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LA SCOPERTA DELL’ACQUA CALDA

LA SCOPERTA DELL’ACQUA CALDA


Meriterebbe forse il premio Nobel quello sparuto gruppo di persone che crede ancora, nel nostro Paese, che l’energia solare possa dare il suo (per carità, modesto...) contributo ai bisogni dell’uomo!

Eppure già la crisi petrolifera degli anni ‘70, con il conseguente forte aumento del prezzo del petrolio greggio doveva farci riflettere: negli anni seguenti i Governi hanno gravato di tasse sempre crescenti i consumi dell’elettricità, la politica delle compagnie petrolifere ha riversato sul gasolio gli aumenti di prezzo maggiori e, dopo un breve periodo di prezzi bassi utilizzato per convincere gli utenti a collegarsi alla rete del gas, le aziende distributrici hanno aumentato il prezzo del metano portandolo quasi a livello di quello del gasolio.

Così oggi, nel budget familiare, la voce “energia” (nelle sue varie sottovoci: elettricità, gas metano e gasolio) erode ormai il 10-20% del reddito delle famiglie: negli ultimi quattro anni per le famiglie italiane il costo delle bollette elettriche è cresciuto del 30-40% mentre negli ultimi dieci anni la spesa per il metano o il gasolio da riscaldamento è più che raddoppiata (passando , per il primo, da Lit. 504/mc a Lit. 1066/mc e per il gasolio, dalle 600 lire al litro del 1986 alle 1424 lire del 1996).

Tutto ciò non è stato controbilanciato nè da massicce campagne informative su come risparmiare energia e contenere le spese, nè tantomeno da una effettiva introduzione di fonti energetiche rinnovabili: di fatto, il settore pubblico e le imprese private che avrebbero potuto fare qualcosa in questo senso hanno in larga parte disatteso le aspettative del cittadino (si pensi allo Stato che, salvo rare eccezioni, non ha rispettato, negli ultimi 6 anni, il vincolo dell’impiego del solare negli edifici pubblici od adibili ad uso pubblico imposto dalla legge n. 10/’91. E ciò soprattutto nel settore della produzione di acqua calda tramite pannelli solari: un sistema piuttosto semplice, dai costi ridotti e che non richiede materiali d’avanguardia o istallazioni complicate.

L’uso dell’energia solare per la produzione di acqua calda sanitaria, diffuso in tanti altri Paesi europei (ben meno dotati di caratteristiche climatiche favorevoli del nostro Paese) grazie ad opportune campagne di promozione pubblicitaria e di educazione scolastica (parlare di cultura del risparmio energetico e del consumo ecologico appare ancora una materia futuribile per la Scuola italiana) trova da noi disinteresse se non resistenze incomprensibili.

In Austria, Germania, Svizzera l’insolazione è ben minore che in Italia e per di più energia elettrica e gas costano meno che da noi: ma l’esigenza di riscaldare le abitazioni per 6/10 mesi l’anno le abitazioni rende assai pesanti le bollette enrgetiche delle famiglie che, come possono alleggerirne il peso risparmiando sui costi del riscaldamento dell’acqua sanitaria, lo fanno sfruttando l’energia solare.

Non dimentichiamo, infatti, che oltre al risparmio in denaro per il singolo (secondo alcuni studi una famiglia di 4 persone - che consuma circa 120-150 litri di acqua calda al giorno - con 2 o 3 metri quadri di pannelli solari potrebbe risparmiare sulle 600.000 lire all’anno, ammortizzando la spesa iniziale in 3-5 anni), i sistemi solari producono energia pulita e assolutamente non inquinante a vantaggio dell’ambiente e dell’intera collettività.

Se, per assurdo, in Italia si utilizzassero solo impianti solari per la produzione di acqua calda, potremmo spegnere milioni di caldaie e scaldabagni mediamente per nove mesi all’anno, risparmiando qualcosa come 21 miliardi di kW/h (l’equivalente di 4 o 5 centrali nucleari) senza contare che ogni famiglia eviterebbe di contribuire al tanto temuto “riscaldamento globale” con le sue 4 o 5 tonnellate di CO2 all’anno.

