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Ambiente

TURISMO E CATASTROFI


Abbiamo speso 900 miliardi di dollari in spese militari,
300 miliardi in sostegni all’agricoltura,
50 miliardi in aiuti allo sviluppo.
Forse dovremmo provare a fare il contrario.

James Wolfensohn
Presidente della Banca Mondiale

Emerge, anche alla luce del pallido sole che illumina ciò che resta di una paradiso turistico, un contrasto inaccettabile: tra la formidabile macchina organizzativa che i paesi ricchi sanno mettere in campo quando decidono di fare la guerra, e la povertà di mezzi con cui affrontiamo una calamità globale che ha superato i 150.000 morti e oltre 500.000 feriti, inclusi molti occidentali.
Lo tsunami ha colpito molti Paesi che aderiscono all’ASEAN (Associazione delle Nazioni dell’Asia Sudorientale che oggi riunisce Brunei, Cambogia, Filippine, Indonesia, Laos, Malaysia, Myanmar, Thailandia, Singapore e Vietnam), un’alleanza nata nel 1967 e che, dal 1992, ha l’ambizione di prefigurare qualcosa di simile al processo di integrazione europeo. Finalizzata alla cooperazione politica, economica e sociale (la protezione dell’ambiente non è inclusa tra le finalità) la regione ha ottenuto ottime performance sul piano dell’innalzamento del Prodotto Interno Lordo dell’area ma, solo agli inizi degli anni ‘90 - sotto gli effetti congiunti del crollo della pesca, di una deforestazione che procedeva al ritmo di un milione e mezzo di acri all’anno, di un deperimento pauroso della qualità delle acque e di un altissimo pericolo di contaminazione da rifiuti tossici e nocivi - si è giunti alla firma di un “Accordo sulla conservazione della natura e delle sue risorse” (sulla carta antesignano della Dichiarazione di Rio e di parte del programma dell’Agenda 21 del 1992) che però è stato finora ratificato solo da tre paesi e che per divenire esecutivo deve esserlo da tutti i paesi dell’ASEAN.
Nel 1992 il Presidente delle Maldive Maumoon Abdul Gayoom era intervenuto alla Conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente di Rio de Janeiro ammonendo i suoi colleghi, capi di stato e di governo di tutto il mondo: «Un innalzamento di venti centimetri del mare in trent’anni forse a voi non potrà sembrare molto, ma per noi significa sparire dalla faccia della Terra se ciò dovesse succedere entro il 2030: perché l’80% delle Maldive è fatto di territorio alto meno di 2 metri sul livello del mare».
Ora siamo qui, leader politici e semplici cittadini, a guardare in televisione gli effetti devastanti di una marea imprevista e forse prevedibile che ha travolto tragicamente l’esistenza delle milioni di persone direttamente coinvolte e, indirettamente, la sensibilità di qualunque cittadino del mondo che ha potuto assistervi mediaticamente.
Da quest’ultimo punto di vista il cataclisma ha avuto dalla sua il fatto di svolgersi in un’area geografica densamente visitata da turisti occidentali, il che ne ha fatto oggetto di una immediata e ridondante cassa di risonanza a livello mondiale. Vip e normali vacanzieri di Natale e Capodanno al sole dei tropici si sono ritrovati uniti su una scialuppa di salvataggio, sballottati da un mare che ha travolto barriere coralline e di censo, che li ha messi al livello dei poveri abitanti di quei luoghi che per noi sono “di vacanza”, “di evasione”, ma per chi ci vive sono “di lavoro”, “di sfruttamento”.

 

Beata vacanza, beata ignoranza…


Il turismo è considerato per definizione un’attività leggera e disimpegnata: in realtà esso provoca ogni anno 6 miliardi di spostamenti, occupa 127 milioni di persone (1 persona su 15 nel mondo lavora nel settore) e produce il 6% del Prodotto Interno Lordo del pianeta. Queste cifre, destinate peraltro a crescere, spiegano l’impatto che questa industria ha e potrebbe avere sempre di più in futuro sull’ambiente e sulle sue risorse naturali, già pesantemente minacciate da altri tipi di industria. Per fare un esempio, le Maldive (le honey moon’s islands perché ci andavano a finire tutte o quasi le coppie europee dopo il fatidico “sì”) sono per noi turisti inconsapevoli solo sinonimo di “paradiso” ma non tutto è così celestiale, né dal punto di vista ambientale né da quello sociale: ma andiamo con ordine.
È dalla fine del 1997 che le barriere coralline di gran parte dell’Oceano Indiano cominciano a mostrare i segni del loro degrado: le madrepore, formate da miliardi di esseri viventi (minuscoli polipi in simbiosi con alghe microscopiche) che costruiscono il reef - caratterizzato dai più sgargianti colori (rosa, blu, viola, verdi, gialli, marroni) - a seguito del riscaldamento dell’oceano, legato ai mutamenti climatici e all’effetto serra, o anche dell’inquinamento delle acque, muoiono e diventano… bianche. Nel giro di soli tre anni il fenomeno si amplia in maniera sempre più preoccupante anche in isole lontane da Malè, a nord e a sud dell’arcipelago, a Minadunmadulu, a Kolumadulu. È scandaloso che nessuno ne parli. Ma ormai non sono solo le Maldive in questo stato: le madrepore stanno morendo anche alle Seychelles, a Mauritius, negli atolli di Karavatti e Cannanore delle Laccadive, persino nelle semisconosciute Andatane e nelle Nicobare, negli atolli più sperduti di fronte alla penisola arabica e alle coste del Madagascar.

Ma sui depliant turistici le immagini che appaiono sono sempre quelle coloratissime di una volta: chi se ne intende ormai lo sa e cerca un altro paradiso intatto altrove (finché se ne troveranno…) e, chi non ci capisce niente di mare, ammirerà… la morte del corallo e di un fragilissimo ecosistema (non solo metaforicamente) su cui poggia l’immenso “edificio” di un turismo di massa costruito disinvoltamente dall’uomo.
Sul piano sociale l’arcipelago delle Maldive è una repubblica di 300 mila cittadini (oltre 852 per km2 - una densità maggiore perfino di quella del Bangladesh - a cui si sommano quasi 600.000 turisti stranieri, tra cui 140 mila italiani ogni anno!) dove non tutto fila liscio: nei mesi scorsi ci sono stati scontri tra potere e opposizione, con tanto di feriti e perfino morti. Gli avversari del Presidente Gayoom (al potere dal 1978, una longevità politica che supera quella di tutti gli altri capi di stato asiatici in carica) hanno dovuto fondare un loro partito all’estero, nello Sri Lanka, perché nelle Maldive i partiti sono vietati.
Seppure il turismo abbia permesso all’economia locale di decuplicare il reddito pro capite negli ultimi 25 anni (il 60% delle risorse valutarie viene da questo settore, il resto dalla pesca del tonno), i due terzi della popolazione, in maggioranza giovani sotto i 25 anni, guadagna in un mese meno del costo di una camera per notte, lavorando in condizioni di lavoro non certo “paradisiache”: uno sfruttamento che ha provocato ribellioni sempre più frequenti.
Ma per il turista (e per il tour operator, soprattutto, business as usual) è meglio non sapere niente di tutto questo. I contatti con la popolazione locale sono quasi del tutto inesistenti: non si è verificata alcuna “contaminazione” culturale tra la popolazione locale e i turisti, a differenza di quanto accaduto in altre aree vicine (Goa, Bali o Thailandia, nel bene e nel male, si pensi allo sciagurato “turismo sessuale”…).
Dev’essere una beata vacanza nella più beata ignoranza… È quanto stanno già sperimentando gli ignavi (non ignari) vacanzieri che, ad una settimana appena dal cataclisma, sono lì, a pochi passi dalla disperazione e dalla devastazione, a sorseggiare un drink, a godersi una sacrosanta vacanza, costi quel che costi…
Non che prima le cose andassero meglio: solo persone con il prosciutto sugli occhi e/o con il pelo sullo stomaco potevano trascorrere le ferie in paradisi “fuori dal mondo” infernale che è lì, a due passi dal resort, dietro il muro del villaggio turistico, nella bidonville a breve distanza dall’albergo cinque stelle… E dire che di posti non proprio tranquilli al mondo ce ne sono: basta informarsi presso il sito internet del nostro Ministero degli Esteri. Ma sembra che per godersi la vacanza in certi paesi dell’Africa, dell’Asia, dell’America Latina non devi vedere, non devi parlare, in una parola: non devi pensare.

 

 

Chi piange, chi ride…


A una prima valutazione molto sommaria l’impatto del maremoto sulle economie delle nazioni più colpite dalla calamità appare limitato. Per due motivi: o perché si tratta di aree già molto depresse, dove l’onda anomala aveva poco da portarsi via, se non la vita della povera gente; oppure perché, per quanto devastante ed invasivo (ad Aceh, la regione indonesiana più vicina all’epicentro, l’acqua è penetrata per quasi 6 km nell’entroterra), lo tsunami ha prodotto la maggior parte del suo effetto distruttivo in prossimità delle coste dove solitamente la presenza degli insediamenti industriali è scarsa.
È stato invece un colpo molto duro per l’industria turistica dei paesi sconvolti dall’onda anomala, ma anche per quella dei paesi ricchi dell’Occidente. Qui il settore del turismo organizzato avrà un ulteriore tracollo: l’associazione dei tour operator stima che il settore possa perdere fra i 70 e gli 80 milioni di euro nel solo mese di gennaio sulle rotte asiatiche, con una flessione della domanda stimabile nel 30%.
Le assicurazioni invece tirano un sospiro di sollievo: la catastrofe del Golfo del Bengala è un disastro di serie B nelle ciniche graduatorie dei broker mondiali. I costi a carico delle grandi compagnie assicurative, secondo le prime stime molto provvisorie degli analisti, oscilleranno tra 1 e 5 miliardi di dollari, “pochi” spiccioli rispetto ai 20 miliardi di danni ai bilanci del settore causati dai 4 uragani caraibici abbattutisi sulla Florida nello scorso autunno.
Le ragioni di un conto così sproporzionato rispetto alle dimensioni della tragedia sono due.
La prima è che ben poca gente nell’area interessata dal maremoto era assicurata: la spesa media annua pro-capite per le polizze in Indonesia, il più avanzato dei paesi travolti dallo tsunami, è di 14,5 dollari contro i 3638 degli USA. La seconda è che il costo del lavoro nell’area è molto basso e così anche le spese per la ricostruzione saranno relativamente ridotte.
Peraltro il 2004 è stato per le grandi compagnie di assicurazioni un anno “nero”: i danni economici provocati da “disastri per cause naturali” hanno superato per la prima volta la barriera dei 100 miliardi di dollari, di cui 42 sono o diverranno richieste di risarcimento. I dolori peggiori però le compagnie non li hanno avuti da eventi catastrofici avvenuti in paesi in via di sviluppo (che pure da soli hanno sofferto quasi la metà dei 21 mila morti in queste tragedie, esclusa quella del Golfo del Bengala), ma dagli uragani abbattutisi in passato sugli USA e sul Giappone, dove, si sa, il costo e… il “valore” della vita è di serie A!
Adesso che la bolletta di quei disastri ha sfondato l’argine dei 100 miliardi di dollari di perdite economiche, qualche associazione ambientalista spera che questo indurrà i vertici economici e politici mondiali a “inventarsi” qualche cosa per prevenire o ridurre gli effetti dei cataclismi “naturali” in cui talvolta c’è anche lo zampino dell’uomo (come nel caso dei cambiamenti climatici).

 

La parola alla… Scienza


Gli scienziati sono molto cauti nel mettere in relazione l’intensificarsi dei disastri naturali con l’effetto serra o altre alterazioni dell’ecosistema causate dall’uomo. È però significativo che i dati forniti da Swiss Re, la più grande società di ri-assicurazione mondiale, mettono bene in risalto una coincidenza perlomeno sospetta: dal 1990 il tasso di catastrofi naturali ha subito un’impennata, lo stesso anno in cui il fenomeno del riscaldamento del clima è diventato più significativo.
Il Centro di ricerca sull’epidemiologia dei disastri dell’Università di Lovanio (che collabora con l’Organizzazione Mondiale della Sanità) ha contabilizzato in 570 i disastri naturali verificatisi negli ultimi 30 anni: 75 disastri nel 1975, 150 nel 1982, 225 nel 1994, 546 nel 2000. L’ONU afferma poi che il numero dei morti per effetto dei disastri naturali negli anni ‘90 è raddoppiato rispetto agli anni ‘70.
Da questi dati emerge un’altra tragedia… nella tragedia: i maggiori danni provocati da catastrofi naturali (alluvioni, cicloni, eruzioni vulcaniche, tempeste, terremoti) gravano sistematicamente sui Paesi poveri. Non si tratta di accanimento della natura matrigna contro i meno abbienti: il problema sta nel fatto che il moderno sviluppo delle scienze naturali e dell’elettronica-informatica che consente la trasmissione istantanea delle informazioni, permette ai paesi avanzati di evitare o limitare catastrofi: per esempio anche con la costruzione di case antisismiche, realizzate su vasta scala in Giappone per limitare o addirittura eliminare i danni dei terremoti.
Anche il modo in cui si protegge il territorio è importante: l’uragano Jeanne fece 3000 morti ad Haiti e solo 20 nell’altra parte della stessa isola, nella Repubblica Domenicana. È vero che quest’ultima ha avuto un maggiore sviluppo economico rispetto ad Haiti, ma c’è anche un’altra spiegazione: Haiti ha distrutto i suoi boschi, che hanno un ruolo fondamentale nel proteggere il suolo dal dilavamento causato dalle piogge e nel limitare i danni degli uragani, mentre la Repubblica Domenicana li ha protetti.
Ma avere risorse non è sempre sufficiente: bisogna saperle usare. Purtroppo a questa categoria appartiene anche l’Italia: siamo l’unico Paese industrializzato compreso nell’elenco di quelli che hanno subito le peggiori catastrofi naturali per numero di morti a partire dal 1970. Il triste primato dipende dal terremoto che il 23 novembre 1980 causò ben 3100 vittime in Campania e Basilicata. La scossa era inevitabile, ma le costruzioni inadatte a resistervi pesano sulla coscienza non solo dei cittadini ma soprattutto dei Governi nazionali e locali che non promossero la costruzione di edifici asismici e, anzi, con i condoni incoraggiano edificazioni raffazzonate e in località a rischio.

Per altro vi è da dire che le catastrofi naturali, terremoti e maremoti, sono sempre accadute a intervalli più o meno regolari, ma le conseguenze sono adesso spesso più gravi perché avvengono in zone ad alta densità di popolazione e, in termini di vite umane, il bilancio finisce per essere peggiore.
Secondo alcuni scienziati, malgrado il fatto che la possibilità di prevenire i terremoti è al momento quasi inesistente, anche questo sisma avrebbe potuto provocare meno morti se fosse stato affrontato meglio, perché ci sono volute 2-3 ore per raggiungere alcuni dei posti colpiti. L’entità di questa tragedia poteva essere drasticamente ridotta anche della metà con un adeguato sistema di preallerta, costituito da tecnologie avanzate, un’efficace organizzazione di protezione civile ed una capillare educazione della popolazione nelle zone a rischio.
Il termine “globalizzazione” ci induce a pensare che tutto il mondo è connesso, che l’informazione possa viaggiare in tempo reale tra i punti più distanti del pianeta, ma non è affatto così, e ce ne accorgiamo dolorosamente in questi casi. Adesso, di colpo, ci rendiamo conto che non solo i due terzi dell’umanità non ha mai effettuato una telefonata, ma un terzo non sa neppure cosa sia un interruttore della luce, perché non è collegata alla rete elettrica.
Uno degli ostacoli più evidenti nell’opera di soccorso è la mancanza di infrastrutture che rallentano la nostra buona volontà di soccorrere le popolazioni colpite: solo oggi scopriamo che anche prima dello tsunami in molte di queste regioni (quelle poco battute dai turisti) mancavano reti di trasporto, acqua, energia, fogne, sanità, comunicazione. I media criticano i governi per non averle costruite, come se i beni collettivi fossero una priorità in tempi di libero mercato…
Se si fossero avvertite più tempestivamente le popolazioni di alcune zone, dopo che si è creata la prima onda, sarebbe stato possibile evacuarle e salvare molte vite. Le onde avanzavano a 500 km/h ma certe località erano a 2500 km di distanza: la Thailandia meridionale è stata investita un’ora dopo il terremoto originario, l’India e lo Sri Lanka due ore e mezzo dopo. Ancora più tardi Malesia e Maldive. Si potevano avvisare le aree interessate del pericolo incombente e lanciare un ordine di evacuazione per la popolazione. Nessuno lo ha fatto: perché?
Eppure sistemi di monitoraggio e prevenzione esistono in Giappone e sulla costa pacifica degli USA ed hanno funzionato anche in questo caso: il direttore della stazione di Honolulu del “Centro di allerta maremoti per il Pacifico” (i cui sismografi avevano captato quello che stava accadendo sotto le acque intorno a Sumatra) 15 minuti dopo la scossa ha emesso un bollettino diffondendolo a tutti i 26 paesi membri del DART (Sistema internazionale di allarme anti tsunami), tra cui anche Indonesia e Thailandia. L’allarme nei paesi interessati è stato però evidentemente sottovalutato e l’informazione si è diffusa troppo lentamente, via telefono, senza la tempestività garantita da sistemi tecnologicamente più avanzati: la mancanza nei Paesi colpiti di sensori in grado di capire in anticipo direzione e caratteristiche dei maremoti ha fatto il resto.
I costi di un sistema di monitoraggio, analogo a quelli americani e giapponesi, sono infatti molto elevati e serve personale specializzato per gestirlo: secondo gli studiosi, le probabilità che un evento del tipo tsunami si verificasse nell’oceano Indiano erano scarsissime e quindi alcuni paesi, come India e Bangladesh, avevano preferito investire le poche risorse disponibili per realizzare un sistema congiunto di monitoraggio anti-tifoni, in grado di salvare la vita di migliaia di persone da questi eventi naturali tipici di quest’area. Là i pescatori sono ormai abituati ad ascoltare le previsioni meteo alla radio: le loro vite, molto spesso, dipendono da semplici, banali radioline a transistor che descrivono i movimenti e i cambi di traiettoria dei cicloni. L’India non poteva permettersi 26 milioni di dollari per un sistema di monitoraggio dopo aver speso 3 miliardi di dollari per fabbricare bombe atomiche, che speriamo non userà mai…
Il ruolo più cruciale del DART spetta agli individui incaricati di trasmettere l’allarme dal centro di segnalazione terrestre al pubblico: negli USA i bollettini possono essere irradiati immediatamente e in maniera capillare a tutte le radio e tv del paese. Entro la fine del 2005 è previsto un nuovo dispositivo di allarme che azionerà automaticamente altoparlanti su torrette poste su tutte le spiagge del paese.
Solo un problema di pertinenza di Paesi in via di sviluppo, carenti di fondi e di conoscenza scientifica? A giudicare dalla situazione in Italia non si direbbe. Pur avendo completato il catalogo storico dei maremoti nel nostro paese, di cui abbiamo notizie fin dal 79 d.C, e pur consapevoli del fatto che la vicinanza delle loro sorgenti alla fascia costiera è un’aggravante per l’esiguità del tempo (pochi minuti) a disposizione per avvertire la popolazione, di fatto anche noi siamo privi di un sistema capace di dare tempestivamente l’allarme.
Va inoltre considerato un altro fattore: nel caso dello tsunami del sud-est asiatico, oltre ad una carenza di tecnologia si è manifestata una carente valutazione dell’informazione. Lentezza ed errata percezione della gravità della situazione hanno dunque amplificato i termini della catastrofe e hanno contribuito a moltiplicare le morti. Un problema più umano che tecnico, dunque.

