tempo (vedi figura) dovremmo ammettere che solo pochi hanno una prospettiva realmente globale, estesa ai vari e complessi pro-blemi dell’intero mondo in un futuro non troppo vicino (G. Bologna, P. Lombardi, 1986).
Eppure l’accelerazione impressa dallo sviluppo scientifico-tecnologico, soprattutto nel campo dell’informazione, fa sì che siano sempre più numerosi coloro che possono accedere a tale consape-volezza.
La storia ha dimostrato più di una volta che un singolo individuo o un piccolo gruppo possono apri-re gli occhi alla gente sull’importanza di una questione e mettere in moto grandi cambiamenti nel percorso di una società.

 

 

VERTICE MONDIALE SULLO SVILUPPO SOSTENIBILE

Principali contenuti del Piano di attuazione approvato dal vertice di Johannesburg

Il Piano di attuazione adottato nella notte del 3 settembre è composto da 10 capitoli e da 148 para-grafi. Sono indicati di seguito i principali contenuti del Piano.

 

PRINCIPI


Conferma del principio 15 della Dichiarazione di Rio Approccio precauzionale.
Conferma del principio 7 della Dichiarazione di Rio Responsabilità comuni ma differenziate tra Pa-esi industrializzati e Pesi in via di sviluppo.

 

OBIETTIVI E SCADENZE

Diritti umani - Promozione e rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali, che assumono il ruolo di criterio essenziale nelle strategie per la riduzione della povertà, la protezione della salute, la conservazione e gestione delle risorse naturali.
Promozione dell’accesso delle donne, sulla base di un principio di uguaglianza, a tutti i processi de-cisionali, ed eliminazione delle forme di discriminazione e violenza contro le donne.
Impegno ad adottare misure immediate ed efficaci per eliminare lo sfruttamento del lavoro minorile, ed adottare strategie per l’eliminazione di tutte le forme di lavoro minorile contrarie agli standards internazionali.
Riconoscimento degli standard e dei principi stabiliti dalla Organizzazione Internazionale del Lavo-ro (ILO) per la protezione dei diritti dei lavoratori.
Lotta alla povertà - Conferma dell’obiettivo della “Dichiarazione del Millennio” di dimezzare entro il 2015 il numero di persone con un reddito inferiore ad 1 US $.
Protezione della salute - Promozione e rafforzamento dei programmi e delle misure per assicurare la diffusione e l’accesso ai servizi di assistenza sanitaria di base.
Riduzione di due terzi, entro il 2015 rispetto ai dati del 2000, la mortalità infantile al disotto di 5 anni.
Ridurre di tre quarti, entro il 2015 rispetto ai dati del 2000, la mortalità da parto.
Ridurre del 25% entro il 2005 nei paesi maggiormente colpiti ed entro il 2010 globalmente, il nu-mero dei malati di AIDS di età compresa tra i 15 e i 24 anni.
Eliminazione del piombo dalle benzine, dalle vernici e da tutte le possibili sorgenti di contamina-zione, per prevenire le malattie connesse all’inquinamento da piombo.
Acqua potabile - Dimezzare entro il 2015 il numero di persone che non hanno accesso all’acqua po-tabile e purificata.
Adottare entro il 2005 i piani per la gestione integrata ed efficiente delle risorse idriche;
Sostanze chimiche - Impegno per l’entrata in vigore, entro il 2004, della Convenzione delle Nazioni Unite per l’eliminazione delle sostanze organiche persistenti (POPs) e in particolare per l’eliminazione dei pesticidi.
Perseguire l’obiettivo di eliminare le produzioni e gli usi delle altre sostanze chimiche pericolose per l’ambiente e per la salute entro il 2020 (minimizzare gli impatti).
Biodiversità - riduzione significativa della perdita di biodiversità entro il 2010.
Protezione degli oceani e pesca - Promozione della applicazione dell’”approccio ecosistemico” per la protezione della biodiversità marina.
Adottare le strategie e le misure necessarie per la generalizzare le pratiche della pesca sostenibile entro il 2012.
Avviare dal 2004 una regolare attività di monitoraggio e valutazione dello stato dell’ambiente mari-no.
Energia - Aumento significativo della quota di produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili e promozione delle tecnologie a basso impatto ambientale.
Progressiva eliminazione dei sussidi ai combustibili fossili che hanno effetti negativi sull’ambiente.
Monitoraggio e coordinamento delle iniziative per la promozione delle fonti rinnovabili.
Impegno volontario dei paesi dell’Unione Europea, e di altri paesi, per aumentare la quota di ener-gia rinnovabile nella produzione mondiale di energia.
Cambiamenti Climantici - Conferma degli obiettivi della Convenzione Quadro sui Cambiamenti Climatici, e in particolare della stabilizzazione, a livelli non pericolosi per l’equilibrio del clima, della concentrazione in atmosfera di anidride carbonica e degli altri gas-serra.
Appello ai paesi che non hanno ancora ratificato il Protocollo di Kyoto, per la ratifica in tempi bre-vi.