Senza pagare bollette... e ringraziando, ancora una volta, la nostra buona e generosa stella!

 

 

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L’INDUSTRIA DEL GAMBERO

L’INDUSTRIA DEL GAMBERO: UN “PASSO INDIETRO”

NEL RISPETTO DELLA NATURA E DELL’UOMO



I gamberetti vivono meglio di noi.

Hanno la corrente elettrica, noi no.

I gamberetti hanno acqua pulita, noi no.

I gamberetti hanno a disposizione grandi quantità di cibo,

noi soffriamo la fame”.

Pescatore delle Filippine


Ricordate la celebre interpretazione di Tom Hanks nel film “Forrest Gump”? Alla base delle sue fortune economiche, dopo la sfortunata avventura in Vietnam, fu la pesca “casuale” di un enorme banco di gamberetti. Quegli stessi gamberetti che rischiano ora di scatenare un ennesima guerra commerciale tra Washington e Hanoi per la decisione americana di imporre dazi altissimi contro i produttori asiatici (i pescatori di gamberi in Vietnam sono 3,5 milioni, vivono nelle campagne e dall’attività ricavano quasi tutti i mezzi di sussistenza), accusati di vendere a costi inferiori a quelli di mercato.

L’industria dei gamberetti è uno dei settori più redditizi del comparto ittico: enormi quantità di gamberetti vengono allevate nel Terzo mondo per essere spedite e consumate in Giappone, Europa e Stati Uniti. Nel 2001, secondo il World Watch Institute, oltre 4,2 milioni di tonnellate di gamberetti sono finite nei piatti dei consumatori dei paesi ricchi.

La Cina è la maggiore produttrice mondiale: nel 2000 ne ha pescati oltre 1,2 milioni di tonnellate (più del doppio rispetto a 10 anni prima e oltre 3 volte i suoi più diretti concorrenti: India, Thailandia - che è il maggiore esportatore mondiale - e Indonesia).

E proprio tra gli USA e molti Stati produttori è in atto la guerra commerciale di cui sopra che tra poco arriverà sul tavolo dell’Organizzazione Mondiale del Commercio: ci sono in ballo 3,5 miliardi di dollari di sole importazioni negli USA, i sei Paesi (Cina, Vietnam, Thailandia, India, Brasile ed Ecuador) che attualmente coprono il 74% delle importazioni statunitensi e milioni di persone, per lo più povere e poverissime, coinvolte in tutto il mondo nella produzione e nel commercio dei gamberetti.

Gravissimi sono anche i danni ecologici che questo tipo di sfruttamento delle risorse ittiche mondiali sta arrecando agli ecosistemi: gli allevamenti dei gamberetti, oltre a essere una delle industrie ittiche più lucrative sono anche tra le più devastanti al mondo in quanto utilizzano strumenti per la pesca che distruggono l’habitat sottomarino alla stregua dell’effetto delle ruspe nelle foreste tropicali, rastrellando e devastando tutto ciò che incontrano nel loro cammino.

Gamberetti: sapore di mare… dal gusto un po’ amaro

Le nostre abitudini alimentari si modificano molto rapidamente, da una distribuzione regionale, la moda di mangiar pesce ha portato prodotti ittici da tutto il mondo sulla nostra tavola. Il consumo di pesce in generale ed in particolare di gamberi non comporta però solo vantaggi, come un notevole apporto proteico con pochi grassi, bensì anche notevoli problemi ecologici, socio-economici e sanitari.

Non solo la mancanza dell'indicazione del luogo di origine e provenienza del prodotto è un elemento di preoccupazione per i consumatori, ma principalmente 3 tipi di problemi che dovrebbero far riflettere in relazione al consumo di pesce e di gamberetti:

  • i metodi di pesca in grandi quantità (pesca industriale) e l'allevamento intensivo;

  • i riflessi ecologici e sociali di tali sfruttamenti intensivi;

  • la contaminazione da residui chimici e di batteri e germi dei prodotti immessi sul mercato.

Metodi senza scrupoli nella pesca di gamberetti

Circa ¾ dei gamberetti presenti sul mercato vengono prelevati prevalentemente da natanti da pesca negli estuari, nelle baie e nelle piattaforme continentali.