 

Due mondi accomunati


Secondo alcuni lo tsunami dell’Oceano Indiano ha rimarcato in modo tragico lo squilibrio tra due mondi, quello scientifico e tecnologico, un club ristretto che possiede strumenti di previsione e di protezione per i suoi cittadini, e l’altro mondo, ai margini dello sviluppo, dove le popolazioni sono abbandonate alla furia degli elementi, senza aiuto, senza soccorso.
L’ignoranza, fattor comune ai due mondi di cui sopra, ha dimostrato ancora una volta di essere all’origine di gran parte dei mali dell’umanità. L’egoismo impedisce di condividere i progressi scientifici, la povertà di attrezzarsi adeguatamente per fronteggiare i pericoli.
Qui ricchi e poveri hanno condiviso una stessa tragica sorte. Nei primi momenti dopo una catastrofe, scatta immediata l’onda della solidarietà capace di superare antiche e profonde divisioni: fu così dopo un terremoto al confine tra India e Pakistan alcuni anni fa, così è adesso in Sri Lanka, dove la comunità civile si è prodigata negli aiuti senza tenere in conto l’etnia delle vittime, se fossero tamil o cingalesi.
Dalle rovine di questa catastrofe potrà nascere un comune impegno per la ricostruzione di un mondo unito nella comune lotta all’ignoranza?
Saranno capaci le Nazioni Unite, di nome e di fatto, di colmare le enormi differenze che diventano sempre più abissi tra ricchi e poveri?
Saranno capaci i nostri governanti di rivedere le loro convinzioni sulle catastrofi, considerate solo fenomeni naturali (forse manifestazioni divine?) contro le quali non si può far niente, se non rassegnarsi e ricominciare, cambiando tutto per non migliorare niente?
Saremo capaci, noi tutti, di ricordarci che la vita di ogni essere umano è importante aldilà del colore della pelle? Che il valore della vita non dipende dal fatto che appartenga ad un turista o ad un locale ma dal fatto di scoprirne il senso?


Indonesia tsunami fear

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SVILUPPO SOSTENIBILE

 AMBIENTE

 

 
Il RUOLO DELL’EDUCAZIONE NELLA COOPERAZIONE ALLO SVILUPPO SOSTENIBILE

Il dibattito sullo sviluppo, di fronte alla realtà contemporanea, si sposta sempre più dal campo della tecnica economica a quello della costituzione socio-istituzionale, responsabilizzando, tra gli altri soggetti complementari in causa, il ruolo dello Stato quale elemento fondamentale per l’innesco del processo di sviluppo. Due sembrano essere i nodi fondamentali da sciogliere:

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I LIMITI MENTALI DELLO SVILUPPO INSOSTENIBILE

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«Senza una forte ventata di opinione pubblica mondiale, alimentata a sua volta dai segmenti più creativi della società – i giovani e l’“intellighenzia” artistica, intellettuale, scientifica, manageriale – la classe politica continuerà in ogni paese a restare in ritardo sui tempi, prigioniera del corto termine e d’interessi settoriali o locali, e le istituzioni politiche, già attualmente sclerotiche, inadeguate e ciò nonpertanto tendenti a perpetuarsi, finiranno per soccombere.»

Aurelio Peccei


Trenta anni fa queste riflessioni del fondatore del Club di Roma (prestigioso cenacolo di premi No-bel, leader politici ed intellettuali dedicatisi ad analizzare i cambiamenti della società contempora-nea) ammonivano i politici di tutto il mondo a fare qualcosa per affrontare i problemi sociali, am-bientali, culturali posti da una crescita economica apparentemente senza limiti. La presa di coscien-za che qualcosa dovesse essere fatto si concretizzò in quel lontano 1972 nella prima Conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente umano, cui parteciparono delegati di 113 paesi, e che portò alla creazione dell’UNEP, l’agenzia dell’ONU che si occupa delle questioni ambientali.
L’urgenza di fare qualcosa in più a livello politico si manifestò solo vent’anni dopo, nel 1992, con l’Earth Summit di Rio de Janeiro, cui parteciparono rappresentanti di oltre 178 paesi e 117 capi di Stato. Dopo altri 10 anni si è appena concluso a Johannesburg il Vertice sullo Sviluppo sostenibile, la più grande manifestazione mai organizzata dalle Nazioni Unite. La questione cui esperti e politici hanno tentato di rispondere è stata: cosa è stato fatto nei passati trent’anni per la tutela dell’ambiente e cosa occorre fare in futuro?


L’interesse per l’ambiente: coscienza contro distruzione?

Solo il verificarsi di grandi eventi catastrofici e la convocazione di queste grandi riunioni sembra ridestare il sopito interesse dell’opinione pubblica per la tutela dell’ambiente. Possiamo grossola-namente suddividere la popolazione mondiale in tre gruppi a seconda del sentimento prevalente e-spresso nei confronti della Natura che oscilla tra:
a) la venerazione per la Madre Terra (sentimento di rispetto proprio delle culture cosiddette “pri-mitive”, ripreso dai movimenti ecologisti contemporanei);
b) la grande apatia (J. Goodall, 2002) di gran parte della popolazione mondiale (dovuta probabil-mente ad una diffusa ignoranza su quale sia il “valore” - che qualcuno ha cercato anche di calco-lare in termini monetari - dei servizi che la natura fornisce al genere umano);
c) l’assenza di una coscienza individuale e di controlli sociali che pongono un individuo o un im-presa in grado di provocare involontariamente o deliberatamente dei danni ambientali impunemen-te.

a) L’idea che la Terra sia un “essere vivente” è antica quanto l’uomo. I nostri antenati, anche se non avevano sviluppato una tecnologia raffinata come la nostra, dimostravano di avere una comprensio-ne delle leggi della Natura semplice e profonda e, in un certo senso, più raffinata della nostra.
In tutte le mitologie del mondo i diversi popoli hanno sempre pensato che la porzione di universo da loro conosciuta fosse qualcosa di vivo: la foresta per i Pigmei, l’oceano per i Polinesiani, la monta-gna per i Tibetani, il deserto per i Tuareg e così via. Tale visione di “terra madre” è stata abbando-nata con l’Illuminismo e il prevalere della ragione ma, anche nel pensiero moderno e contempora-neo, non sono mai mancati richiami all’antica concezione, perfino a livello scientifico.
b) Fra i più, tuttavia, prevale l’oblio circa l’importanza della Natura per la sopravvivenza stessa dell’uomo. Anche in presenza di segnali inequivocabili di reazioni eclatanti in risposta ad interventi umani ormai divenuti globali, l’atteggiamento più diffuso è l’assuefazione o, peggio, il diniego. Il diniego consiste nel negare, nelle forme più svariate e ipocrite, l’esistenza di ciò che esiste e per giunta si conosce. Si tratta di un vizio antico ma, paradossalmente, la iperdiffusione dei mezzi di comunicazione odierni l’hanno reso esponenziale e scandaloso (Cohen, 2002). Il diniego, che all’origine era solo del potere politico, è passato, in forme variegate ad obnubilare la sensibilità del-la gente comune, non nella forma cinica e brutale di chi mente, ma in quella più morbida di chi non sa o finge di non sapere come vanno davvero le cose, o che comunque ritiene che non sia di sua competenza intervenire. Se il diniego politico è cinico, calcolato ed evidente, il nostro diniego di cittadini di fronte ai problemi ambientali, divenuto indifferenza, è disastroso perché toglie ogni spe-ranza a una possibile reazione e inversione del corso degli eventi: i fatti sono conosciuti ma non so-no percepiti come un elemento di “disturbo psicologico” o carichi di un imperativo morale ad agire. Ma così finiamo con il sostituire alla responsabilità, alla sensibilità morale, alla compassione, al senso civico, al coraggio, all’altruismo, al senso della comunità, l’indifferenza, l’ottundimento emo-tivo, la desensibilizzazione, la freddezza, l’alienazione, l’apatia, l’anomia e alla fine la solitudine di tutti nella vita della città (Galimberti, 2002).
c) Nel peggiore dei casi poi, individui singoli o associati giungono involontariamente o deliberata-mente ad alterare gli equilibri naturali provocando quei fenomeni talvolta eclatanti e tristemente famosi che vanno sotto il nome di “inquinamento”.


Chi inquina? E perché si inquina?

Potrebbero sembrare delle domande ingenue, ma vale la pena di farle per chiarire come stanno le cose. La risposta in entrambi i casi è: chiunque non abbia una coscienza individuale e sia posto in grado di poterlo fare impunemente. Di solito si dice: «È l’industria che inquina». Ma è altrettanto vero che anche l’agricoltura inquina e che anche il cittadino comune inquina (riscaldamento dome-stico, traffico automobilistico, rifiuti). A fronte di risonanti grandi inquinatori, la grande massa dei piccoli ma numerosi inquinatori svolge un ruolo di entità analoga, se non superiore.
L’inquinatore inquina in quanto deve allontanare da se stesso i materiali (rifiuti) che procurano un danno immediato (economico, igienico, estetico, di ingombro, ecc.) nella maniera più economica possibile per se stesso, che consiste solitamente nello spostare i rifiuti al di fuori del proprio oriz-zonte di azione personale. Lo stesso fanno gli Stati: i Paesi sviluppati mandano i loro scarichi tossici nei Paesi in via di sviluppo; il Giappone manda le sue scorie nucleari in Inghilterra in attesa di tro-vare forse qualche altro pianetino dell’Universo dove spedirle per una.... soluzione finale. Ma al di fuori del proprio orizzonte personale d’azione si incontra quello del nostro prossimo, sul quale si ri-versa il costo di smaltimento (in termini di qualità ambientale) che noi abbiamo risparmiato.
Ecco così che, da un piano individuale, si passa a problemi di natura sociale più vasti. Per citare al-cuni esempi:
- tutti voglio l’elettricità e il gas in casa, ma nessuno vuole una centrale elettrica o un gasometro vicino a casa propria;
- tutti vogliono il servizio di fognatura e ritiro rifiuti, ma nessuno vuole un impianto di depurazione o un inceneritore oppure una discarica vicino alla propria abitazione o al luogo di villegiatura pre-scelto;
- tutti sanno che esistono lavori meno salubri di altri, che sono indispensabili per il nostro stile di vita, ma nessuno vuole per i propri figli tali lavori.
Si può concludere dicendo quindi che si inquina:
• per risparmiare soldi sui sistemi di allontamento e smaltimento dei rifiuti;
• per lo scarso valore che si attribuisce alla qualità dell’ambiente in relazione al godimento di altri beni che vengono privilegiati anche se agiscono negativamente sull’ambiente (automobili, moto-scafi, località turistiche affollate, ecc.)
• per ignoranza degli effetti dell’inquinamento sulla propria salute.
Per quanto si voglia allontanare da noi gli aspetti più “sporchi” del nostro modello di sviluppo, la globalizzazione ormai imperante fa sì che ciò che noi vogliamo far uscire dalla porta spesso ci si riaffacci in casa dalla finestra (la Gran Bretagna manda pesticidi banditi nel suo territorio nelle Fi-lippine per la coltivazione di frutti esotici che vengono poi esportati nei Paesi sviluppati, Inghilterra compresa, tanto per fare solo un esempio).
Ma se l’inquinamento è dannoso alla qualità della vita umana, non è insensato inquinare?
È sicuramente insensato il comportamento dell’inquinatore che procura un danno a se stesso e ai suoi familiari: solo la non conoscenza dell’entità e delle conseguenze del fenomeno giustifica infatti l’apparente disprezzo per il bene di persone che rivestono per l’inquinatore un grande valore affetti-vo. Qualora conscio di tale pericolo l’inquinatore non dovrebbe esitare a pagare i costi del disinqui-namento o di un diverso modo di produrre beni o un diverso stile di vita. 

 

Capire se e come il mondo è cambiato: la parola agli scienziati

Alcuni scienziati come Edward O. Wilson (sociobiologo dell’Università di Harvard) e Hal Mooney (ecologo dell’Università di Stanford) sono convinti che, specialmente negli ultimi dieci anni, l’umanità abbia molto più a cuore la sorte del pianeta anche in virtù dei progressi scientifici nella conoscenza delle dinamiche del nostro pianeta e dell’emanazione di apposite convenzioni interna-zionali che ha spostato l’attenzione sui problemi ambientali e che spinge ad elaborare strategie glo-bali con cui affrontarli. Sherry Rowland (chimico dell’atmosfera dell’Università di Irvine, Califor-nia) sottolinea altresì il fatto che, malgrado questi progressi, «quanto a modificare i nostri compor-tamenti, tutto è fermo a dieci anni fa».
Gli scienziati stanno collaborando come mai prima d’ora per proteggere il patrimonio biologico del-la Terra ed è ormai chiara a molti di loro la necessità di rendere le loro scoperte vincolanti sia per il grande pubblico sia per chi ci governa, dimostrando che con la conoscenza dei fenomeni naturali si possa arrivare alla previsione dei loro effetti più negativi per l’uomo e che quindi sia possibile adot-tare misure per ridurre i disagi. Ma tra gli scienziati sono anche in molti a pensare che solo l’impatto con eventi drammatici possa indurci a modificare i nostri comportamenti riguardo l’ambiente.


Le leggi dell’ambiente

La consapevolezza della gravità delle minacce ecologiche transnazionali e globali e della necessità di trovare delle contromisure, ha determinato negli ultimi decenni un aumento straordinario del nu-mero di accordi internazionali in questo ambito. Il diritto ambientale è la branca del diritto interna-zionale che ha registrato, soprattutto negli ultimi anni e spesso a seguito di eventi catastrofici, gli sviluppi più rapidi e notevoli.
Dal 1919 ad oggi il numero dei trattati internazionali è cresciuto in maniera esponenziale ed oggi sono circa 240. Oltre i 2/3 sono stati stipulati dopo la Prima Conferenza dell’ONU di Stoccolma del 1972. I 20 anni trascorsi poi tra la Conferenza di Stoccolma del 1972 a quella di Rio del 1992 hanno visto lo sviluppo di oltre 300 tra testi, regolamenti e leggi internazionali sull’ambiente, contenenti migliaia di disposizioni, il cui solo esame pone non poche difficoltà.
Quanto poi alla reale attuazione gli Stati si comportano un po’ come i singoli individui di fronte alla Legge: in genere si dimostrano estremamente restii a riconoscere pubblicamente le proprie respon-sabilità in tutti i settori della scena internazionale compreso l’ambiente. Il che si traduce nella mani-festa riluttanza con la quale gli Stati accettano di sottoporre le controversie ambientali che li riguar-dano ad un giudizio arbitrale presso la Corte Internazionale di Giustizia o presso altri organi di ga-ranzia. Gli Stati (ma anche le multinazionali o i singoli individui) preferiscono negoziare e inden-nizzare spontaneamente piuttosto che sottostare alle leggi di un tribunale e rischiare di creare un di-battito sulle proprie responsabilità.
Ed in questo senso si capisce perché ultimamente a livello internazionale sempre più si parli di co-dici di autoregolamentazione (per es. per le imprese multinazionali) attraverso cui accettare le rego-le più comode per sé piuttosto che di un Tribunale Internazionale dell’Ambiente di fronte al quale “lavare i propri panni sporchi”...
Anche sul piano nazionale la pletora di leggi ambientali rischia talvolta di favorire anziché preveni-re e combattere l’inquinamento. Per fare un esempio, negli USA una rete di nove agenzie governa-tive i cui budget sono controllati da ben 44 commissioni e sottocommissioni controlla gli oceani sta-tunitensi: una macchina lenta, priva di un’unica legislazione, che ostacola le procedure di salva-guardia delle aree marine in pericolo a causa dell’inquinamento. Per fare fronte al problema che si trascina da tempo, sono stati create altre due commissioni (sic!) che stanno esaminando l’attuale si-stema in ogni sua componente: dall’intricata struttura di controllo ai problemi del degrado dell’ecosistema, agli interessi economici legati alla viabilità delle acque e alle risorse petrolifere.
Insomma tra il legiferare ed il fare c’è di mezzo un ampio mare...