 

MODELLI SOSTENIBILI DI PRODUZIONE E CONSUMO

Promuovere lo sviluppo di programmi quadro decennali per la realizzazione di iniziative finalizzate alla modificazione dei modelli di consumo e di produzione non sostenibili.
Individuare politiche, misure e meccanismi finanziari per sostenere i modelli di consumo e produ-zione sostenibili.
Promuovere e diffondere procedure di valutazione di impatto ambientale e di “ciclo di vita” dei prodotti, anche al fine di incentivare quelli più favorevoli per l’ambiente.

 

FINANZIAMENTI


Istituzione di un fondo mondiale per la solidarietà a carattere volontario.
Conferma degli obiettivi sull’Aiuto pubblico allo sviluppo (ODA) concordati a Monterrey.
Riduzione del debito dei paesi in via di sviluppo attraverso la cancellazione o alleggerimento (debt relief e debt cancellation) e rafforzamento dell’iniziativa a favore dei paesi poveri fortemente inde-bitati (heavily indebtted poor countries - HIPC).
Utilizzo dei “debt swaps” per riconvertire il debito in attività a sostegno dello sviluppo sostenibile.
Conferma dell’impegno per il rifinanziamento della Global Environmental Facility, e impegno vo-lontario integrativo dell’Unione Europea per un ulteriore finanziamento di 80 milioni di Euro.

 

COMMERCIO

Avvio della riforma del sistema dei sussidi al commercio internazionale, che hanno effetti negativi sull’ambiente, ovvero riduzione delle facilitazioni commerciali per i prodotti che non favoriscono lo sviluppo sostenibile.
Coordinamento tra Organizzazione Mondiale del Commercio e Accordi Ambientali Multilaterali per favorire la promozione nei mercati internazionali dei processi e dei prodotti “sostenibili”.

 

GOVERNANCE

Assicurare la promozione della trasparenza e dell’efficienza delle forme di governo e della gestione delle risorse, anche attraverso la realizzazione di infrastrutture per l’accesso alla informazione (E-government)
Adozione delle strategie nazionali per l’attuazione dell’Agenda 21, entro il 2005.

 

PARTNERSHIPS

(progetti in cooperazione tra paesi sviluppati e paesi in via di sviluppo, con la partecipazione di im-prese private, istituti finanziari, associazioni non governative, agenzie delle Nazioni Unite)
Avvio dei progetti inseriti nella lista accettata dalle Nazioni Unite, e monitoraggio sulla loro attua-zione.
I 562 progetti ammessi fanno riferimento a 12 aree di intervento:
Riduzione della povertà;
Promozione di modelli sostenibili di produzione e consumo;
Conservazione e gestione delle risorse naturali e della biodiversità;
Promozione delle energie rinnovabili e dell’efficienza energetica;
Purificazione delle acque e gestione intergrata del ciclo idrico;
Protezione ed estensione delle foreste;
Governance in un sistema globalizzato;
Promozione della salute;
Sviluppo sostenibile nelle piccole isole;
Sviluppo sostenibile nell’Africa;
Trasferimento ai paesi in via di sviluppo di competenze e tecnologie innovative per consolidare le capacità di gestione e governo delle risorse;
Supporto alla realizzazione di modelli di commercio compatibili con le Convenzioni e i Protocolli internazionali.
Le risorse finanziarie messe a disposizione per l’avvio dei progetti ammontano a circa 1500 milioni di Euro. I progetti sono predisposti in modo tale da rappresentare un volano per un “ciclo” di inve-stimenti aggiuntivi.

Corrado Clini
Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio
Direzione per la protezione internazionale dell’ambiente

 

Bibliografia

AA.VV. (1972): I limiti dello sviluppo. Mondadori
G. Bologna, P. Lombardi (1986): Uomo e ambiente. Gremese Editore
P. Angela (2000): Premi & punizioni. Mondadori
F. Pearce (2002): La Terra da salvare. Internazionale, n. 451
T.C. Fishman (2002): Harper’s Magazine, agosto 2002
J. Goodall (2002): The Power of One. Time Special Report “How to save the Earth”. September 2, 2002
S. Cohen (2002): Stati di negazione. Carocci.
U. Galimberti (2002): Non mi piace e non lo vedo. In “La Repubblica”, 5 settembre 2002
R. Lembo (2002): Le fatiche della politica. Solidarietà Internazionale, n. 3 maggio-giugno 2002