Le quantità di pescato sono sempre minori, in contrapposizione ad impieghi sempre più massicci di flotte di pescherecci, che razziano il fondale marino con enormi reti a strascico. Le conseguenze di tale distruzione del fondale sono dapprima quasi invisibili, ma comportano la scomparsa o danni irreparabili ad importanti spazi ecologici - importanti anche per la riproduzione di pesci, molluschi, rettili, crostacei, ma anche di altri organismi, come il corallo e le piante acquatiche, solo successivamente avvertibili.
L'enorme pescato di pesci, tartarughe, piante marine e conchiglie (pescato accidentale) non viene utilizzato nelle pescherie di gamberetti e viene rigettato morto nell’oceano. Nelle regioni temperate il rapporto tra pescato accidentale e gamberetti è nell’ordine di 5 a 1, mentre nei tropici può raggiungere valori di 10 a 1 e oltre. Si ritiene che globalmente la pesca dei gamberetti sia responsabile di 1/3 del pescato accidentale del mondo ma soltanto del 2 % dei prodotti ittici mondiali.

Accordi internazionali per l'impiego di reti, le quali offrono al pescato accidentale una via d'uscita, vengono viste da molti pescatori solo come distorsioni del mercato. La concorrenza fra pescatori locali (pesca tradizionale) e grandi pescherie industriali è foriera di conflitti. I primi sono a ragione preoccupati per le loro aree di pesca, servono anche alla pesca industriale, ma non distruggono il fondale. Con le loro piccole reti essi pescano in genere solo gamberetti giovani, in quanto quelli più vecchi e quindi più grandi vivono a profondità maggiori. È anche per questa ragione che i pescatori tradizionali vendono il prodotto a prezzi minori.


La soluzione è nell'allevamento?

L'allevamento di pesci, crostacei, e piante acquatiche, definita come "acquacoltura" trae origine dalla cosiddetta "rivoluzione blu" avvenuta in tutto il mondo. Con questa forma di allevamento si mira a far fronte alle richieste del mercato, compensando contemporaneamente lo sfruttamento dei mari.
I problemi ecologici che ne derivano, sono però inquietanti. L'installazione di impianti di "acquacoltura" è la principale responsabile della distruzione di foreste di mangrovie, ambiente di crescita di molte specie ed importante biotopo contro l'erosione delle coste (quasi ¼ delle foreste di mangrovie tropicali ancora esistenti è stato distrutto negli ultimi vent’anni, per lo più per fare spazio agli allevamenti di gamberetti.
L'acquacoltura, di per sè una vecchia tecnica adottata nelle risaie, è divenuta dannosa in seguito al suo utilizzo intensivo (impiego di vari agenti chimici, fertilizzanti artificiali, salatura del terreno circostante), che è causa di numerosi danni all´ambiente. I bacini vengono in parte installati sulla costa. Per mantenere sani gli animali allevati, è necessario il ricambio giornaliero di 1/3 dell'acqua del bacino (costituita al 50% da acqua di mare ed al 50% da acqua dolce). Quando i gamberetti raggiungono dimensioni adatte allo smercio, i bacini vengono svuotati (e questo causa l'accumulo di sale e residui organici sul fondo). Dopo numerose raccolte, il letto del bacino rimane ricoperto da resti organici e chimici in tale quantità da costringere gli operatori all'abbandono del bacino ed alla realizzazione di un nuovo impianto altrove. Lasciando però, in tal modo, foreste di mangrovie completamente distrutte ed il terreno salato e carico di agenti chimici, la cui bonifica risulta molto costosa.

Risulta inevitabile che da questo sfondo scaturiscano anche problemi sociali e di violazione dei diritti umani. La concorrenza per il terreno, l'acqua potabile e la concorrenza per l'utilizzo di foreste di mangrovie (privatizzazione di strisce di terreno prima pubblico) alimentano problemi sociali tra la popolazione locale e le industrie del settore. L'acquacoltura intensiva necessita, infatti, di molto terreno e di molta acqua ma di relativamente poca manodopera, il che origina anche inevitabili ripercussioni sull’occupazione e conflitti con la popolazione locale (vedi riquadro) che spesso si traducono in confische di terreni, violente intimidazioni nei confronti dei pescatori locali e perfino omicidi.