Controlli e punizioni

Come abbiamo visto il difficile non è fare le leggi, ma farle rispettare.
«Se si vuole una convivenza civile, attraverso regole condivise da tutti, bisogna fare in modo che tali regole vengano davvero rispettate. È molto difficile che ciò avvenga spontaneamente, per senso civico: crederlo sarebbe illusorio. Soprattutto quando si tratta non di singoli individui, ma di gruppi umani o di intere popolazioni» (P. Angela, 2000).
Un esempio paradossale in questo senso è rappresentato dalla posizione degli USA: nel 1990 la prima amministrazione Bush impose alle duecento principali centrali a carbone degli Stati Uniti di mantenere le proprie emissioni di biossido di zolfo entro una certa quota annuale, oltre la quale si rischiavano pesanti multe. Da allora i limiti sulle emissioni inquinanti vengono applicati in tutto il mondo, coinvolgendo anche ossidi di azoto, metano, polveri sottili e naturalmente i sei gas respon-sabili dell’“effetto serra”, con in testa l’anidride carbonica.
Oggi invece le prese di posizione della seconda amministrazione Bush sono quantomeno contraddit-torie: mentre sul piano politico militare internazionale esige adeguati controlli e minaccia severe punizioni a chi non rispetta i dettami dell’ONU, sul fronte ambientale si guarda bene dal sottoscri-vere documenti delle stesse Nazioni Unite che potrebbero solo lontanamente comportare “controlli e punizioni” sicuramente meno severe di quelle che il Pentagono intende infliggere all’Irak di Sad-dam Hussein.


Punizioni ma anche premi...

C’è anche un’altra strategia per orientare il comportamento sociale: riuscire a usare in modo creati-vo dei premi anziché delle punizioni è molto redditizio quando si tratta di agire sul comportamento umano. Del resto, gli psicologi sottolineano sempre i vantaggi dell’istituzione del premio rispetto alla repressione e alla punizione. Utilizzare il premio può risolvere in modo brillante situazioni for-temente conflittuali (P. Angela, 2000).
Sui gas a effetto serra gli USA hanno proposto di assegnare dei permessi per l’inquinamento che le aziende possano acquistare e vendere: prendiamo il caso di una centrale a carbone che sta consu-mando più rapidamente del dovuto la quota di biossido di zolfo (il gas responsabile delle piogge a-cide) assegnatale dal governo. Per ovviare al problema la centrale può rivolgersi a un “trader” di biossido di zolfo e acquistare le partite in più corrispondenti al suo fabbisogno, offerte sul mercato da altre centrali che sono riuscite a ridurre le loro emissioni più del dovuto.
In questo modo tutti hanno dei vantaggi: il compratore evita la multa e quindi risparmia, il venditore ci guadagna e l’inquinamento diminuisce, da un lato perché l’Ente federale per l’ambiente di anno in anno abbassa le quote, dall’altro perché la possibilità di vendere il surplus è un potente incentivo a ridurre le emissioni. Negli USA la produzione complessiva di biossido di zolfo negli ultimi 10 an-ni è significativamente calata anche grazie a questi scambi di quote sui mercati finanziari.
L’idea potrebbe essere applicata ad altri aspetti della tutela ambientale.
Le foreste e i suoli agricoli assorbono anidride carbonica e in tal modo frenano il riscaldamento globale. Se le foreste e le comunità agricole potessero ricavare denaro in cambio dello “smaltimen-to” dell’anidride carbonica, avrebbero un ulteriore incentivo a difendere tali risorse e un’altra fonte di guadagno. In tal modo, per esempio, aziende produttrici di energia europee, americane o giappo-nesi, pagando gli abitanti dei villaggi africani in modo che questi salvaguardino meglio i loro patri-moni forestali, acquisirebbero dei “crediti” ambientali spendibili sul mercato internazionale.
Non tutti però sono così entusiasti: alcuni temono che, trasformando le risorse naturali in una mac-china per fare soldi, le multinazionali potrebbero sostituirsi agli abitanti di quei villaggi, magari piantando grandi appezzamenti di monocolture geneticamente modificate a crescita ultrarapida, per massimizzare la rendita e così si finirebbe per derubare ancora una volta i più poveri e l’ambiente.
Per evitare questi rischi molti chiedono anche un bastone insieme alla carota cioè la stipula di un accordo sulla responsabilità di impresa che esiga dalle aziende l’adesione a precisi impegni ambien-tali e sociali (F. Pearce, 2002).


“Carote” per alcuni, “bastoni” per tutti...

Purtroppo ultimamente le “carote” sembrano scarseggiare e quindi si tende a riservarle ai propri e-lettori... .
A Johannesburg, al di là dei cinque “temi chiave” all’ordine del giorno (acqua, biodiversità, energia, agricoltura, salute), i veri temi caldi di negoziato (o conflitto) politico, formale o dietro le quinte, sono stati il commercio mondiale, i sussidi agricoli, gli investimenti privati e gli aiuti internazionali allo sviluppo.
Ricorderete il recente viaggio in Africa, largamente propagandato, della strana coppia Bono (leader del complesso musicale U2) - Paul O’Neill (Ministro del Tesoro statunitense). Quest’ultimo, dopo aver visto da vicino le condizioni in cui versa il Continente Nero, così dichiarava: «L’unica speran-za di pace e prosperità per il continente è l’abbattimento delle barriere commerciali» (T.C. Fi-shman, 2002). A ciò ha fatto seguito la recente approvazione da parte dell’amministrazione Bush di nuovi sussidi per i coltivatori di cotone statunitensi, una misura che contribuisce a diminuire i prezzi mondiali della materia prima, colpendo le economie dei paesi africani che dipendono dalla coltiva-zione ed esportazione del cotone.
Ma così facendo lo scarto fra le intenzioni dichiarate e i comportamenti reali, fra l’enormità dei problemi cui si promette una soluzione e l’esiguità degli sforzi poi messi in campo, può soltanto ag-gravare la rabbia dei contestatori.
In un recente incontro dal titolo “Dopo il Vertice mondiale sullo sviluppo sostenibile di Johanne-sburg: quali impegni e quale ruolo della società civile mondiale nel contesto delle Conferenze In-ternazionali delle Nazioni Unite” Gianfranco Bologna del WWF Italia sottolineava l’esiguità degli investimenti internazionali a favore dell’ambiente (325 milioni di dollari) annunciati a Johanne-sburg se confrontati con i calcoli dello scienziato Norman Myers secondo cui i governi finanziano azioni contrarie all’ambiente per 2000 miliardi di dollari all’anno!
Questo sentimento di impotenza e di ingiustizia non può certamente giustificare l’uso dei “bastoni” ma giustifica quantomeno la domanda: a che servono incontri internazionali che si pongono obietti-vi irrealistici, ai quali per giunta si dà poco spazio effettivo alle istanze della società civile e dove gli unici che hanno i mezzi per fare qualcosa si presentano senza un progetto comune e con nessuna intenzione di tirar fuori i soldi necessari?
Il Segretario Generale dell’ONU in occasione del Civil Society Forum di Johannesburg ha afferma-to che «la società civile occupa uno spazio unico nel quale nascono idee, all’interno del quale si modificano gli schemi mentali e dove non ci si limita a parlare di conservazione e sviluppo ma si opera attivamente per raggiungerli». Ha inoltre ricordato ai gruppi appartenenti alla società civile quanto egli faccia affidamento su di loro: «Voi avete la capacità di mantenerci sempre vigili - ha detto - di fare pressione e di dire e fare cose che noi non osiamo».
Un altro bell’esempio di “carota”? Forse...
Il dibattito sull’utilità di questi megavertici delle Nazioni Unite è all’ordine del giorno soprattutto nelle agende delle Organizzazioni non governative (Ong) che percepiscono ormai con chiarezza come le grandi decisioni sui temi mondiali siano sempre più prese in altri consessi (G8, Organizza-zione Mondiale del Commercio; Fondo Monetario Internazionale, Banca Mondiale) rappresentativi esclusivamente degli interessi del grande capitale.
Ma al tempo stesso, di fronte a questi processi involutivi dei valori della politica e della democrazia internazionale, si assiste al crescere di una nuova tendenza: la mobilitazione dei cittadini (Lembo, 2002).


Una umanità capace di futuro

Forse non si dovranno aspettare altri 10 anni per verificare quanto di buono saranno in grado di rea-lizzare coloro che hanno preso impegni per il nostro futuro comune.
Certamente le scelte dei “grandi” possono influire e condizionare le scelte di tutti: sarebbe ingenuo non pensarlo. Eppure se una coscienza diversa inizierà a farsi strada, se uno sguardo più saggio e coraggioso caratterizzerà il nostro rapporto con il pianeta, noi inizieremo a vivere meglio e a veder vivere meglio chi sta intorno a noi.
«I nostri rapporti con il mondo dipendono in maniera cruciale dalla nostra visione di noi stessi»: questa frase del Premio Nobel Amartya Sen coglie bene la sfida che ognuno di noi dovrà intrapren-dere in primis con se stesso.
La nostra presa di coscienza individuale è il primo presupposto per la nascita di una coscienza pla-netaria, attenta alla salvaguardia dei diritti fondamentali dell’uomo e dell’ambiente.
Tutto ciò passa attraverso la comprensione del valore della vita di ogni individuo, delle immense potenzialità che ognuno può esprimere, della forza che scaturisce da una chiarezza degli obiettivi di vita da realizzare, della potenza della consapevolezza per la realizzazione di un fine comune ad altri individui. 

 

Se noi inserissimo gli interessi dell’uomo in un diagramma spazio-tempo (vedi figura) dovremmo ammettere che solo pochi hanno una prospettiva realmente globale, estesa ai vari e complessi pro-blemi dell’intero mondo in un futuro non troppo vicino (G. Bologna, P. Lombardi, 1986).
Eppure l’accelerazione impressa dallo sviluppo scientifico-tecnologico, soprattutto nel campo dell’informazione, fa sì che siano sempre più numerosi coloro che possono accedere a tale consape-volezza.
La storia ha dimostrato più di una volta che un singolo individuo o un piccolo gruppo possono apri-re gli occhi alla gente sull’importanza di una questione e mettere in moto grandi cambiamenti nel percorso di una società.

 

 

VERTICE MONDIALE SULLO SVILUPPO SOSTENIBILE

Principali contenuti del Piano di attuazione approvato dal vertice di Johannesburg

Il Piano di attuazione adottato nella notte del 3 settembre è composto da 10 capitoli e da 148 para-grafi. Sono indicati di seguito i principali contenuti del Piano.

 

PRINCIPI


Conferma del principio 15 della Dichiarazione di Rio Approccio precauzionale.
Conferma del principio 7 della Dichiarazione di Rio Responsabilità comuni ma differenziate tra Pa-esi industrializzati e Pesi in via di sviluppo.

 

OBIETTIVI E SCADENZE

Diritti umani - Promozione e rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali, che assumono il ruolo di criterio essenziale nelle strategie per la riduzione della povertà, la protezione della salute, la conservazione e gestione delle risorse naturali.
Promozione dell’accesso delle donne, sulla base di un principio di uguaglianza, a tutti i processi de-cisionali, ed eliminazione delle forme di discriminazione e violenza contro le donne.
Impegno ad adottare misure immediate ed efficaci per eliminare lo sfruttamento del lavoro minorile, ed adottare strategie per l’eliminazione di tutte le forme di lavoro minorile contrarie agli standards internazionali.
Riconoscimento degli standard e dei principi stabiliti dalla Organizzazione Internazionale del Lavo-ro (ILO) per la protezione dei diritti dei lavoratori.
Lotta alla povertà - Conferma dell’obiettivo della “Dichiarazione del Millennio” di dimezzare entro il 2015 il numero di persone con un reddito inferiore ad 1 US $.
Protezione della salute - Promozione e rafforzamento dei programmi e delle misure per assicurare la diffusione e l’accesso ai servizi di assistenza sanitaria di base.
Riduzione di due terzi, entro il 2015 rispetto ai dati del 2000, la mortalità infantile al disotto di 5 anni.
Ridurre di tre quarti, entro il 2015 rispetto ai dati del 2000, la mortalità da parto.
Ridurre del 25% entro il 2005 nei paesi maggiormente colpiti ed entro il 2010 globalmente, il nu-mero dei malati di AIDS di età compresa tra i 15 e i 24 anni.
Eliminazione del piombo dalle benzine, dalle vernici e da tutte le possibili sorgenti di contamina-zione, per prevenire le malattie connesse all’inquinamento da piombo.
Acqua potabile - Dimezzare entro il 2015 il numero di persone che non hanno accesso all’acqua po-tabile e purificata.
Adottare entro il 2005 i piani per la gestione integrata ed efficiente delle risorse idriche;
Sostanze chimiche - Impegno per l’entrata in vigore, entro il 2004, della Convenzione delle Nazioni Unite per l’eliminazione delle sostanze organiche persistenti (POPs) e in particolare per l’eliminazione dei pesticidi.
Perseguire l’obiettivo di eliminare le produzioni e gli usi delle altre sostanze chimiche pericolose per l’ambiente e per la salute entro il 2020 (minimizzare gli impatti).
Biodiversità - riduzione significativa della perdita di biodiversità entro il 2010.
Protezione degli oceani e pesca - Promozione della applicazione dell’”approccio ecosistemico” per la protezione della biodiversità marina.
Adottare le strategie e le misure necessarie per la generalizzare le pratiche della pesca sostenibile entro il 2012.
Avviare dal 2004 una regolare attività di monitoraggio e valutazione dello stato dell’ambiente mari-no.
Energia - Aumento significativo della quota di produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili e promozione delle tecnologie a basso impatto ambientale.
Progressiva eliminazione dei sussidi ai combustibili fossili che hanno effetti negativi sull’ambiente.
Monitoraggio e coordinamento delle iniziative per la promozione delle fonti rinnovabili.
Impegno volontario dei paesi dell’Unione Europea, e di altri paesi, per aumentare la quota di ener-gia rinnovabile nella produzione mondiale di energia.
Cambiamenti Climantici - Conferma degli obiettivi della Convenzione Quadro sui Cambiamenti Climatici, e in particolare della stabilizzazione, a livelli non pericolosi per l’equilibrio del clima, della concentrazione in atmosfera di anidride carbonica e degli altri gas-serra.
Appello ai paesi che non hanno ancora ratificato il Protocollo di Kyoto, per la ratifica in tempi bre-vi.

 

MODELLI SOSTENIBILI DI PRODUZIONE E CONSUMO

Promuovere lo sviluppo di programmi quadro decennali per la realizzazione di iniziative finalizzate alla modificazione dei modelli di consumo e di produzione non sostenibili.
Individuare politiche, misure e meccanismi finanziari per sostenere i modelli di consumo e produ-zione sostenibili.
Promuovere e diffondere procedure di valutazione di impatto ambientale e di “ciclo di vita” dei prodotti, anche al fine di incentivare quelli più favorevoli per l’ambiente.

 

FINANZIAMENTI


Istituzione di un fondo mondiale per la solidarietà a carattere volontario.
Conferma degli obiettivi sull’Aiuto pubblico allo sviluppo (ODA) concordati a Monterrey.
Riduzione del debito dei paesi in via di sviluppo attraverso la cancellazione o alleggerimento (debt relief e debt cancellation) e rafforzamento dell’iniziativa a favore dei paesi poveri fortemente inde-bitati (heavily indebtted poor countries - HIPC).
Utilizzo dei “debt swaps” per riconvertire il debito in attività a sostegno dello sviluppo sostenibile.
Conferma dell’impegno per il rifinanziamento della Global Environmental Facility, e impegno vo-lontario integrativo dell’Unione Europea per un ulteriore finanziamento di 80 milioni di Euro.

 

COMMERCIO

Avvio della riforma del sistema dei sussidi al commercio internazionale, che hanno effetti negativi sull’ambiente, ovvero riduzione delle facilitazioni commerciali per i prodotti che non favoriscono lo sviluppo sostenibile.
Coordinamento tra Organizzazione Mondiale del Commercio e Accordi Ambientali Multilaterali per favorire la promozione nei mercati internazionali dei processi e dei prodotti “sostenibili”.

 

GOVERNANCE

Assicurare la promozione della trasparenza e dell’efficienza delle forme di governo e della gestione delle risorse, anche attraverso la realizzazione di infrastrutture per l’accesso alla informazione (E-government)
Adozione delle strategie nazionali per l’attuazione dell’Agenda 21, entro il 2005.