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Treviso. «Sono sull’argine del Piave, laggiù in mezzo all’acqua c’è una casa e gli abitanti stanno caricando qualcosa su un gommone. Devo avvertirli: stanotte il fiume salirà ancora di un metro», dice Antonio Rusconi, Segretario generale dell’Autorità di bacino dei fiumi veneti.
Cronaca drammatica di un disastro ambientale non certo casuale, a cui ha contribuito anche l’incuria umana: «Non si curano i boschi, che diluiscono nel tempo la pioggia. Per costruire case e aree produttive in quei terreni comodi per noi, abbiamo costretto il fiume nel cemento... ma il cemento non difende. Il cemento concentra e accelera...».
Quale la soluzione? «Interventi strutturali, come le opere di ingegneria idraulica - prosegue il dott. Rusconi - ma soprattutto dobbiamo cambiare il comportamento, l’urbanistica, i piani regolatori... Da 12 anni abbiamo una legge sulla difesa del suolo, bella e importante, poco applicata. Sono stati fatti alcuni interventi, qualche piano di bacino. È stato stanziato appena il 20% del fabbisogno finanziario.»

La cronaca dei disastri naturali di queste ultime settimane (il terremoto in Molise, l’eruzione dell’Etna, le alluvioni sull’Italia settentrionale) riempie i giornali, attraverso i servizi televisivi porta nelle nostre case il dolore e la disperazione degli sfollati “per cause ambientali”.
Ma, come detto, alla forza della natura si aggiunge spesso l’imprudenza umana e il nostro Paese, da tanto tempo ormai, ha avuto testimonianze terribili di tutto ciò.
Dopo ogni disastro ambientale, quasi puntualmente, si è corsi ai ripari con indagini giudiziarie e parlamentari, con interventi finanziari a pioggia e con provvedimenti legislativi volti talvolta solo ad affrontare l’emergenza (sic!).
Il nostro paese brilla per background culturale e legislativo nella redazione di leggi e piani assai nobili ed ispirati, ma non altrettanto può dirsi per la loro effettiva realizzazione.

 

1993 - 2002: dieci anni di sviluppo sostenibile?

Abbiamo già in passato dovuto occuparci del “Piano nazionale per lo sviluppo sostenibile” del 1993, forse il documento più bello e completo ma anche quello che, perfino sul piano della divulgazione, non ha lasciato traccia di sé.
Per raggiungere lo sviluppo sostenibile il documento di allora sottolineava con vigore le seguenti necessità:
• l’integrazione delle considerazioni ambientali in tutte le strutture dei governi centrali e in tutti i livelli di governo per assicurare coerenza tra le politiche settoriali;
• un sistema di pianificazione, di controllo e di gestione per sostenere tale integrazione;
• l’incoraggiamento della partecipazione pubblica e dei soggetti coinvolti, che richiede una piena possibilità di accesso alle informazioni.
Si trattava, allora, come si può capire, di tre capisaldi di difficilissima realizzazione perché, al di là delle difficoltà di ordine politico, legislativo e amministrativo, presupponevano una mentalità individuale e cooperativa ancora lontana anni luce da tali obiettivi.
Purtroppo anche oggi il nostro Paese non brilla affatto per concordia di intenti, per azioni concertate, per univocità di propositi.

 

Mancanza di sensibilità ambientale?

Eppure il nostro paese è stato duramente toccato da alluvioni, terremoti, frane, siccità, incrementi di temperature. La recente “Comunicazione nazionale sui cambiamenti climatici” - documento che l’Italia, come gli altri Paesi che aderiscono alla Convenzione sui cambiamenti climatici dell’ONU, si è impegnata a presentare ogni tre anni - testimonia scientificamente quanto tutti noi abbiamo empiricamente avuto sotto gli occhi.
Aumenta la temperatura e, con essa, i fenomeni estremi come alluvioni, burrasche, trombe d’aria e siccità: l’intensità e la concentrazione delle piogge aumenta nelle regioni settentrionali, mentre il sud galoppa verso l’aridificazione, le risorse idriche sono in calo. I nostri mari sono sempre più salati a causa dell’aumento dell’evaporazione. Mentre per la Terra l’aumento delle temperature medie globali è stato di circa 0,6 gradi in quest’ultimo secolo, in Italia (secondo i dati dell’ENEA, che ha curato il Rapporto) tale aumento è salito a 0,8 gradi, un incremento modesto ma sufficiente a caricare di maggiore energia l’atmosfera e ad esasperarne il dinamismo.
La responsabilità del degrado comunque non è solo del cambiamento climatico generale, ma anche dell’uomo e della cattiva gestione del suolo, dei corsi d’acqua, degli invasi e delle falde sotterranee, precisa il documento scientifico.