La situazione riguardo qualità del prodotto ed igiene

Purtroppo, la possibilità di individuare la provenienza dei prodotti ittici non c'è ancora e tarderà sicuramente a venire. Questo riguarda anche i commercianti, i quali si devono affidare ai grossisti, i quali a loro volta si devono "affidare" al pesce. Una certificazione trasparente e soddisfacente dei prodotti di produzione internazionale (metodi di allevamento, di pesca e di conservazione) è fortemente auspicabile. I controlli nel settore della pesca si limitano troppo spesso a test sull'odore e sul sapore, finalizzati all'individuazione di eventuale pescato non fresco. Metalli pesanti, pesticidi ed antibiotici vengono invece cercati solo in occasione di controlli a campione, quando si hanno dei sospetti oppure dietro richiesta di qualche commerciante. Gli uffici competenti a livello comunitario hanno carenze di personale che impediscono loro di garantire un controllo efficace e soddisfacente. Indagini condotte su richiesta dei privati, hanno individuato diverse sostanze vietate nell'Unione Europea, che oscillano dal "preoccupante" al "sicuramente dannoso per la salute", come ad esempio il chloramphenicolo - pericoloso per l'uomo e proibito in EU - rinvenibile nei gamberetti King's Prawn.
Indagini condotte per conto di Ökotest (1997) hanno riscontrato considerevoli quantità di microrganismi (batteri e germi), sia nei prodotti freschi che in quelli confezionati. Conseguenze per l'uomo: possibilità di malessere, vomito, diarrea, febbre e di intossicazioni alimentari.

 

Cosa può fare il consumatore?

Al momento poco, purtroppo: si può informare presso il suo pescivendolo riguardo origine, metodi di pesca e di produzione. Quanto tali informazioni possano però essere attendibili e quindi rassicuranti, è alquanto dubbio.

Finchè le autorità competenti faranno poco o nulla per rendere le condizioni di produzione ecologicamente e socialmente sostenibili, il lusso del consumo di gamberetti rimane irresponsabile, e molte organizzazioni non governative invitano al boicottaggio: rinunciare al consumo di gamberetti - specialmente di quelli di provenienza dalle zone tropicali - finchè non verrà trovata un'alternativa sostenibile all'allevamento distruttivo.

Su questo fronte Banca Mondiale, FAO e associazioni ambientaliste stanno studiando possibili norme per la certificazione ambientale dell’acquacoltura, per sviluppare e promuovere sistemi che riducano drasticamente il pescato accidentale e per promuovere sistemi di allevamento ecocompatibili in grado di frenare la distruzione degli ambienti costieri consentendo alle popolazioni locali di vivere con dignità del proprio lavoro.



Bibliografia

World Watch Institute (2004): State of the World. Edizioni Ambiente.

R. Bongiorni (2004): Gamberi, una battaglia da 3,5 miliardi di dollari. Il Sole-24 ore n. 234, 25 agosto 2004, pg. 28

AA.VV. (2003): Bilancio Terra . Gli effetti ambientali dell’economia globalizzata. Edizioni Ambiente.

AA.VV. (1991): Salviamo la Terra. Editoriale Giorgio Mondatori.

J. R. McNeill (2002): Qualcosa di nuovo sotto il sole. Einaudi.

Environmental Justice Foundation (2003): Squandering the seas. London.

FAO (2003): World agriculture: towards 2015/2030. Earthscan Publications, London.


Websites


www.centroconsumatori.it

www.carta.org/cartamondo/

www.fao.org

www.earth-policy.org

www.earthisland.org

www.enaca.org

 

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Riquadro

I gamberetti indiani: un problema globale, fra diritti umani e protezione ambientale


L'industria dell'allevamento intensivo dei gamberetti in India si è sviluppata a seguito della "terapia d'urto" avviata con i sussidi della Banca Mondiale e con gli accordi di prestito sottoscritti dal governo indiano con Fondo Monetario Internazionale resi necessari per pagare gli ingenti debiti con i Paesi stranieri negli anni ottanta.