 

PARTNERSHIPS

(progetti in cooperazione tra paesi sviluppati e paesi in via di sviluppo, con la partecipazione di im-prese private, istituti finanziari, associazioni non governative, agenzie delle Nazioni Unite)
Avvio dei progetti inseriti nella lista accettata dalle Nazioni Unite, e monitoraggio sulla loro attua-zione.
I 562 progetti ammessi fanno riferimento a 12 aree di intervento:
Riduzione della povertà;
Promozione di modelli sostenibili di produzione e consumo;
Conservazione e gestione delle risorse naturali e della biodiversità;
Promozione delle energie rinnovabili e dell’efficienza energetica;
Purificazione delle acque e gestione intergrata del ciclo idrico;
Protezione ed estensione delle foreste;
Governance in un sistema globalizzato;
Promozione della salute;
Sviluppo sostenibile nelle piccole isole;
Sviluppo sostenibile nell’Africa;
Trasferimento ai paesi in via di sviluppo di competenze e tecnologie innovative per consolidare le capacità di gestione e governo delle risorse;
Supporto alla realizzazione di modelli di commercio compatibili con le Convenzioni e i Protocolli internazionali.
Le risorse finanziarie messe a disposizione per l’avvio dei progetti ammontano a circa 1500 milioni di Euro. I progetti sono predisposti in modo tale da rappresentare un volano per un “ciclo” di inve-stimenti aggiuntivi.

Corrado Clini
Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio
Direzione per la protezione internazionale dell’ambiente

 

Bibliografia

AA.VV. (1972): I limiti dello sviluppo. Mondadori
G. Bologna, P. Lombardi (1986): Uomo e ambiente. Gremese Editore
P. Angela (2000): Premi & punizioni. Mondadori
F. Pearce (2002): La Terra da salvare. Internazionale, n. 451
T.C. Fishman (2002): Harper’s Magazine, agosto 2002
J. Goodall (2002): The Power of One. Time Special Report “How to save the Earth”. September 2, 2002
S. Cohen (2002): Stati di negazione. Carocci.
U. Galimberti (2002): Non mi piace e non lo vedo. In “La Repubblica”, 5 settembre 2002
R. Lembo (2002): Le fatiche della politica. Solidarietà Internazionale, n. 3 maggio-giugno 2002

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Treviso. «Sono sull’argine del Piave, laggiù in mezzo all’acqua c’è una casa e gli abitanti stanno caricando qualcosa su un gommone. Devo avvertirli: stanotte il fiume salirà ancora di un metro», dice Antonio Rusconi, Segretario generale dell’Autorità di bacino dei fiumi veneti.
Cronaca drammatica di un disastro ambientale non certo casuale, a cui ha contribuito anche l’incuria umana: «Non si curano i boschi, che diluiscono nel tempo la pioggia. Per costruire case e aree produttive in quei terreni comodi per noi, abbiamo costretto il fiume nel cemento... ma il cemento non difende. Il cemento concentra e accelera...».
Quale la soluzione? «Interventi strutturali, come le opere di ingegneria idraulica - prosegue il dott. Rusconi - ma soprattutto dobbiamo cambiare il comportamento, l’urbanistica, i piani regolatori... Da 12 anni abbiamo una legge sulla difesa del suolo, bella e importante, poco applicata. Sono stati fatti alcuni interventi, qualche piano di bacino. È stato stanziato appena il 20% del fabbisogno finanziario.»

La cronaca dei disastri naturali di queste ultime settimane (il terremoto in Molise, l’eruzione dell’Etna, le alluvioni sull’Italia settentrionale) riempie i giornali, attraverso i servizi televisivi porta nelle nostre case il dolore e la disperazione degli sfollati “per cause ambientali”.
Ma, come detto, alla forza della natura si aggiunge spesso l’imprudenza umana e il nostro Paese, da tanto tempo ormai, ha avuto testimonianze terribili di tutto ciò.
Dopo ogni disastro ambientale, quasi puntualmente, si è corsi ai ripari con indagini giudiziarie e parlamentari, con interventi finanziari a pioggia e con provvedimenti legislativi volti talvolta solo ad affrontare l’emergenza (sic!).
Il nostro paese brilla per background culturale e legislativo nella redazione di leggi e piani assai nobili ed ispirati, ma non altrettanto può dirsi per la loro effettiva realizzazione.

 

1993 - 2002: dieci anni di sviluppo sostenibile?

Abbiamo già in passato dovuto occuparci del “Piano nazionale per lo sviluppo sostenibile” del 1993, forse il documento più bello e completo ma anche quello che, perfino sul piano della divulgazione, non ha lasciato traccia di sé.
Per raggiungere lo sviluppo sostenibile il documento di allora sottolineava con vigore le seguenti necessità:
• l’integrazione delle considerazioni ambientali in tutte le strutture dei governi centrali e in tutti i livelli di governo per assicurare coerenza tra le politiche settoriali;
• un sistema di pianificazione, di controllo e di gestione per sostenere tale integrazione;
• l’incoraggiamento della partecipazione pubblica e dei soggetti coinvolti, che richiede una piena possibilità di accesso alle informazioni.
Si trattava, allora, come si può capire, di tre capisaldi di difficilissima realizzazione perché, al di là delle difficoltà di ordine politico, legislativo e amministrativo, presupponevano una mentalità individuale e cooperativa ancora lontana anni luce da tali obiettivi.
Purtroppo anche oggi il nostro Paese non brilla affatto per concordia di intenti, per azioni concertate, per univocità di propositi.

 

Mancanza di sensibilità ambientale?

Eppure il nostro paese è stato duramente toccato da alluvioni, terremoti, frane, siccità, incrementi di temperature. La recente “Comunicazione nazionale sui cambiamenti climatici” - documento che l’Italia, come gli altri Paesi che aderiscono alla Convenzione sui cambiamenti climatici dell’ONU, si è impegnata a presentare ogni tre anni - testimonia scientificamente quanto tutti noi abbiamo empiricamente avuto sotto gli occhi.
Aumenta la temperatura e, con essa, i fenomeni estremi come alluvioni, burrasche, trombe d’aria e siccità: l’intensità e la concentrazione delle piogge aumenta nelle regioni settentrionali, mentre il sud galoppa verso l’aridificazione, le risorse idriche sono in calo. I nostri mari sono sempre più salati a causa dell’aumento dell’evaporazione. Mentre per la Terra l’aumento delle temperature medie globali è stato di circa 0,6 gradi in quest’ultimo secolo, in Italia (secondo i dati dell’ENEA, che ha curato il Rapporto) tale aumento è salito a 0,8 gradi, un incremento modesto ma sufficiente a caricare di maggiore energia l’atmosfera e ad esasperarne il dinamismo.
La responsabilità del degrado comunque non è solo del cambiamento climatico generale, ma anche dell’uomo e della cattiva gestione del suolo, dei corsi d’acqua, degli invasi e delle falde sotterranee, precisa il documento scientifico.

 

Se la vostra casa fosse a rischio, voi cosa fareste?

Di fronte a questi dati, di fronte a questi fatti, quale che sia il vostro orientamento politico, che tipo di reazione avreste?
Come testimoniano tanti sondaggi e statistiche, il degrado dell’ambiente è una delle prime preoccupazioni di un numero sempre crescente di uomini e donne. Eppure il paradosso della crisi ambientale è che non si riesce a trasformare questa consapevolezza in azioni propositive, in politiche sensate e risolutorie.
Le pagine di quotidiani e settimanali solo marginalmente affrontano questi problemi: spazi ben maggiori sono riservati al pettegolezzo politico-economico, al gossip mondano, ai grandi problemi del calcio miliardario, che, si sa, fa più “cassetta”...
Il “potere” non è nemmeno sfiorato dall’idea di coinvolgersi in queste vicende a meno che non ci sia una commistione fra interessi pubblici e affari privati...
Arre protette o demaniali, centri storici, boschi, coste, fiumi, malgrado dieci anni di politiche di salvaguardia, sono sempre sotto l’insidia di speculazioni ed inquinamenti: basta una leggina, una sanatoria, un provvedimento amministrativo, un condono per far saltare i buoni propositi di leggi-quadro, di concertazione, di sviluppo sostenibile...
La tutela dell’ambiente, del paesaggio, della nostra salute non può essere “di parte” e come tale gestita solo con la forza dei voti da parte di una maggioranza su una minoranza: si tratta di risorse irriproducibili e quindi una volta deteriorate o distrutte, non si potranno ricostituire. 

 

Una speranza per i prossimi dieci anni

Forse dovremo aspettare altri 10 anni di disastri “ambientali”, un’altra Conferenza dell’ONU sullo sviluppo sostenibile, un altro Piano nazionale d’azione…
Tutto dipenderà dal nostro grado di coinvolgimento nella gestione della nostra “casa” e dalla pressione che sapremo esercitare sul potere politico, economico, culturale affinché l’impegno prenda il posto dell’inerzia e si possa porre rimedio agli insostenibili modelli produttivi, distributivi e di consumo che stanno portando il nostro pianeta verso un futuro che non potrà più garantire risorse sufficienti per soddisfare i bisogni dell’umanità.
Fondamentale resta, tanto quanto il richiamo che costantemente lanciamo ai nostri governanti, l’assumere atteggiamenti e stili di vita coerenti e responsabili. Appare sempre più evidente, infatti, che al centro della contraddizione, ma anche della soluzione, vi siano gli individui stessi, ogni essere umano con i suoi comportamenti, le sue abitudini, le sue attività, la sua filosofia di vita.
Si potrebbe obiettare che le scelte unilaterali ben poco possono di fronte a grandi fenomeni come la globalizzazione, la corsa sfrenata dei mercati o l’ingiustizia strutturale causa dell’aumento continuo della miseria nel mondo. Si potrebbero indicare i governi e le grandi istituzioni internazionali come i veri responsabili di politiche di cambiamento.
La sfida riguarda probabilmente l’uno e l’altro: scelte di comportamento ecologicamente responsabili da una parte (senza aspettarsi che qualcun altro ci pensi) e fare pressione sulle leve del potere politico, sempre più ostaggio di interessi economici di corto respiro, affinché lo sviluppo si traduca in un’evoluzione cosciente del genere umano.
In un recente discorso sullo stato dell’infanzia nel mondo il Segretario generale delle Nazioni Unite Kofi Annan ribadiva gli impegni presi nella Dichiarazione del Millennio, una lista di obiettivi da realizzare entro il 2015 sui quali tutti i leader del mondo si sono accordati.
In questa dichiarazione si ricordavano i traguardi significativi che singoli Paesi o l’umanità tutta è stata capace di raggiungere in 15 anni: dalla conquista dello spazio alla debellazione del vaiolo, dalla fine dell’apartheid alla firma del trattato che mette al bando le mine antiuomo.
«Che cosa hanno in comune questi successi che vi ho ricordato? Hanno in comune il fatto di essere stati raggiunti perché i popoli si sono impegnati ad usare i loro cervelli e i loro cuori per cooperare e per raggiungere gli obiettivi che si erano prefissi.»
Se i popoli sono riusciti a raggiungere questi obiettivi nell’arco di 10 o 15 anni, il tempo d’un infanzia, la speranza di un mondo migliore continuerà ad illuminare il nostro lavoro perché i bambini di oggi possano scoprire la bellezza di una vita degna di essere vissuta.


Bibliografia

Comitato interministeriale per la Programmazione economica (2002) Strategia d’azione ambientale per lo sviluppo sostenibile in Italia. Deliberazione n. 57/2002. Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana. 30 ottobre 2002
Parlamento e Consiglio Europeo (2002): Istituzione dl Sesto programma comunitario di azione in materia di ambiente. Decisione n. 1600/220/CE del 22 luglio 2002. Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana, 7 novembre 2002.
Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio (2002): Approvata dal CIPE la Strategia nazionale di Sviluppo Sostenibile in vista di Johannesburg. Comunicato stampa.
Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio (2002): Le politiche di sviluppo sostenibile. Comunicazione del Ministro Matteoli al Consiglio dei Ministri (5 ottobre 2001)
F. Manzione (1994): L'impegno italiano per la risoluzione dei problemi ambientali. Cultura e Natura n. 4 ottobre-dicembre 1994
G. Valentini (2002): L’Italia e l’ambiente: un disastro annunciato. La Repubblica, 9 maggio 2002
J. Giliberto (2002): Il nodo è la prevenzione. Il Sole-24Ore, 27 novembre 2002
S. Marelli (2002): Johannesburg: riflessioni sul Vertice mondiale sullo sviluppo sostenibile. Notiziario CISP n. 15 agosto-ottobre 2002
K. Annan (2002): Il diritto al futuro. La Repubblica, 9 maggio 2002
C. Baker (2002): Quando l’uomo diventerà “sostenibile”. Il Mondo Domani. UNICEF.n. 3 marzo 2002

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SMOG: LA NUOVA SCHIAVITU'

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Lo smog è solo un “sintomo” di una malattia più complessa del nostro vivere, da cui si può guarire con tecnologie nuove e vecchio buon senso.

 

È un’emergenza nazionale. Decine di città rischiano di chiudere al traffico i loro centri storici per fronteggiare il rischio sanitario legato all’inquinamento atmosferico. Trasporti sul banco degli imputati per l’emergenza smog. L’accusa viene dal Ministero dell’Ambiente che ha individuato proprio in questo settore il principale fattore di pressione per quanto riguarda le emissioni inquinanti nell’aria. Nelle otto principali città italiane il traffico è responsabile per più del 70% delle emissioni delle polveri sottili PM10 e degli ossidi di azoto e per più del 95% di quelle di benzene. Lo evidenzia il recente Rapporto sullo stato dell’ambiente in Italia, presentato lo scorso 14 marzo. E ci si mette pure il Sahara. Non ci bastavano le schifezze prodotte dal traffico. Adesso anche le sabbie desertiche aggrediscono la nostra atmosfera e i nostri polmoni (F. Pratesi, 2005). Secondo rilevamenti di un pool di esperti interpellati dalla Regione Lazio, l’emergenza polveri sarebbe causata per il restante 30% da fenomeni naturali (il trasporto di pulviscolo atmosferico, dovuto alle correnti aeree). Ma dette percentuali variano a seconda delle condizioni meteorologiche e dei periodi dell’anno. A Milano, dove la distinzione tra polveri naturali e artificiali viene fatta da 3 anni, le prime sono mediamente il 15% del totale.
L’Unione europea ha deciso di intervenire radicalmente: ormai le polveri sono state bandite. Le città italiane ora sono costrette a rispettare le norme europee riguardanti le emissioni di veleni nell’aria. Ma, secondo alcuni assessori alla mobilità, per riuscirci il traffico dovrebbe essere ridotto del 30% rispetto al livello attuale. Oppure, secondo una proposta delle Agenzie per la protezione dell’ambiente regionali, occorrerebbe far circolare solo veicoli Euro2 sette giorni su sette: l’inquinamento si ridurrebbe del 40% e non si supererebbero i 35 giorni l’anno previsti.
I principali aspetti del problema, in estrema sintesi: le auto sono troppe, occupano lo spazio urbano rendendolo abbastanza inospitale, costringono a lunghe code e quindi a perdite di tempo, fanno rumore, provocano incidenti e, ultimo ma molto rilevante, inquinano in modo grave (M. Porqueddu, 2003). I sindaci firmano le ordinanze contro le automobili, ma gli esperti indicano nella combustione del gasolio la fonte principale di emissione di polveri sottili. E gasolio significa soprattutto furgoni e poi gli impianti di riscaldamento. Marginali (anzi quasi assolte dagli scienziati) le automobili, che invece sono l’oggetto principale delle terapie sempre più fantasiose dei sindaci e il soggetto dell’attenzione rabbiosa dei cittadini, stanchi di traffico pazzo e volgarmente aggressivo (J. Giliberto, 2005a). Ma andiamo con ordine…


Le responsabilità delle trasformazioni urbanistiche…

Il traffico è un problema urbanistico di assetto urbano e territoriale. Nelle città, le zone sottoposte alle targhe alterne settimanali e ai periodici blocchi totali del traffico coincide, in buona sostanza, con il perimetro dei quartieri storici, cioè di quelle zone delle città che hanno subìto un processo di terziarizzazione analogo a quello che ha subìto il centro storico. Ad esempio a Roma, nel 1971, nei quartieri interessati dalle odierne limitazioni del traffico vivevano circa 1.400.000 abitanti, che nel 2003 si sono ridotti a 970.000: circa 130.000 famiglie (430.000 abitanti) che si sono trasferite per far posto a uffici e attività produttive di ogni tipo: se una famiglia disponeva di 2 macchine, lo stesso alloggio occupato da un ufficio richiama un numero di autoveicoli almeno due o tre volte superiore.
Anche l’utopia urbanistica della città-giardino (concretizzatasi nelle distese sterminate di villette a schiera che contraddistinguono oggi i suburbi delle città americane e, sempre più, dei paesi europei) ha determinato come conseguenza uno schema insediativo che fa coincidere l’abitare con il disporre di un’auto a testa. La nascita e lo sviluppo non pianificato delle periferie ha portato ad una situazione strutturale, che subiamo ancora oggi, per cui intere aree suburbane non sono raggiungibili senza un mezzo di trasporto privato.
Ogni mattina in Italia oltre 20 milioni di persone devono raggiungere il proprio posto di lavoro. Contemporaneamente, circa 10 milioni di giovani escono di casa per andare a scuola o all’università. Il punto è che la grande maggioranza degli italiani compie questi spostamenti in macchina: lo fa il 67% di chi lavora (il dato è del 2000, ma rimane indicativo) e anche il 30% di chi studia che, ogni giorno, si muove in automobile come passeggero (il 5% siede al volante). (M. Porqueddu, 2003). Il trasporto pubblico invece non è aumentato, se non in misura marginale. In parte la responsabilità è delle amministrazioni, che continuano a cercare consenso aumentando parcheggi e strade per tamponare il nevrotizzante problema delle code e dei parcheggi. Ma, come ogni urbanista sa, questo è un caso in cui la soluzione proposta tende a trasformarsi in un incentivo al problema. Una maggiore disponibilità di strade e parcheggi chiama altro traffico che rapidamente satura il nuovo spazio, senza che nulla cambi (A. Bonelli, 2004).
Occorre rendersi conto che l’automobile privata è incompatibile con la vita urbana, cioè con la città: e questo sia nei centri storici sia nelle periferie. Ne volete un esempio? Guardate Scampia: un quartiere a strade larghe costruito per facilitare al massimo il passaggio e il parcheggio delle automobili (il sogno di ogni automobilista). Ma senza negozi, senza bar, senza cinema, senza passanti, senza vita, se non quella generata dai traffici della criminalità. Che “cultura urbana”, cioè “civile” può mai esserci in un quartiere dove la gente non ha più alcun motivo per camminare e incontrarsi per strada? (G. Viale. 2005).