 

Se la vostra casa fosse a rischio, voi cosa fareste?

Di fronte a questi dati, di fronte a questi fatti, quale che sia il vostro orientamento politico, che tipo di reazione avreste?
Come testimoniano tanti sondaggi e statistiche, il degrado dell’ambiente è una delle prime preoccupazioni di un numero sempre crescente di uomini e donne. Eppure il paradosso della crisi ambientale è che non si riesce a trasformare questa consapevolezza in azioni propositive, in politiche sensate e risolutorie.
Le pagine di quotidiani e settimanali solo marginalmente affrontano questi problemi: spazi ben maggiori sono riservati al pettegolezzo politico-economico, al gossip mondano, ai grandi problemi del calcio miliardario, che, si sa, fa più “cassetta”...
Il “potere” non è nemmeno sfiorato dall’idea di coinvolgersi in queste vicende a meno che non ci sia una commistione fra interessi pubblici e affari privati...
Arre protette o demaniali, centri storici, boschi, coste, fiumi, malgrado dieci anni di politiche di salvaguardia, sono sempre sotto l’insidia di speculazioni ed inquinamenti: basta una leggina, una sanatoria, un provvedimento amministrativo, un condono per far saltare i buoni propositi di leggi-quadro, di concertazione, di sviluppo sostenibile...
La tutela dell’ambiente, del paesaggio, della nostra salute non può essere “di parte” e come tale gestita solo con la forza dei voti da parte di una maggioranza su una minoranza: si tratta di risorse irriproducibili e quindi una volta deteriorate o distrutte, non si potranno ricostituire. 

 

Una speranza per i prossimi dieci anni

Forse dovremo aspettare altri 10 anni di disastri “ambientali”, un’altra Conferenza dell’ONU sullo sviluppo sostenibile, un altro Piano nazionale d’azione…
Tutto dipenderà dal nostro grado di coinvolgimento nella gestione della nostra “casa” e dalla pressione che sapremo esercitare sul potere politico, economico, culturale affinché l’impegno prenda il posto dell’inerzia e si possa porre rimedio agli insostenibili modelli produttivi, distributivi e di consumo che stanno portando il nostro pianeta verso un futuro che non potrà più garantire risorse sufficienti per soddisfare i bisogni dell’umanità.
Fondamentale resta, tanto quanto il richiamo che costantemente lanciamo ai nostri governanti, l’assumere atteggiamenti e stili di vita coerenti e responsabili. Appare sempre più evidente, infatti, che al centro della contraddizione, ma anche della soluzione, vi siano gli individui stessi, ogni essere umano con i suoi comportamenti, le sue abitudini, le sue attività, la sua filosofia di vita.
Si potrebbe obiettare che le scelte unilaterali ben poco possono di fronte a grandi fenomeni come la globalizzazione, la corsa sfrenata dei mercati o l’ingiustizia strutturale causa dell’aumento continuo della miseria nel mondo. Si potrebbero indicare i governi e le grandi istituzioni internazionali come i veri responsabili di politiche di cambiamento.
La sfida riguarda probabilmente l’uno e l’altro: scelte di comportamento ecologicamente responsabili da una parte (senza aspettarsi che qualcun altro ci pensi) e fare pressione sulle leve del potere politico, sempre più ostaggio di interessi economici di corto respiro, affinché lo sviluppo si traduca in un’evoluzione cosciente del genere umano.
In un recente discorso sullo stato dell’infanzia nel mondo il Segretario generale delle Nazioni Unite Kofi Annan ribadiva gli impegni presi nella Dichiarazione del Millennio, una lista di obiettivi da realizzare entro il 2015 sui quali tutti i leader del mondo si sono accordati.
In questa dichiarazione si ricordavano i traguardi significativi che singoli Paesi o l’umanità tutta è stata capace di raggiungere in 15 anni: dalla conquista dello spazio alla debellazione del vaiolo, dalla fine dell’apartheid alla firma del trattato che mette al bando le mine antiuomo.
«Che cosa hanno in comune questi successi che vi ho ricordato? Hanno in comune il fatto di essere stati raggiunti perché i popoli si sono impegnati ad usare i loro cervelli e i loro cuori per cooperare e per raggiungere gli obiettivi che si erano prefissi.»
Se i popoli sono riusciti a raggiungere questi obiettivi nell’arco di 10 o 15 anni, il tempo d’un infanzia, la speranza di un mondo migliore continuerà ad illuminare il nostro lavoro perché i bambini di oggi possano scoprire la bellezza di una vita degna di essere vissuta.


Bibliografia

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