La Banca Mondiale stanziò un ingente fondo in dollari da destinare allo sviluppo dell'acquacoltura in diversi stati indiani, assicurando che un tale progetto poteva creare impiego per milioni di persone oltre a sviluppare un largo tratto di zone costiere.

Il governo indiano contribuì a tale iniziativa avviando un programma di totale liberalizzazione del mercato: eliminò i controlli e la necessità di avere delle licenze, non pose alcun limite quantitativo alle produzioni e - sostenuto dai prestiti della Banca Mondiale - estese i sussidi finanziari e doganali sugli equipaggiamenti, i macchinari, l'alimentazione dei gamberetti, e la costruzione degli impianti.

Il programma di sviluppo sull'acquacoltura dei gamberetti venne chiamato “rivoluzione blu” . Sulla scia della “rivoluzione verde”, che aveva profondamente modificato l'agricoltura indiana attraverso l'introduzione di sementi ad alto consumo (di fertilizzanti, di concimi e irrigazioni) e ad alta resa (un numero maggiore di raccolti per anno per unità di superficie coltivata), così la rivoluzione blu promise agli investitori profitti da capogiro, grazie all'introduzione di gamberetti ad alto consumo e ad alta crescita che assicurano un immediato guadagno sull'investimento fatto.

Allo stesso modo della prima rivoluzione, l'attività veniva gestita da coloro che avevano le risorse per pagare le necessarie tecnologie o che disponevano della terra per sostenere le attività.

L'impennata di crescita dell'industria dei gamberetti si trovò di fronte a un ostacolo sostanziale: lo sforzo della popolazione dei villaggi ad organizzarsi per difendere le proprie tradizioni e il proprio ambiente contro la rapida conversione delle terre agricole in allevamenti di gamberetti.

Nel 1992 i gandhiani Jagannathan e Krishnammal, insieme ai collaboratori del LAFTI (Land for Tillers Freedom) e attivisti locali intrapresero una marcia a piedi di un anno nel Distretto in cui si svolgevano le principali attività del LAFTI. Ogni giorno i marciatori si spostavano da un villaggio a un altro e organizzavano delle manifestazioni culturali e incontri serali per stimolare la formazione di comitati di villaggio intorno al problema delle terre, dell'educazione, della salute e dell'autonomia.

Lungo la costa una gran quantità di terreno fertile, tradizionalmente coltivato dalle popolazioni locali, era stata acquistata o presa in affitto dai capitalisti locali o da multinazionali per dare inizio ad allevamenti intensivi di gamberetti e moltissime persone avevano perso la loro unica fonte di reddito. L'economia in quell'area era basata quasi interamente sull'agricoltura e non c'era niente altro che queste persone possono fare oltre a coltivare la terra. Ma non è tutto.

Le vasche per l'acquacoltura vanno riempite in parte d'acqua salata e in parte d'acqua dolce, quindi queste industrie hanno iniziato a pompare acqua dolce dai villaggi creando in poco tempo scarsità d'acqua.

Per far crescere i gamberetti più rapidamente e proteggerli dalle malattie deve essere usata una gran quantità di agenti chimici, così l'acqua delle vasche si inquina rapidamente e deve essere cambiata spesso: il modo più semplice per farlo è scaricare l'acqua inquinata in mare. Per questo motivo lungo tutta la costa i pesci hanno iniziato a morire e la comunità dei pescatori ne è stata profondamente colpita. Adesso i pescatori devono spingersi al largo, ma non hanno barche appropriate e non possono di certo permettersele.

La stessa acqua delle vasche, salata e inquinata, penetra nel terreno e raggiunge le falde acquifere; molte persone nei villaggi hanno iniziato ad avere problemi alla pelle e agli occhi.

Dopo pochi anni le vasche diventano inutilizzabili e devono essere abbandonate, lasciando un terreno inutilizzabile, inquinato e salinizzato.