Le responsabilità delle trasformazioni psicologiche…

Secondo lo psichiatra Vittorino Andreoli, il rapporto tra l’uomo e l’automobile è strettissimo e ha modificato la nostra immagine corporea, cioè il modo in cui percepiamo noi stessi. C’è una caratteristica del modo di percepire noi stessi che accomuna ormai quasi tutti: considerarci “tutt’uno” con la nostra macchina. Convinzione che ci ha fatto cambiare specie di appartenenza: non più mammiferi ma corazzati, come le lumache e le tartarughe. Senza la corazza-automobile ci sentiamo un po’ nudi e indifesi. Con quella protezione, invece, ci trasformiamo in guerrieri: è risaputo che alla guida si diventa violenti e aggressivi. Gli automobilisti più pavidi prendono a male parole “rivali” al volante che non riuscirebbero mai ad affrontare in un faccia a faccia, talmente grandi e grossi sono.
Il problema riguarda ogni classe sociale, dalla più ricca alla più povera. Accertata la paradossale “indissolubilità” del rapporto uomo-auto, si capisce perché staccarsi dal volante sia così difficile: rinunciare alla macchina potrebbe significare rinnegare una parte della propria identità. Ecco perché accettiamo di malavoglia le targhe alterne, o perché il car sharing non si è mai diffuso: come si può chiedere ad una chiocciola di dividere il suo guscio con altre quattro?


Le responsabilità del traffico…

In Europa, secondo l’Eurostat, ci sono 487 auto ogni mille abitanti: l’Italia è al primo posto della classifica con 574 vetture ogni 1000 abitanti. In gennaio sono stati immatricolati 212.568 veicoli e sono nati 45.569 bambini: 4 a 1. Prima, la sproporzione era stata ancora più pazza: dal censimento 1961 ad oggi gli italiani sono cresciuti del 13% e i motori (auto, camion, moto: tutto) del 1.380%. C’erano allora 6 veicoli scarsi ogni 100 abitanti, ce ne sono 72 oggi. In una realtà unica, con centri storici dalle vie larghe due metri, la rete stradale più congestionata del mondo: un rapporto auto-chilometri del 40% superiore alla Germania, del 45% all’Olanda, del 60% alla Francia (G.A. Stella, 2005).
In Italia, secondo il recente rapporto del Ministero dell’Ambiente, dal 1980 al 2001 il traffico annuale di passeggeri nelle aree urbane è passato da 136,4 miliardi di passeggeri per km a 307,9 con un incremento del 126%. Le auto hanno fatto la parte del leone, con un incremento di 133,7 miliardi di passeggeri per km, mentre c’è stato un decremento di 4 miliardi di passeggeri per km per il trasporto pubblico.
Secondo il paragone ambientale fra le diverse città, che viene elaborato in una ricerca coordinata da Silvia Brini e condotta dall’APAT (Agenzia nazionale per la protezione dell’ambiente e del territorio), il traffico produce in genere più del 70% delle polveri finissime. «I veicoli merci – scrivono gli esperti dell’APAT – sono la fonte principale delle emissioni di PM10 con valori pari al 46-47%, seguite dalle autovetture (34-35%) e da moto e ciclomotori (16-17%), mentre i bus sono responsabili di meno del 3% delle emissioni da trasporto mobile». Questo è il dato complessivo che si riferisce alla media annuale, che tiene conto anche dell’estate e del clima del Mezzogiorno. I dati cambiano quando si confrontano le diverse città e le diverse stagioni. «Il traffico – conferma Mario Cirillo, responsabile del Servizio inquinamento atmosferico e ambiente urbano dell’APAT – è il maggiore fattore di pressione sulla qualità dell’aria, anche perché contribuisce in modo fondamentale a sviluppare l’inquinamento “secondario” da PM10. Si tratta di quei composti dello zolfo e dell’azoto che poi, in aria, si trasformano in particelle.» (J. Giliberto, 2005 a).

Autobus. Per il ministro dell’Ambiente, Altero Matteoli, sostituire gli autobus più vecchi e inquinanti con mezzi ecologici è una delle priorità nella lotta all’inquinamento. Ma quanti sono gli autobus in circolazione in Italia? Quanti sono quelli più vecchi e inquinanti? Le aziende ASSTRA, che rappresentano il 99% del trasporto pubblico locale urbano e il 60% del trasporto pubblico extraurbano, sono dotate (dati 2003) di 16.307 autobus urbani e di 15.267 extraurbani, per un totale di 31.574 mezzi (età media dei veicoli è di 10 anni, mentre la media europea è di 7). Su 31.574 mezzi per il trasporto pubblico circolanti in Italia, quelli da sostituire al più presto sono 7.830, ovvero quelli che hanno più di 15 anni. Di questi il 30% circola al Sud, il 20% al Centro, il 25% al Nord-Est e l’altro 25% al Nord-Ovest. Purtroppo il 94% dei mezzi pubblici si muove a gasolio. Quelli ecologici sono solo il 6%; appena l’l% elettrici, il 2% ibridi e gpl, il 3% a metano.
Autoveicoli. Il ministro dell’Ambiente sostiene che occorre rinnovare il parco delle auto e delle moto, troppo vecchie e inquinanti. È vero che il 10% dei veicoli nel nostro Paese hanno più di dieci anni e quindi non sono dotati dei dispositivi più moderni contro l’inquinamento. Ma, ribattono con un esempio gli ambientalisti, la circolazione delle auto non catalitiche è già vietata all’interno del grande raccordo anulare di Roma: eppure l’emergenza nella capitale non è cessata. D’altra parte, la percentuale di macchine più vecchie risulta maggiore al Sud, dove invece l’inquinamento è minore. E viceversa, al Nord. La verità è che, in rapporto alla popolazione, in Italia circolano più autoveicoli che negli altri Paesi d’Europa: 41 milioni per 57 milioni di abitanti, contro i 50 milioni su 82 in Germania, i 35 milioni su 59 in Francia. Con un indice di 1,74 – cioè un auto per ogni abitante e mezzo – l’Italia ha la più alta densità automobilistica in Europa dopo il Lussemburgo (1,58) e occupa il terzo posto nella graduatoria mondiale. In alcune città, poi, la media di 768 veicoli per 1000 abitanti viene abbondantemente superata: a Roma (955 auto per 1000 abitanti), Torino (850), Firenze (832), Milano (810).
Motorini. A Roma circolano circa 650.000 moto e motorini (in confronto alle 2 milioni di auto il rapporto è 1 a 3). Di questi, oltre 2/3 sono gli Euro0 che emettono 15 volte più PM10 dei nuovi Euro2 (che sono solo il 5%), contribuendo così da soli ad oltre 1/5 delle PM10 della città. Quasi 3 su 10 invece sono in regola con la direttiva europea Euro1. Così, nonostante questo genere di veicoli rappresentino solo il 12% dei veicoli circolanti, essi emettono il 25% delle PM10 prodotte nella capitale. Quasi 40 milligrammi di particolato ogni chilometro percorso! I dati forniti dall’Agenzia regionale per la protezione ambientale della Lombardia indicano che i ciclomotori Euro0 (immatricolati prima del giugno 1999) producono 217 milligrammi di polveri sottili a chilometro, quelli Euro1 (immatricolati tra giugno 1999 e giugno 2002), come detto, una quarantina di mg e infine gli Euro2 con emissioni di circa 14 mg a chilometro. Se gran parte dell’inquinamento è colpa dei motorini, non si capisce allora perché vengono esclusi dai provvedimenti sulle targhe alterne o perché possono entrare nella zona a traffico limitato di Firenze, con uno stop di appena 4 ore contro le 12 delle auto. A Vicenza, poi, la prima città italiana a superare il limite di 35 giorni all’anno per il livello delle polveri sottili, i motorini in circolazione sono pochi.
Camion e furgoni. Questi veicoli addetti al trasporto delle merci o usati per l’esecuzione di lavori sono tra i mezzi più inquinanti. A Milano 68 mila veicoli diesel Euro0 producono 1/3 dell’intero inquinamento urbano. A Roma i veicoli merci sono 125.000 (corrispondono al 5% del totale nazionale) e, pur essendo solo il 5% dei veicoli circolanti, hanno il primato delle emissioni di particolato, contribuendo per il 47% all’aria mefitica (se si somma il contributo dei motorini si raggiungono i 3/4 di tutte le emissioni). Il parco merci della capitale (49 furgoni ogni 1000 abitanti, la media più alta d’Italia) è così composto: 42.600 sono Euro0, 22.600 Euro1, 33.400 Euro2 e 26.400 Euro3 (L. Garrone, 2005).
Tutto questo complesso parco macchine si concentra in prossimità dei centri urbani. Il 63,6% del traffico automobilistico si svolge in un raggio di 5 km dal centro delle città e un altro 18,9% entro i 10 km. Se dunque uno svecchiamento del parco veicoli sarebbe senz’altro un fattore positivo (secondo alcuni dati dimezzerebbe le PM10), il problema smog si sradicherebbe solo convincendo i cittadini a scegliere mezzi di trasporto pubblici o collettivi rispetto a quelli privati, spesso sotto utilizzati (1 passeggero a veicolo). Ma in un quadro caratterizzato dall’assenza di risorse disponibili per aumentare e migliorare l’offerta di trasporto collettivo, diventa sempre più difficile per le amministrazioni comunali convincere le persone a rinunciare al proprio mezzo per spostarsi in città. Con il risultato che le strade sono congestionate da auto e motorini e i livelli di inquinamento crescono in maniera esponenziale (G. Pogliotti, 2005).
C’è anche da dire che finché – come succede purtroppo da alcuni anni, grazie ad una legge dello Stato – gli autotrasportatori, mezzi pubblici compresi, usufruiscono di una riduzione del 50% sul prezzo del gasolio, le conseguenze sulle scelte dei privati, delle amministrazioni e degli enti pubblici sono quelle che sono….

 


…E quelle degli impianti di riscaldamento.

A inquinare l’aria cittadina non è solo ciò che esce dai tubi di scappamento di auto e moto: il riscaldamento degli edifici dà un contributo importante. Secondo stime di Legambiente esso riversa nell’aria ogni anno circa 380.000 tonnellate di sostanze inquinanti come ossidi di azoto e monossido di carbonio.
«Le emissioni da riscaldamento pesano in maniera variabile dal 26% per le città del Nord – scrive il rapporto APAT – all’8% per quelle del Sud» (a Roma, secondo questi dati, contribuirebbe per il 16% all’inquinamento) (APAT, 2004). Nei mesi freddi il peso degli impianti di riscaldamento è ben diverso, visto che a Milano o Torino la presenza di polveri impalpabili nell’aria raddoppia fra dicembre e marzo. Secondo l’Agenzia milanese mobilità e ambiente, le 17.000 caldaie di riscaldamento a gasolio e olio combustibile rappresentano 1/3 delle polveri sottili respirate dai cittadini.
Un passo decisivo è incentivare l’abbandono delle caldaie alimentate a carbone, a olio combustibile e a gasolio per passare a quelle a gas e a metano. O magari al teleriscaldamento (come sperimentato su larga scala a Brescia). Altra strategia è quella di puntare sull’isolamento termico, migliorando cioè la protezione termica degli edifici (coibentazione): gli esperti calcolano che il 75% dell’energia consumata per il riscaldamento domestico viene sprecata e che in realtà solo il 25% sarebbe sufficiente per mantenere un buon comfort all’interno delle abitazioni.


I rischi degli amministratori…

Da gennaio di quest’anno sono entrati in vigore i limiti imposti da una direttiva europea del 1999 (recepita in Italia con un decreto del 2002) sulle emissioni di veleni nell’aria. Protagoniste delle nuove regole, insieme al monossido di carbonio, l’anidride solforosa e l’ozono, sono le polveri sottili. La densità delle famigerate PM10, le polveri sottili prodotte per il 60-70% dal traffico dei veicoli, non può oltrepassare il valore di 50 microgrammi per metro cubo d’aria per più di 35 giorni l’anno. A poco più di un mese dall’inizio del 2005 avevano già superato quota 35 Padova, Vicenza e Verona, e ci sono vicine Milano, Torino, Rovigo, Treviso, Venezia, Bologna, Firenze. Hanno ancora più di 10 giorni a disposizione Roma, Napoli, Palermo. Nel 2010, però, i limiti si abbasseranno ancora: per le PM10, la soglia di 50 microgrammi non potrà essere oltrepassata per più di sette giorni l’anno ed entreranno in vigore limiti più restrittivi per il biossido di azoto, altro inquinante prodotto in larga parte dal traffico, e l’ozono. La norma impone ai sindaci, superato il limite dei 35 giorni, di adottare interventi che dovrebbero garantire il miglioramento della qualità dell’aria, senza però stabilire nel dettaglio quali azioni spettano alle amministrazioni locali che superano il limite.
Lo spirito del provvedimento è dunque quello di evitare l’inerzia di fronte al pericolo per la salute, anche se spesso i provvedimenti adottati sono all’insegna del borbonico “facimmo ammuina”, vale a dire: facciamo vedere di far qualcosa, anche se sappiamo che incide ben poco sulla limitazione dell’inquinamento. Nessun amministratore locale può o vuole imporre un provvedimento di blocco totale della circolazione (fino a dicembre 2005!), che comporterebbe costi insostenibili (anche sul piano elettorale). Ma i sindaci sanno che rischiano grosso: anche se la norma europea non prevede sanzioni specifiche, qualche giudice scrupoloso potrebbe contestare loro l’omissione di atti d’ufficio o qualche reato ad hoc, come lesioni colpose. L’Unione europea eserciterebbe il diritto di attuare una procedura di infrazione con la “messa in mora” dello Stato: si tratta di un iter il cui esito finale potrebbe essere una condanna o il ricorso a una seconda procedura di infrazione con il pagamento di una multa.

 

…E quelli dei cittadini.

Anche se nello scorso decennio tutte le principali emissioni sono diminuite di quasi 1/3, grazie a diversi progressi tecnologici, l’allarme inquinamento non è stato ritirato. Nessun miglioramento nella qualità delle emissioni, infatti, è in grado di controbilanciare il loro continuo aumento e diversificazione.
L’Istituto nazionale per la ricerca sul cancro ha rilevato, per chi vive in città, un aumento del rischio di contrarre un tumore ai polmoni pari al 20-40% a causa degli inquinanti atmosferici. E per i bambini che vivono in aree trafficate (5000 veicoli al giorno) il rischio di ammalarsi di leucemia è del 270% in più rispetto a quelli che vivono in zone più tranquille (500 veicoli al giorno). I primi lamentano anche un’incidenza di malattie respiratorie del 20% in più degli altri (F. Fiorentino, 2002).
L’incremento del traffico causa almeno 4000 decessi in più ogni anno nelle grandi città italiane. È il risultato del Misa-2, uno studio italiano sugli effetti a breve termine degli inquinanti atmosferici realizzato da un pool di esperti che ha analizzato le cause dei decessi e dei ricoveri ospedalieri avvenuti nel periodo 1996-2002 in 15 città campione (Bologna, Catania, Firenze, Genova, Mestre-Venezia, Milano, Napoli, Palermo, Pisa, Ravenna, Roma, Taranto, Torino, Trieste, Verona). Secondo i dati di questo studio il biossido di azoto ha provocato la morte di 2000 persone, il monossido di carbonio 1900, le polveri sottili circa 900 (M. Gasperetti, 2004). Secondo altri dati l’inquinamento atmosferico provoca ogni anno a Roma la morte di 600 cittadini e genera malattie gravissime in particolare per bambini e anziani. L’asma pediatrica (e soprattutto le sue forme più gravi) sono sempre più diffuse: dal 2001 al 2002 i bimbi asmatici sono aumentati del 62,8% e dal 2002 al 2003 l’aumento ha raggiunto l’88,8% (A. Cantani, 2005)
Meno di un mese fa l’Unione Europea aveva appunto diffuso un suo preoccupato e preoccupante studio sull’incidenza dell’inquinamento sui tassi di mortalità del Continente. Secondo la ricerca, lo smog accorcia la vita degli europei in media di 8,7 mesi e circa 310 mila cittadini dell’UE muoiono ogni anno per le conseguenze dell’inquinamento atmosferico.
Nella triste classifica dei decessi per inquinamento, l’Italia, con le sue 39 mila vittime annuali, è al secondo posto dietro alla Germania. Poi ci sono la Francia e la Gran Bretagna. Il Lussemburgo, con la sua piccola popolazione, è all’ultimo posto con 282 morti. I cittadini europei più colpiti dallo smog sono i belgi, a cui l’inquinamento può ridurre la vita di 13,6 mesi. La nazione più salubre è la Finlandia, con una media di 3,1 mesi in meno.
L’indagine europea, tra le principali cause di decesso non faceva però riferimento ai tumori, bensì ai rischi di attacchi cardiaci (confermati anche da un’altra ricerca scientifica pubblicata dall’autorevole The New England Journal of Medicine dell’ultima settimana di ottobre 2004) collegati alla presenza nell’aria delle nostre città delle famigerate polveri sottili. Più del 90% dei morti da smog è causato, spiega l’indagine UE, dalle polveri sottili che possono provocare attacchi cardiaci e che sono emesse dai gas di scarico di auto e ciclomotori (in particolare dai motori diesel), dalle industrie e dal riscaldamento domestico. Le altre morti sono dovute a malattie respiratorie causate dall’ozono.
Il rapporto della Commissione europea, che è stato inviato ai governi dell’Unione, alle industrie e ai gruppi di pressione, è il primo tentativo di affrontare il problema a livello continentale.