Un altro problema è che la foresta di mangrovie che offriva rifugio ai pesci che depongono le uova fra le sue radici, e costituiva un protezione naturale dagli uragani e dall'erosione marina, è stata distrutta lungo tutta la costa per costruire le vasche.

Guidata dai gandhiani Jagannathanm e Krishnammal la popolazione locale si organizzò in un movimento nonviolento di protesta che riuscì a portare la causa dei gamberetti di fronte alla Corte Suprema Indiana.

Per essere aiutati a decidere tra affermazioni e documentazioni molto contrastanti in proposito, i giudici richiesero che un istituto di ricerca governativo svolgesse un'indagine per esaminare l'impatto ambientale e sociale degli allevamenti di gamberetti sulle coste.

I risultati dell'indagine misero in evidenza i danni causati da questa attività, e alla luce di questo rapporto la Corte vietò la conversione di terra agricola ad allevamenti di acquacoltura e bloccò gli allevamenti in una parte del Tamil Nadu.

Questo fu un successo per il movimento del LAFTI e per gli ambientalisti - anche se relativo: le pressioni politiche e gli interessi economici sono molto forti e di fatto la questione è - tra processi e ricorsi - attualmente ancora aperta perchè, come Jagannathan ha sostenuto in varie occasioni, "gli Atti di Stato e gli ordini della Corte Suprema" rimarranno sulla carta se non si crea il potere della popolazione".


Per far conoscere e appoggiare i progetti già avviati dal LAFTI (Land for Tillers Freedom) in India, Overseas e il Centro Studi Sereno Regis di Torino hanno promosso la pubblicazione della loro biografia curata da Laura Coppo presso l'Editrice Emi ( 2002, pagine 223). Il libro può essere richiesto a: OVERSEAS onlus - Via Castelnuovo R.ne, 1190 - 41057 Spilamberto (MO) Telefono: 059-785425 mobile 348 2518421  E-mail: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

 

 

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UNO "STATO” SCHIZOFRENICO

UNO "STATO” SCHIZOFRENICO

Il Quadro Strategico Nazionale 2007-2013

 

 

Mentre infuriano le liti tra maggioranza e opposizione, tra governo centrale e regioni, tra Stato e cittadini sulla Legge finanziaria, cioè sulle risorse che l’Italia intenderà spendere nel prossimo anno, l’Europa richiede a noi (ed ad ogni Stato che ne fa parte) una Strategia complessiva cui fare riferimento per delineare, a sua volta, le linee guida cui si ispirerà per sviluppare una politica di coesione comunitaria nei prossimi 6 anni.

Il Ministero dello Sviluppo Economico (ed in particolare il Dipartimento per le Politiche di Sviluppo) ha avuto l’arduo compito di coordinare, a livello nazionale, le attività che hanno portato alla stesura di un documento importante per capire, sulla base delle analisi del nostro recente passato, il presente e soprattutto le strategie per il nostro futuro prossimo.

Anche se assistiamo, in queste fasi convulse, ad un furioso mercanteggiare tra categorie professionali, apparati dello Stato, enti locali alla ricerca di risorse economiche (che nel corso dell’anno spesso gestiscono in maniera clientelare vergognosa, contribuendo così ad aumentare il pauroso deficit nazionale), ci auguriamo (anche se dubitiamo che qualcuno lo legga e lo capisca, visto il linguaggio fin troppo burocratico che lo denota) che la conoscenza e la riflessione su un documento “di visione strategica” possa aumentare il grado di coscienza di tutti sull’urgenza e la serietà delle responsabilità e degli impegni che il nostro Paese (e ognuno di noi, suoi cittadini) si assume di fronte alla comunità internazionale.

 

Che cosa è il Quadro Strategico Nazionale 2007-2013

La proposta di “Regolamento generale sulla politica di coesione comunitaria per il periodo 2007-2013” prevede un approccio programmatico strategico e un raccordo organico della politica di coesione con le strategie nazionali degli Stati membri. A tal fine, l'Italia dovrà presentare all'Unione Europea un Quadro Strategico Nazionale con l'obiettivo di indirizzare le risorse che la politica di coesione destinerà al nostro Paese, sia nelle aree del Mezzogiorno sia in quelle del Centro-Nord.