Quali prospettive per le città?

A Basilea (Svizzera) è in corso una sperimentazione che punta a ridurre i consumi energetici della città passando da 6.000 (il consumo energetico medio in Europa, in USA è 10.000) a 2.000 Watt al giorno per ogni persona (senza tornare all’età della pietra, beninteso). Il problema è complesso e comporta sia un miglioramento dell’efficienza della tecnologia, sia la consapevolezza della gente. Anche se, si sa, la Svizzera è… lontana, qualcosina anche da noi si potrebbe cominciare a fare.
Riscaldamento domestico. A Brescia, grazie al termovalorizzatore dei rifiuti urbani, due case su tre sono teleriscaldate, una su tre usa il metano, mentre il gasolio è ridotto ormai a un’utilizzazione marginale. Altrettanto avviene a Ferrara, dove si usa il metano nel 99% della rete. Eppure, entrambe le città registrano livelli di smog superiori alla media. Ecco un’altra conferma, secondo gli ambientalisti, che il nocciolo duro del problema sta nella riduzione del traffico automobilistico privato. Comunque anche abbassare di un paio di gradi la temperatura di edifici pubblici e privati comporterebbe una consistente riduzione dell’inquinamento dell’aria.
Corsie preferenziali. Dalle proteste alle proposte, qual è allora la ricetta di Legambiente contro lo smog? Può anche servire l’aumento dell’accisa sulla benzina di tre centesimi al litro, come propone il ministro Matteoli, per ricavarne fondi da destinare ai piani strutturali. Ma il rincaro della benzina, come dimostrano anche gli effetti dell’escalation petrolifera, non è un disincentivo sufficiente all’uso dell’automobile. Il problema resta quello di reperire e dirottare risorse a favore del trasporto pubblico, finanziato per il 33% dai biglietti e dagli abbonamenti, mentre il resto è a carico delle Regioni e dei Comuni. Fino a che gli autobus viaggiano a una media di 16 chilometri l’ora, evidentemente c’è poco da sperare: basterebbe aumentare con poca spesa le corsie preferenziali (al momento appena il 4,1% di spazi urbani sono riservati alle corsie preferenziali) per incrementare di conseguenza la velocità dei mezzi, la loro efficienza e la loro puntualità. A Roma, per esempio, dove gli autobus viaggiano a 13,5 chilometri l’ora, portare questa media a 15 sarebbe come aumentare del 10% il parco circolante. Occorre cambiare i bus che sono quasi sempre a gasolio, metterli in grado di far concorrenza all’auto alzando la loro velocità media che è di 16 chilometri l’ora (2 in meno che nel 2001), imporre vere corsie preferenziali che non esistono in 35 capoluoghi su 103 e coprono quasi ovunque (violate) meno dell’1% della rete. A Parigi è partito il progetto che in pochi anni porterà a realizzare 400 km di strade riservate esclusivamente agli autobus. Investendo sulla mobilità pubblica di superficie si ottengono due vantaggi: si sottrae spazio alle auto e quindi si abbatte l’inquinamento e si ricorre ad un sistema più flessibile.
Piste ciclabili. Molti comuni italiani, Milano in testa, hanno uffici per la mobilità ciclabile, cui chiedere informazioni o interventi. Per informazioni vedere anche il sito dell’Associazione italiana per la promozione dell’uso della bicicletta (www.fiab-onlus.it) che promuove la realizzazione di più percorsi protetti, zone a velocità limitata e un’apposita segnaletica: tutti modi per facilitare gli spostamenti in bicicletta a discapito dell’auto. Scelte già in atto in alcune città di medie dimensioni, come Torino e Bologna, e di tradizione consolidata come Ferrara e Reggio Emilia, che hanno circa 50 km di piste ciclabili ciascuna. Per non parlare del Nord Europa, dove l’uso della bicicletta è abituale: non solo in Olanda (dove ci sono città dove il 50% dei trasporti è fatto in bicicletta), ma anche in Francia, dove la sola Parigi ha circa 500 km di percorsi ad hoc. Parigi ha varato recentemente un piano anti-traffico che prevede la costruzione di altre 300 km di piste ciclabili.
Pedonalizzazione del centro storico. Sono ormai in molti, tra residenti e commercianti, ad invocare una pedonalizzazione dei centri storici che “scacci via” le macchine da aree di alto pregio artistico. Facendo il caso di Roma, la zona a traffico limitato è molto grande (tolte le case, 1,2 milioni di metri quadri che però per più di 9/10 sono per le macchine e meno di 1/10 per il verde e per i pedoni). Finché lo spazio per le auto non si riduce a vantaggio di chi vuole vivere in città, invece di limitarsi ad attraversarla, la situazione non migliorerà.
Pedaggio. Secondo alcuni esperti è necessario razionare l’accesso ai centri storici tramite un pedaggio se vogliamo garantirne l’attrattività commerciale, evitarne lo spopolamento, fornire condizioni accettabili per organizzare l’approvvigionamento delle merci, preservare e se possibile aumentare la vivibilità e quindi il valore del tessuto sociale delle città. Oggi esistono strumenti tecnici che permettono di selezionare categorie di utenza e differenziare tempi e modalità tariffarie cui applicare un pedaggio per accedere ai centri storici o alla zone dichiarate, ai sensi del Codice della strada, come zone a traffico limitato. Già oggi 32 città sono dotate o si stanno attrezzando con sistemi che permettono di identificare i veicoli che transitano sotto gli appositi “varchi elettronici” discriminando chi non ha diritto di accesso (A. Croce, 2005). Poi, c’è la soluzione del “road pricing”, il pedaggio per l’ingresso nelle città. Si è visto che funziona soprattutto in città “lineari” come Singapore o con poche porte d’ingresso come Oslo o Bergen, dove sono in funzione dei veri e propri caselli di pedaggio. Nei centri italiani (che per la loro storia hanno numerose vie d’accesso e un tessuto viario complesso) il ticket d’entrata è di più difficile realizzazione. A Londra, però, la formula introdotta dal sindaco laburista Ken Livingstone ha funzionato: sotto l’occhio elettronico delle telecamere che registrano il numero di targa, per entrare nella cosiddetta “congestion charge zone” si pagano cinque sterline (8 euro) a transito, anche via Sms, entro 24 ore. Il traffico si è ridotto del 30%, gli introiti servono per finanziare trasporto pubblico e parcheggi e ora stanno pensando di allargare l’area a pagamento. Per Roma, Legambiente propone 2 euro per il grande raccordo anulare e 5 euro per le aree intorno al centro. Una misura del genere, secondo gli esperti dell’associazione, potrebbe ridurre del 30% il traffico nel centro della capitale e aumentare del 20% la velocità dei bus, con un incasso di circa 200 milioni di euro all’anno per il Comune.
Targhe alterne. Il blocco del traffico di domenica, quando la circolazione si riduce a meno di un decimo rispetto ai giorni feriali, può avere un valore mediatico ed educativo, ma in concreto serve a poco. Meglio le targhe alterne, anche se non sono una misura strutturale: bisogna sapere, però, che al massimo riducono il traffico del 10-15%, anche perché chi è di turno quel giorno tende a girare di più in auto.
Trasporto su rotaia. «Il ritardo infrastrutturale per metropolitane e ferrovie, mezzi che non inquinano ed hanno capacità enormi di trasporto, è pauroso»: è quanto afferma il presidente dell’ASSTRA, l’associazione delle aziende di trasporto pubblico locale (G. Pogliotti, 2005a). Basti pensare che mentre le strade dal 1969 al 2001 sono passate da 285.000 a 450.000 km, le ferrovie sono scese nello stesso lasso di tempo da 20.300 km a soli 16.000 (F. Pratesi, 2005a). Molte grandi città continuano a progettare grandi opere per favorire il trasporto su gomma e, come detto, pochi interventi riguardano il potenziamento delle ferrovie, delle metropolitane e delle linee filotranviarie. Grandi città come Roma, dopo aver smantellato circa 30 anni fa le loro reti di filobus operative già da 30 anni (quando erano all’avanguardia mondiale nel campo della trazione elettrica), stanno riconsiderando i vantaggi di questo tipo di trasporto pubblico.
Lavaggio delle strade. Troppa polvere? La risposta è usare l’acqua. Non è una tecnologia sofisticata eppure il sistema funziona da sempre, tant’è vero che dopo un temporale sulla città le famigerate microparticelle PM10 in sospensione nell’aria quasi spariscono. Non si tratta naturalmente di provocare temporali artificiali grazie all’uso di inseminazione (omologa o eterologa? Occorre un referendum…) delle nuvole, ma di pulire le strade con idranti a bassa pressione, come si usa in molte capitali europee spesso meno dotate di acqua delle nostre città.
Biofissaggio delle polveri sottili. Ad Alessandria è in corso una sperimentazione che prevede l’uso di un prodotto chimico, nebulizzato sulle strade, in grado di fissare al suolo le particelle PM10. Il primo esperimento in Italia su un tratto urbano ad alto traffico è stato fatto a Segrate (Milano) con ottimi risultati.
Vernici antismog. Applicate sull’esterno degli edifici, consentono di ottenere un “eco-rivestimento” (a base di biossido di titanio) che, grazie all’azione dei raggi ultravioletti del sole, scompone polveri sottili, benzene e aromatici policondensati convertendoli in sostanze inerti e innocue.
Piazzole e piattaforme logistiche per lo scarico delle merci. Uno dei problemi vitali delle città è la disponibilità di piazzole per la sosta dei furgoni e la movimentazione delle merci, specialmente nel centro storico. Andrebbero così programmati dei parcheggi di scambio per le merci, da dove poi smistare i prodotti con veicoli più piccoli e meno inquinanti (a Padova, sono già in atto sperimentazioni in questo senso con veicoli alimentati a metano su cui trasbordare le merci).
Parcheggi periferici per bus navetta di collegamento tra la periferia e il centro delle città.


Quali per le auto?

Di fronte al rincaro dei carburanti, il genio nascosto nell’italiano medio (che sa declinare a meraviglia l’arte di arrangiarsi) è partito alla scoperta dei carburanti alternativi. Improvvisamente gli scaffali degli oli di semi negli hard discount si svuotavano e le taniche di olio di colza negli ipermercati sparivano. Ma cosa c’è di vero?
Carburanti a basse emissioni. Le biomasse potrebbero massicciamente sostituire nei prossimi anni i combustibili fossili per fornire energia: lo afferma l’OCSE (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) in un rapporto recentemente presentato a Parigi. Nel documento si sostiene che in un periodo di instabilità dei prezzi petroliferi, i costi dell’energia prodotta a partire da scorie animali e vegetali potrebbero diventare più competitivi e si sollecita la costruzione di bioraffinerie in grado di utilizzare non solo i cereali, oleaginose e zucchero, ma anche riciclare vari sottoprodotti dell’agricoltura. Nel rapporto si sottolinea anche che per utilizzare il bioetanolo (prodotto ricavato da zuccheri e cereali) sono sufficienti “leggere modifiche” dei motori attuali (F. Ghini, 2004). Secondo alcuni esperti molto dipende dal motore della vettura e dalla qualità della componentistica, come la pompa del carburante: i meccanici più esperti asseriscono che le pompe Bosch e Marelli non hanno difficoltà a lavorare con l’olio di semi al posto del gasolio. Inoltre i motori meno raffinati e di minori esigenze, con tolleranze più comode, digeriscono senza fatica l’olio di colza. Però per i lunghi chilometraggi, per chi sta attento al motore, per le automobili più esigenti e quando c’è freddo ci può essere un’usura eccessiva del motore e si possono formare incrostazioni cerose (J. Giliberto, 2005). Per l’ambiente il risultato è sicuro (ma sarà veramente così?): meno inquinamento da particolato nelle città, meno anidride carbonica. Solo fragranze leggere e persistenti di frittura mista (se i veicoli sono alimentati a olio di semi al posto del gasolio) oppure odor di grappa ai semafori (se al posto della benzina si usa alcol).
Ma entriamo nel dettaglio dei diversi carburanti alternativi al petrolio:
Alcol. Ottenuto da fermentazione o per sintesi chimica, ha un numero di ottano più alto della benzina. L’alcol a 100° può essere usato puro o miscelato con la benzina. In miscela fino al 30% non serve alcun aggiustamento al motore. Il denaturato (95°) contiene il 5% di acqua che non consente la miscelazione con la benzina e può essere usato solo puro. In caso di guasto, in genere in Italia non viene riconosciuta la garanzia.
Oli. Gli oli (di vinaccioli, colza, girasole, semi vari) possono essere usati in sostituzione del gasolio o in miscela, ma tendono a formare depositi di glicerine e altri composti. In caso di guasto, in genere in Italia non viene riconosciuta la garanzia.
Biodiesel. È un combustibile ottenuto con un semplice processo chimico di esterificazione degli oli di semi (di solito colza o girasole) che toglie la glicerina e gli altri composti pericolosi per il motore. È un carburante riconosciuto e in caso di guasto la garanzia è valida. È privo di zolfo e di idrocarburi aromatici e ha ridotte emissioni di percolato. Il principale ostacolo alla sua diffusione è dato dal fatto che sono necessarie enormi colture per produrne su scala industriale (1 ettaro per ogni tonnellata di biodiesel). Un progetto ideato dalla Coldiretti di Rieti punta a lanciare in questa provincia l’utilizzo del biodiesel, carburante derivato da oli vegetali di girasole e colza, biodegradabile fino all’89% e utilizzabile in autotrazione e come combustibile per riscaldamento. Un anno fa la Germania, con il plauso di Bruxelles, ha tolto ogni tassa petrolifera sul gasolio vegetale. La Francia ha incrementato di 1/3 il contingente agevolato. Gli USA hanno varato un piano federale di incentivi alla produzione. In tutta risposta l’Italia – piena di smog e senza petrolio – con l’articolo 527 della Finanziaria ha scelto di punire se stessa: al contrario del resto d’Europa, il Fisco italiano ha ridotto quest’anno da 300 mila ad appena 200 mila tonnellate (già esaurite!) la produzione nazionale esentasse.
Gecam. Il Gecam (detto “gasolio bianco” per la particolare colorazione simile al latte e per l’elevata ecocompatibilità) è un’emulsione di gasolio in acqua. Riduce le emissioni del 40% e può essere utilizzato da qualsiasi motore diesel, ma non è adatto per motori spinti.
Gpl. L’uso diffuso del Gpl per gli autoveicoli potrebbe portare a enormi risparmi nei costi sociali del nostro paese. Già oggi circolano in Italia circa 1,1 milioni di auto a Gpl. Secondo uno studio di Euromobility, patrocinato dal Ministero dell’Ambiente, il costo sociale dell’inquinamento atmosferico (circa l’1,7% del prodotto interno lordo) con una riduzione delle emissioni del 2% circa si ridurrebbe di 400 milioni di euro. Ma con la sostituzione dei veicoli diesel con veicoli Gpl i miglioramenti sarebbero ancora più rilevanti.
Metano. Altro combustibile “pulito” che però sconta una diffusione rarefatta a livello nazionale (circa 470 distributori in tutta Italia, con una netta prevalenza al Centro-Nord). Malgrado ciò sono circa 400 mila le auto alimentate a metano in Italia. Molte case automobilistiche hanno a listino modelli alimentati a benzina-metano o solo metano e quasi tutte le auto lo possono usare con piccole modifiche.
Nuovi motori. Già dal 2001 è in vigore lo standard Euro3, più restrittivo rispetto all’Euro1 (la normativa che impose di fatto l’adozione del catalizzatore) e alla sua evoluzione Euro2, mentre dal 1° gennaio 2006 lo standard di riferimento sarà costituito dalla normativa Euro4, lo standard europeo più restrittivo in termini di emissioni inquinanti (secondo alcune stime, in Italia sono già 1,5 milioni le auto circolanti in regola con questi nuovi limiti).
Filtri per il particolato. Sono stati sviluppati filtri che consentono ai vecchi autobus (a benzina e diesel) di abbattere l’emissione delle polveri ultrasottili. Sperimentazioni avviate tre anni fa a Ferrara hanno prodotto un dispositivo in cui i gas di scarico vengono avviati a un apparecchio scambiatore che li raffredda, prima di passare per il filtro, fatto di carta speciale, che assorbe le polveri ultrasottili e gli idrocarburi aromatici più pericolosi per l’organismo. Anche Roma sperimenterà l’uso di questi filtri su 100 autobus.
Auto e ciclomotori elettrici (emissioni zero). Forse non tutti sanno che l’Italia, con circa 100.000 mezzi in circolazione, è il paese con il maggior numero di veicoli elettrici in Europa! Silenziosi, parzialmente riciclabili, non inquinanti, decine di chilometri di autonomia, tempi per la ricarica accettabili, batterie con periodi di vita di oltre 10 anni. Sono oramai in commercio auto “ibride” (dotate di un motore a benzina combinato con un motore elettrico alimentato da batterie che si autoricaricano durante la “marcia a benzina”) con consumi simili ad un diesel, prestazioni eccellenti e costi di gestione da “city car” (20 km/l in città). Un’auto così evita di immettere nell’atmosfera più di 100 grammi di anidride carbonica a km, fa meno rumore e il 90% dei suoi componenti sono riciclabili. Certo, il costo è ancora elevato (circa 23.000 euro)… Un taxi elettrico, secondo dati del Comune di Roma, consente di ridurre i costi di gestione e di manutenzione rispetto ad un auto tradizionale. Sono previste anche facilitazioni per quel che riguarda il leasing rispetto ad un taxi tradizionale. Purtroppo il costo per l’acquisto di un taxi elettrico è di circa 59 mila euro (Iva esclusa), circa 40 mila in più di un analogo modello tradizionale. Ma grazie ai contributi del Ministero dell’Ambiente e a quelli regionali, i costi tra i due tipi di taxi sono praticamente equivalenti.
Biciclette a pedalata assistita. Oltre ai modelli tradizionali arriva anche la bicicletta a idrogeno che utilizza la tecnologia fuel-cell e al posto delle emissioni inquinanti produce solo piccole gocce d’acqua. Si chiama Cameleo Fuel Cell ed è una bicicletta elettrica a pedalata assistita, in grado di produrre il 70% dell’energia necessaria per il movimento, su cui è stata montata una cella combustibile a idrogeno: la bici è capace di percorrere un centinaio di km con un pieno di idrogeno. Il prodotto di scarto del motore altro non è se non vapore acqueo. Prezzo previsto: intorno ai 3000 euro.
Autobus a basso impatto ambientale. I bus incidono in minima parte sull’inquinamento atmosferico urbano per due motivi: hanno un livello molto basso di consumo di energia per passeggero/chilometro e il loro numero è limitatissimo (su oltre 43 milioni di veicoli circolanti in Italia, solo 35 mila sono bus adibiti al trasporto pubblico locale: a Roma ci sono 2 milioni di auto e 2000 bus). Secondo l’UITP, per quanto riguarda il PM10 l’incidenza del trasporto pubblico è del 7,7%; per il CO2 del 5%; per il monossido di carbonio l’8% (G. Pogliotti, 2005). Con l’acquisto di 470 autobus urbani alimentati a metano, la città di Roma ha avviato il proprio programma di rinnovamento del trasporto pubblico: il Comune prevede di arrivare a 800 mezzi a gas in 4 anni, di destinare 1/3 della flotta al trasporto elettrico (bus, tram e filobus) e il restante terzo ad autobus equipaggiati con motori diesel Euro4 ed Euro5. Intanto, dal 25 febbraio è in circolazione per il Lazio il primo autobus ad idrogeno del Cotral (azienda pubblica per il trasporto extraurbano regionale).

 

Quali per gli esseri umani?

Oggi la tecnologia dell’informazione rende accessibili sistemi di mobilità flessibile, fondati sulla condivisione del mezzo (car-sharing, taxi collettivo, trasporto a domanda; ma soprattutto trasporto pubblico di superficie su strade liberate dal traffico privato) per spostarci in città, ma anche fuori, in vacanza. Sistemi che sono più economici, più comodi, più veloci, più sani dell’automobile privata: sia per noi che per l’ambiente. E, soprattutto, sistemi che restituiscono la città, oggi sotto sequestro da parte delle auto, agli umani, alla socialità estemporanea e all’incontro con chi è diverso da noi e che, chiusi nella nostra scatola di latta, non incontreremo mai, se non come lavavetri (G. Viale, 2005). In effetti secondo alcuni dati l’80% delle vetture presenti in una città, viaggia per non più di un’ora al giorno, trasportando in media 1,2 persone. Quanto alla velocità di crociera, quella media del traffico di Roma è di 18 km l’ora, che cala a 15 nell’area centrale, e tocca punte di parossistica lentezza (5 km/h) nell’ora di punta serale in molti quartieri romani (A. Mattone, 2002). Per il resto della giornata, le macchine stanno ferme (nei garage, nei parcheggi a pagamento… o sui marciapiedi) (G. Jacomella, 2005).
Orari differenziati. Per il momento interessano solo le scuole. Ma potrebbero essere estesi a fabbriche e uffici. In Italia capofila dell’iniziativa è Milano, che ha disposto lo slittamento dell’inizio delle lezioni nelle scuole medie e superiori alle 10 del mattino.
Car sharing. A Roma, presso il terzo Municipio, ha preso il via un esperimento di car sharing, il servizio di mobilità flessibile al trasporto pubblico locale e alternativo all’auto privata. Il servizio consentirà agli utenti di condividere una flotta di automobili pagandone solo l’uso effettivo, con un “tot” all’ora e a chilometro (ma con il vantaggio, non trascurabile, di non dover pagare il bollo, l’assicurazione e il carburante e di avere ben 7 parcheggi assicurati). In Italia il car sharing, arrivato nel 2000, è diffuso in 6 città (Bologna, Venezia, Torino, Rimini, Modena e Genova), ha circa 3000 iscritti e circa 140 automobili che godono del privilegio di avere accesso alle zone a traffico limitato, parcheggi gratuiti, accesso libero alle corsie preferenziali e alle vie riservate ai mezzi pubblici. Secondo alcuni calcoli, chi in auto fa meno di 12 mila km l’anno, con il car sharing risparmia migliaia di euro e, visto l’andazzo, ne guadagna in qualità della vita.
Car pooling. Un’altra strategia per ridurre il traffico è il car pooling: ci si accorda con i vicini o colleghi che percorrono le stesse strade in orari compatibili, per usare insieme un’unica vettura.
Telelavoro. Ancora di più il telelavoro potrebbe consentire a città basate essenzialmente sul settore terziario, sui servizi e sulla pubblica amministrazione (pensiamo a Roma) di eliminare il flusso di pendolari che potrebbero tranquillamente lavorare da casa, risparmiando soldi e tempo e migliorando la propria qualità di vita (oltre a quella dei cittadini “indigeni”).


Quali per le leggi?

Lo smog “affascina e intorpidisce”. Non conosciamo con esattezza la composizione chimica della melma che respiriamo al posto dell’aria. Neppure sappiamo valutare tutti gli effetti sulla salute umana. Sappiamo però da molti anni che oltre un certo limite non possiamo permetterci di respirarla. Nel 2008 il limite diventerà ancora più ristretto. Assisteremo allora a invenzioni ancor più strampalate di quelle escogitate in questi anni. Stratagemmi inutili e dannosi. Prese in giro clamorose. Dalle targhe pari nei giorni dispari alle auto scure nei giorni chiari. E viceversa. (P.L. Cervellati, 2005).
C’è chi dice che l’Unione europea fissa limiti esagerati e una volta si respirava peggio, tanto che in piazza Duomo a Milano nel dicembre ‘71, prima che si mettessero del tutto in riga fabbriche, stufe a carbone e vecchie marmitte, si misurarono in media 410 microgrammi di pulviscolo (con punte oltre i mille) al cui confronto i 50 microgrammi di PM10, tollerati oggi non più di 35 giorni l’anno e già da molti superati, sembrano sbuffi di sigaretta. È vero. Non c’erano allora gli studi dell’OMS sulle polveri fini che uccidono nelle prime otto città italiane 10 persone al giorno e causano 31 mila casi di bronchite nei bambini l’anno, ma è vero: era peggio (G.A. Stella, 2005). E allora?
Qualcuno potrebbe pensare che basti tappare i tubi di scarico delle macchine… oppure dotarli di un filtro, in tutto simile agli aspirapolvere con filtro ad acqua, per ottenere un ragionevole abbattimento degli inquinanti… alla fonte. C’è chi consiglia di fissare un giorno a settimana in cui tutta la popolazione si concentri ad invocare, anche con adeguate danze propiziatorie, l’arrivo della pioggia e del vento in grado di ripulire l’aria e di diluire le concentrazioni delle polveri nell’aria urbana. Anche un blocco del respiro, dalle ore 15 alle 18, a giorni alterni potrebbe contribuire a questo scopo…
Una via più “praticabile” potrebbe essere quella di non dotarsi di centraline di monitoraggio. Molti capoluoghi di provincia ne sono attualmente sprovviste (secondo Legambiente, il 30% delle città medio-piccole capoluogo di provincia non ha centraline per misurare il PM10). Quanto ai comuni poi… non si può pretendere che mettano una centralina per ognuno degli oltre 8100 comuni italiani. Anche perché costano almeno 250 mila euro l’una e ne servono 30.000 all’anno per la manutenzione. Dunque meglio non averle. Del resto si sa: “chi cerca, trova”. Quindi… se non vuoi trovare dati spiacevoli, non cercarli! Un’altra strada potrebbe essere rimuovere le centraline e spostarle in aree meno esposte all’inquinamento: si limiterebbero così i picchi più alti a beneficio della media (statistica) dei dati di sforamento. Il Ministro dell’Ambiente suggerisce che andrebbero posizionate in maniera più corretta: «Spesso vengono piazzate vicino ai semafori o alle fermate degli autobus, dove le auto sono sempre ferme in coda. E così i valori finiscono per essere più alti rispetto a quelli reali». In alcuni casi l’aria viene ancora prelevata all’altezza dei tubi di scappamento e non ad altezza d’uomo, dove la concentrazione delle polveri è più bassa e da dove effettivamente entra nei nostri polmoni (L. Salvia, 2005)… Sic. Oppure si potrebbero innalzare le soglie stabilite dalla legge. Come si ricorderà per l’inquinamento di atrazina di molti pozzi italiani, il Ministero della Sanità di allora pensò bene di modificare i limiti imposti dalla legge, rendendo così potabili le acque inquinate. Un miracolo dell’ingegno italiano!
Forse sarebbe più serio varare un piano di incentivi su larga scala che invogli utenti pubblici e privati ad acquistare un mezzo a basso impatto ambientale. Fino a 30 anni fa, nell’industria, i veicoli per la movimentazione delle merci erano dotati esclusivamente di motori termici. Ora il 99,5% è rappresentato da carrelli elettrici. Tutto questo è stato possibile perché c’è stata una legge che ne ha reso obbligatorio l’acquisto (oggi lo Stato contribuisce per il 60% all’acquisto di veicoli ecologici da parte degli enti pubblici, invece di obbligarli).


Concludendo…

Ma, al di là delle leggi che, come sappiamo bene, si possono applicare (per i “nemici”), interpretare (per gli “amici”) o gabbare (alla faccia di “tutti”… i divieti), resta il fatto che forse c’è qualcosa da rivedere nel nostro modo di vivere, che richiede un nuovo orientamento negli stili di produzione e consumo e di abitudini di vita. Il problema smog, come abbiamo visto, è solo un “sintomo” di una malattia più complessa del nostro vivere e non può essere lasciato solo alle decisioni dei politici, specialmente in questi tempi di elezioni.
Spesso si parla di mancanza di “volontà politica” per giustificare i ritardi nell’affrontare i grandi problemi di questo mondo (guerre, povertà, fame, malattie, ecc.). L’invivibilità delle nostre città è uno di questi: ma perché a questo malessere generalizzato non corrisponde un’assunzione di responsabilità personale da parte di ogni cittadino? Se i singoli iniziano a trovare strade diverse, è possibile che la situazioni migliori, a poco a poco e con lo sforzo di tutti.
L’alternativa è la rassegnazione di fronte alle targhe alterne, al blocco totale della circolazione. La prima cosa da combattere è la rassegnazione. Di fronte a questo impalpabile disastro ecologico che è l’inquinamento nelle grandi città, nessuno è innocente. Tutti (esclusi i bambini) hanno la loro parte di responsabilità. A partire dalle amministrazioni, certo, ma nessun comune cittadino può invocare l’assoluzione per non aver commesso il fatto. L’inquinamento ci riguarda tutti. E più di noi, riguarda i nostri figli. La battaglia contro lo smog si vince o si perde tutti insieme. Forse è giunta l’ora in cui i cittadini debbono smetterla di chiedersi cosa fanno i politici contro lo smog, e chiedersi invece cosa fanno loro per avere un’aria migliore. (M. Fortuna, 2005).
Un’organizzazione migliore del nostro spazio, del nostro tempo è possibile, ne siamo convinti. Le tecnologie utili ci sono e sono fatte per darci maggiore libertà: per liberare tempo (quanto tempo perdiamo nelle code e a cercare parcheggio?), per liberare spazi (per il gioco, per il verde, per il passeggiare, per le biciclette), per liberare denaro (i costi privati e sociali dell’auto sono pesantissimi), per liberare la nostra socialità (altrimenti relegata in una realtà virtuale).
In fondo anche l’automobile è stata creata per darci più libertà: purtroppo, oggi, dobbiamo constatare che ne siamo divenuti “schiavi”.


Bibliografia

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Bonelli A. (2004): Più soldi per respirare. Modus Vivendi, dicembre 2004
Cantani A.(2005): Textbook of Pediatric Allergy, Asthma and Immunology. Citato in: Corriere della Sera, 11 marzo 2005, pg. 56
Cervellati P.L. (2005): Le città immolate. La Repubblica, 15 febbraio 2005
Croce A. (2005): Il pedaggio per i centri storici. Il Sole-24Ore, 22 marzo 2005
Fiorentino F. (2002): Polveri e benzene sempre oltre i limiti. Corriere della Sera, 28 dicembre 2002
Fortuna M. (2005): Un passo in più. Corriere della Sera, 15 gennaio 2005
Garrone L. (2005): Smog…ultima trincea. Corriere della Sera, 14 marzo 2005
Gasperetti M. (2004): Smog, oltre 2000 morti l’anno”. Corriere della Sera, 14 dicembre 2004
Ghini F. (2004) : Le biomasse come alternativa all’oro nero. Lazio Informazione, n. 30 Novembre - Dicembre 2004.
Giliberto J. (2005): Olio di semi al posto del gasolio. Il Sole-24Ore, 18 marzo 2005
Giliberto J. (2005a): Assolta la benzina, la colpa è del gasolio. Il Sole-24Ore, 15 febbraio 2005
Jacomella G. (2005): La ricetta? Corsia per chi non è solo. Corriere della Sera, 17 gennaio 2005
Mattone A. (2002): SOS traffico, un’auto per abitante. La Repubblica, 19 novembre 2002
Pogliotti G. (2005): Tagliati i fondi per gli eco-autobus. Il Sole-24Ore, 16 marzo 2005
Pogliotti G. (2005a): In arrivo gli eco-incentivi. Il Sole-24Ore, 15 febbraio 2005
Porqueddu M. (2003): Benzene e polveri sottili, città assediate. Corriere della Sera, 22 gennaio 2003
Pratesi F. (2005): Non solo sabbia. Corriere della Sera, 2 marzo 2005, pg 49
Pratesi F. (2005a): Non basta l’aspirina. Corriere della Sera, 10 febbraio 2005
Salvia L. (2005): “Smog, i sindaci si preparino al blocco totale”. Corriere della Sera, 9 febbraio 2005
Stella G.A. (2005): Il coraggio o lo smog. Corriere della Sera, 12 febbraio 2005
Valentini G. (2005): Pedaggi e più mezzi pubblici: solo così si salveranno le città. La Repubblica, 18 febbraio 2005
Viale G. (2005): L’addio alle auto forse ci salverà. La Repubblica, 15 febbraio 2005

 

POLVERI TOSSICHE

Polveri sottili (PM10): sono un insieme eterogeneo di particelle microscopiche solide e liquide (come carbonio, ferro e materiali organici) sospese nell’aria (le PM10 hanno un diametro inferiore a 1/100 di millimetro), capaci di entrare nel corpo umano attraverso il sistema respiratorio (possono raggiungere i bronchi e gli alveoli polmonari) rilasciando sostanze tossiche che irritano le vie respiratorie, alterano il sistema immunitario e incrementano le allergie.
Il 70% delle polveri sottili è prodotto dal traffico. Un altro 10-15%, nei mesi invernali, deriva dagli impianti di riscaldamento delle case. Le restanti particelle hanno origini naturali (ad esempio, sabbia dei deserti africani portata dal vento).
La normativa europea stabilisce che non devono superare il valore medio di 40 mg/metro3/anno e i 50 mg/metro3 di media giornaliera per più di 35 giorni l’anno.
A seconda del tipo di veicolo il quantitativo di PM10 varia:
• auto a benzina: 0,8 milligrammi di PM10 emessi per ogni chilometro percorso (siano motori Euro 1, Euro 2, Euro 3 oppure Euro 4);
• auto a gasolio: 30 milligrammi di PM10 emessi per ogni chilometro percorso (se motori Euro 4. Nel caso venga applicato un ulteriore filtro per il post-trattamento dei fumi, i milligrammi scendono a 10). Il dato sale a 48 per i diesel Euro 3, a 66 per quelli Euro 1 e 2, e a 195 nei motori Euro 0.
Oltre alle PM10 prodotte dai tubi di scappamento, le auto (siano a benzina o a gasolio) emettono 18 milligrammi di polveri sottili per ogni km percorso a causa dell’usura dei freni, della frizione, delle gomme e dell’asfalto.

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LA SCUOLA CHE VERRA'

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Viaggio intorno a Gaia alla ricerca di una nuova umanità del sapere

Premessa

Le immagini dell'ultima missione spaziale dello Shuttle ci mostrano sullo sfondo della vicenda umana di John Glenn le immagini di un pianeta affascinante, una sfera di cobalto circondata da un aura soffusa, qua e là solcata da vortici di nubi che lasciano intravedere continenti insoliti, visti in una proiezione nuova, fuori dagli schemi delle vecchie, polverose carte geografiche appese ai muri della scuola…
Già, la scuola! Come appare distante da questa prospettiva così insolita, da questa sfera così dinamica da sembrare viva…
Gaia, un nome gioioso per un pianeta ancora piuttosto sconosciuto agli scienziati, per una Natura talvolta crudele "matrigna", capace di spazzar via con i suoi uragani un'umanità talvolta talmente presuntuosa da credere di poterla violentare impunemente.
I conti non tornano: quote di inquinamento da mercanteggiare nei grandi convegni internazionali forse non serviranno a quietare le coscienze non più immacolate di coloro chiamati a scelte più grandi di loro, decisioni che si appellano anche agli interessi di generazioni senza volto chiamate un giorno a popolare quei piccoli lembi di terra là sotto, persi nel blu di oceani misteriosi…
Un oceano misterioso che circonda anche i "fortunati"che, lasciati i giochi e le sicurezze della famiglia, entrano nel mondo della scuola per prepararsi ai grandi appuntamenti iniziatici che scandiscono la loro entrata in società sempre più aliene da quel mondo fatto di ripetizione e compiti a memoria.
Entrarci servirà a chiarire dubbi ed incertezze, a "ex-ducere", a tirar fuori il genio che è in ognuno di quei cervelli così plastici e pieni di energia o servirà piuttosto a spegnere ogni curiosità, ad frustrare qualsiasi originalità, a distruggere la diversità di cui ognuno è portatore, alla faccia dei trattati che a parole la difendono a livello biologico?
Basterà studiare la Terra per capire il mondo che abbiamo dentro di noi, dalla cui espressione dipenderà il mondo che avremo fuori? Quali nuove "terre" dovremo scoprire per prime ? Quelle lontane che patinati documentari ci mostrano nei comodi salotti di casa nostra o quelle altrettanto misteriose e affascinanti che sogni e sensazioni ci fanno intravedere nei meandri delle nostre menti?
Sarà più facile prevedere il moto del nostro in fondo giovane pianeta nel suo vagare ordinato negli spazi interstellari o azzardare previsioni sul destino ultimo della ultima riforma del nostro vetusto sistema scolastico?
E' con questi interrogativi che il convegno "Eco-saperi per il futuro. Riforma della scuola e nuovi percorsi formativi per uno sviluppo sostenibile" (promosso dai Verdi per discutere dei "saperi" fondamentali del Terzo Millennio) si è confrontato valendosi anche delle esperienze maturate in altri Paesi europei sul comune impegno di traghettare la scuola verso il passaggio di fine secolo.
La domanda che attraversava il convegno era: "Quali percorsi di scoperta, quali aggiornamenti disciplinari, quali intrecci di saperi bisogna offrire ai giovani italiani, e non solo italiani, del XXI secolo?".
La prima e la seconda sessione del Convegno hanno cercato di offrire un quadro dello "stato dell'arte" educativa-ambientale in Italia e in Europa mentre la prospettiva della terza sessione che ha ruotato intorno alla conoscenza del nostro pianeta, alla comprensione degli elementi naturali e alla difesa degli equilibri ambientali, questioni che suscitano un amplissimo arco di riflessioni etiche, filosofiche, epistemologiche, scientifiche, economiche, religiose.

Istruzione o Educazione?

Domanda: a che serve la scuola?
Risposte: per dare una cultura? Per dare una coscienza? O forse, più prosaicamente, per dare un lavoro?
I gravi problemi di disoccupazione che tutti i Paesi attraversano pongono in discussione anche il ruolo che il titolo di studio acquisito può avere nel facilitare l'ingresso nel mondo del lavoro.
La globalizzazione dei mercati spinge sempre più i paesi industrializzati ad interrogarsi sull'efficacia delle politiche atte a "migliorare la produttività attraverso l'istruzione" (OCSE, 1997).
L'ottica di questa Organizzazione internazionale è fortemente orientata allo sviluppo economico e occupazionale dei Paesi membri ed è quindi evidente che l'attenzione è principalmente volta al confronto dei sistemi educativi soprattutto sotto il profilo delle risorse umane e finanziarie investite nell'istruzione e sui ritorni di questi investimenti.
Che cos'è l'istruzione per l'OCSE? E' "un investimento nelle capacità umane che può aiutare la promozione della crescita economica e l'aumento della produttività, può contribuire allo sviluppo sociale e personale, rappresentando un investimento che ha la potenzialità di ridurre le disparità sociali."
Malgrado il fatto che i 41 indicatori dell'ultima edizione della pubblicazione dell'OCSE trovino l'accordo degli esperti sul modo di misurare lo stato attuale dell'istruzione su scala internazionale si evidenzia come essi non spieghino le differenze significative tra scuole operanti in condizioni socio-economiche simili: il fattore umano (insegnanti motivati, studenti messi in condizione di sviluppare le loro doti, direttori didattici e presidi con il coraggio dell'innovazione, una guida entusiastica e creativa nella metodologia didattica, un clima scolastico e sociale in grado di favorire la cooperazione e l'apprendimento) gioca un ruolo centrale e spiega il perchè alcune scuole raggiungono livelli più alti rispetto ad altre.
Lo scenario europeo verso il quale i vari Paesi che aderiscono all'Unione guardano (si spera non solo per mettere al sicuro le loro economie sotto il grande ombrello comunitario dell'Euro, la moneta unica europea) prefigura grandi trasformazioni non solo economiche ma culturali e quindi educative.
Restano quindi quanto mai attuali i due rapporti (pubblicati nel 1996 da parte dell'UNESCO e dalla Commissione europea) che delineano gli scenari dell'educazione per il prossimo secolo e che, seppur con prospettive diverse, ne evidenziano l'importanza per l'uomo del domani.
Nel rapporto dell'UNESCO il concetto centrale che viene più volte ribadito è quello di una "educazione nel corso di tutta la vita": educazione quindi vista non più come momento separato da altri momenti della vita dell'uomo (lavoro, tempo libero, pensionamento) ma come presa di coscienza del continuum della vita.
L'ottica mondiale in cui si muove l'UNESCO (e in particolare la Commissione internazionale sull'educazione per il XXI secolo, che ha redatto il rapporto) si è spesso scontrata con i localismi e le frammentazioni culturali dei vari paesi, con tutte le difficoltà che comporta la presenza di situazioni, concezioni dell'educazione e modalità di organizzazione del sistema educativo estremamente diversificate tra una nazione e l'altra e spesso anche all'interno di ognuna di queste.
Su cosa si fonda quindi l'educazione per l'UNESCO? Essenzialmente su quattro pilastri:
-) imparare a conoscere, cioè sviluppare le capacità di apprendimento insite in ognuno di noi;
-) imparare a fare, che non è solo acquisire teoria ma saperla coniugare con una pratica reale;
-) imparare a essere, forse l'obiettivo più difficile: scoprire la dignità che è in noi, la consapevolezza del valore della propria unicità;
-) imparare a vivere insieme, affermando insieme "il diritto alla differenza e l'apertura sull'universale, sulla base sulla solidarietà intellettuale e morale dell'umanità". 

Il passaggio da una visione così globale ("utopica, forse - dice Jacques Delors, presidente della Commissione che ha stilato questo documento - ma necessaria: un'utopia vitale") alla realtà locale, riporta quasi inevitabilmente il discorso ai legami tra formazione ed occupazione.
Il Libro bianco della Commissione europea "Insegnare e apprendere - Verso una società conoscitiva" si apre con questo interrogativo: come favorire l'adattamento del giovane europeo alle variabili condizioni di accesso all'occupazione e all'evoluzione del lavoro?
La risposta secondo la Commissione sta nella valorizzazione dell'istruzione e della formazione acquisite all'interno del sistema d'istruzione tradizionale (la scuola), dell'impresa o in maniera più informale. L'enfasi data a questa "società conoscitiva" non dimentica (per fortuna!) che questa "dovrà essere anche una società di giustizia e di progresso, fondata sulla propria ricchezza e diversità culturale" sebbene ci sembri che la prospettiva per le nuove generazioni si limiti ad un doversi adattare al processo di evoluzione della società caratterizzato da tre capisaldi trainanti:
-) la società dell'informazione;
-) la mondializzazione dell'economia;
-) la civiltà scientifica e tecnica.
Secondo il Libro bianco le risposte a questa situazione (e, guarda caso, alla domanda che inizialmente ci eravamo posti: "A che serve la scuola?") sono:
a) accedere alla cultura generale;
b) lo sviluppo dell'attitudine al lavoro;
c) lo sviluppo personale.
Nel Rapporto si ribadisce in più punti che "la posizione di ciascuno nello spazio del sapere e della competenza sarà decisiva per la propria vita e per quella della comunità d'appartenenza" : tutto ciò comporterà per la scuola una serie di cambiamenti per potersi collocare in questo "spazio" sempre più occupato da altre agenzie di formazione e di saperi informali (televisione, computer, internet, mondo del consumo).

 


Riforma dei saperi e controriforma dei cattedratici

Di fronte all'evoluzione economica, sociale e culturale in atto la scuola deve rinnovare finalità, contenuti e metodologie: un compito enorme che opportunamente deve nascere da un dibattito il più ampio possibile ma poi deve concretizzarsi in un progetto che, per quanto articolato, non perda di vista il generale.
A livello nazionale il Ministro della Pubblica Istruzione, Luigi Berlinguer, ha nominato una Commissione tecnico-scientifica con l'incarico di individuare "le conoscenze fondamentali su cui si baserà l'apprendimento dei giovani nella scuola italiana nei prossimi decenni", meglio conosciuta come "Commissione dei Saggi".
Tra metà gennaio e metà maggio 1997, la Commissione ha prodotto oltre 500 cartelle tra contributi individuali, verbali, documento comune, relazione di sintesi e relativi materiali preparatori (Commissione dei Saggi, 1997) producendo così una serie di documenti intorno ai quali si è aperto un intenso dibattito tra operatori scolastici e tra scuola e società.
Il passo successivo è stato l'avvio del cammino parlamentare per la definizione normativa del nuovo disegno complessivo del sistema scolastico italiano, cammino che certamente non sarà facile né breve, dati i conflitti ideologici che ancora caratterizzano il dibattito culturale su alcuni temi (parità tra scuola pubblica e privata, autonomia scolastica, prolungamento dell'obbligo scolastico e riordino dei cicli) e il rischio del "voto di scambio" (paventato, nel suo intervento al Convegno, dall'onorevole Nando Dalla Chiesa, membro della Commissione Cultura della Camera).
Come ogni altra grande riforma (si pensi alle difficoltà di dare pratica attuazione alla legge "Bassanini") il riordino di un intero sistema statuale innesca la difesa delle posizioni acquisite e delle mentalità che ne sono alla base.
La discussione sui saperi da considerare assolutamente irrinunciabili per ogni tipo, per ogni modello di scuola metterà in crisi l'attuale sistema educativo ed universitario ma questo sarà, probabilmente, il primo passo di una riforma più globale che interesserà tutto il sistema educativo europeo, ha affermato il prof. Roberto Maragliano, Coordinatore della Commissione istituita dal Ministro Berlinguer.
In particolare le resistenze più tenaci saranno quelle del mondo accademico, ancora fermo ad una visione del sapere strettamente compartimentato in discipline (qualcuno lo ha definito "feudalesimo del sapere"): un esempio lampante lo si può già intravedere nei provvedimenti attuativi delle Scuole di formazione dei docenti a livello universitario. Mentre i criteri per la formazione dei formatori promulgati a livello centrale dal Ministero erano caratterizzati da indirizzi di massima che in qualche maniera tenevano conto dell'esigenza di "non parcellizzare" il sapere, nel momento attuativo della strutturazione dei corsi a livello accademico si è assistito ad una rigida divisione in discipline, probabilmente più consona a soddisfare esigenze meno nobili, di "parcella"…


Luci ed ombre dei saperi verdi

Principio informatore del convegno era il richiamo al sapere intorno alla "casa" che tutti abitiamo: Gaia, il nostro pianeta.
Partendo dalle emergenze del pianeta e dalla necessità di rendere i sistemi formativi (attraverso una riorganizzazione dell'intero arco delle discipline scolastiche) in grado di preparare i giovani a capire e migliorare il mondo in trasformazione si può infatti aiutarli anche a vivere una cittadinanza piena, responsabile e attiva.
In campo educativo parlare di ecologia o di ambiente significa infatti sempre più evocare quel approccio interdisciplinare così difficile da realizzare ma conditio sine qua non per realizzare il fine dell'educazione: fornire strumenti e conoscenze per costruire a livello individuale il proprio progetto di vita nel rispetto di quello degli altri.
A livello nazionale la trasformazione dell'intero sistema scolastico che si profila (la maggiore dal 1923) potrebbe rappresentare l'occasione giusta per inserire i "nuovi saperi", tra cui quello ecologico che rappresenta uno dei paradigmi più ampi e stimolanti, nel bagaglio culturale delle nuove generazioni.
Il panorama europeo dell'educazione ambientale presentato durante la seconda sessione del Convegno - cui hanno partecipato il prof. David Hicks, del Bath College of Higher Education (GB), la prof.ssa Margit Leuthold, docente di Educazione ambientale presso l'Istituto di Scienze della Formazione dell'Università di Vienna, il prof. Claudio Longo dell'Università di Milano, il prof. Alberto Pardo, esperto del Ministero dell'Educazione spagnolo in educazione ambientale per l'Unione europea, e il prof. Christian Souchon, direttore del Gruppo di Didattica di Scienze sperimentali francese - evidenzia luci ed ombre.
Luci sono la presenza in questi Paesi di una diffusa coscienza dei problemi ambientali acquisita grazie anche al prezioso lavoro di base svolto dagli insegnanti della scuola primaria: in questa fase del percorso scolastico è possibile ancora inserire nel curriculum formativo dei bambini saperi "trasversali" (quali l'educazione ambientale, l'educazione alla sostenibilità, l'educazione alla pace, l'educazione al consumo, l'educazione alla cittadinanza, l'educazione al rischio, l'educazione allo spirito critico, l'educazione alla mondialità).
Ombre sono la mancanza della trattazione di queste stesse tematiche a livello di scuola secondaria e, successivamente, a livello universitario dovuto alla netta separazione disciplinare vigente a questi livelli scolastici e il complesso nodo della interdisciplinarità, per il cui approfondimento mancano fondi e volontà "politica" a livello accademico.
Un esempio positivo di quanto un approccio interdisciplinare possa fornire un paradigma stimolante per gli scienziati e capace di fornire valide spiegazioni a complessi fenomeni naturali che normalmente analizziamo utilizzando tuttalpiù la sommatoria di più discipline (dalla fisica alla climatologia, dalla chimica, alla biochimica, alla biologia, dall'ecologia all'oceanografia, alla geologia, dalla teoria dell'evoluzione alla nutrizione, all'agricoltura, all'economia e alla politica economica) è stato quello offertoci dall'interpretazione dell'aumento della concentrazione dell'anidride carbonica datoci dalla lezione magistrale del prof.Tyler Volk, docente di biologia alla New York University e autore del volume "Il corpo di Gaia".


Conclusioni

L'amplia e diversificata gamma dei nuovi saperi trova in realtà le sue radici in documenti storici piuttosto datati ma che esprimono ancora tutta la chiarezza programmatica di una umanità illuminata che intuiva con chiarezza il cammino da percorrere.
La Dichiarazione dell'ONU sull'ambiente umano (Stoccolma, 1972), la Carta di Bruges - Dichiarazione di principio sui problemi dell'ambiente del Consiglio dei Comuni d'Europa (Bruges, 1974), la Dichiarazione finale della Conferenza mondiale sull'Educazione ambientale di Tbilisi del 1977 (UNESCO/UNEP,1987a) e il Documento conclusivo del Congresso Internazionale sullo stesso argomento celebrato a Mosca dieci anni dopo (UNESCO/UNEP, 1987b) ponevano l'accento soprattutto sui valori e sulle finalità da raggiungere.


Bibliografia

UNESCO (1996): "L'education: un trésor est caché dedans", Odile Jacob, Paris.
Commissione europea (1996): "Insegnare e apprendere - Verso una società conoscitiva".
OCSE (1997): "Uno sguardo sull'educazione. Gli indicatori internazionali dell'istruzione".
OCSE (1998): "Esami delle politiche nazionali dell'istruzione. Italia", Armando Editore.
Commissione dei Saggi (1997): "Le conoscenze fondamentali per l'apprendimento dei giovani nella scuola italiana nei prossimi decenni", Rivista "Studi e Documenti degli Annali della Pubblica Istruzione", n. 78, Le Monnier. (Alla pubblicazione è allegato anche un dischetto contenente l'ipertesto)
UNESCO/UNEP (1987a): "Dichiarazione di Tbilisi" in "Connexion - Bulletin de l'education relative à l'environnement", vol. XIII, n. 3.
UNESCO/UNEP (1987b): "Documento conclusivo" in "Connexion - Bulletin de l'education relative à l'environnement", vol. XIII, n. 3

 

 

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