Nelle Linee guida” (approvate il 3 febbraio 2005) Stato, Regioni, Enti locali hanno deciso di cogliere l’occasione del Quadro per consolidare e completare l'unificazione della programmazione delle politiche regionali comunitaria e nazionale e per realizzare un più forte raccordo di queste con le politiche nazionali ordinarie, e hanno definito gli indirizzi per la scrittura del Quadro.

Le “Linee guida” hanno avuto un lungo iter procedurale che ha visto, tra l’altro, la valutazione dei risultati del precedente Quadro 2000-2006, il confronto strategico tra Stato e Regioni ed un forte confronto con il partenariato economico-sociale e con le rappresentanze degli Enti locali.

Nella prima fase ciascuna Regione e Provincia autonoma e il complesso delle Amministrazioni Centrali hanno predisposto un proprio Documento strategico preliminare (“Documento Strategico Preliminare Nazionale” e “Documenti Strategici Regionali”). Nel caso del Mezzogiorno, le Regioni hanno anche realizzato, in modo coordinato e con il Dipartimento per le Politiche di Sviluppo e Coesione, un documento comune denominato “Linee per un nuovo Programma Mezzogiorno” (DSM).
La seconda fase è stata dedicata al confronto fra i diversi livelli di governo e le parti economiche e sociali in Tavoli tematici e Gruppi di lavoro, con la produzione di documenti congiunti. Su questa base si è quindi proceduto alla stesura di una
Bozza tecnico-amministrativa del Quadro”, condivisa dalle parti, che costituirà la base delle valutazioni anche politiche che dovranno condurre all’invio di una versione definitiva del documento alla Commissione europea.

Il Quadro è accompagnato da altri documenti istruttori predisposti dal Dipartimento per le Politiche di Sviluppo e da altre Amministrazioni (disponibili nel sito del Ministero dello Sviluppo Economico – Dip.to per le Politiche di Sviluppo http://www.dps.tesoro.it).


La “Bozza tecnico-amministrativa del Quadro

Le priorità e le condizioni dell'intervento pubblico prefigurate nel Quadro attuano indirizzi generali che Stato e Regioni, in linea con il primo e il secondo Memorandum italiano sulla riforma della politica di coesione (alla base dell'azione italiana nel negoziato sul bilancio europeo), hanno fissato nelle "Linee guida".

La cosa che più mi ha colpito leggendo l’intero documento (redatto in un linguaggio amministrativo fortemente caratterizzato per la sua tecnicità e, quindi, di non facile lettura) è stata questa frase: “Al centro della politica di coesione e di riequilibrio economico-sociale stanno le persone: l'aumento del loro "star bene" è l'obiettivo ultimo di ogni intervento.” Peraltro subito seguita (e “bilanciata”…) da quest’altra: “Lo strumento per conseguire questo risultato in modo stabile è l'aumento della competitività delle imprese e dell'intero sistema economico e sociale.”

Sulla base di questo quadro concettuale e di questi indirizzi sono state definite 10 Priorità tematiche (vedi Riquadro) che costituiscono il panorama delle finalità della programmazione 2007-2013.

Esse sono rivolte a obiettivi di produttività, competitività e innovazione da perseguire in tutto il Paese, declinate con intensità e modalità differenziate fra le due macro-aree (Centro Nord e Mezzogiorno) e fra gli obiettivi comunitari di riferimento ("Convergenza"; "Competitività regionale e occupazione"; "Cooperazione").

Per ciascuna priorità sono indicati i requisiti che gli interventi devono avere affinchè la priorità stessa sia attuata efficacemente: regole di selettività, dei progetti e degli attuatori, forme di intervento dettate dall'esperienza acquisita; errori da evitare; metodi valutativi da adottare, ecc.


Le priorità… nelle “Priorità”: i Servizi essenziali e obiettivi di servizio

E’ principio giuridico assoluto in Italia (patria del Diritto con la D maiuscola) che “La legge è uguale per tutti” ma… con alcune eccezioni.

Dopo l’enunciazioni delle 10 Priorità il capitolo successivo del documento ministeriale così recita:

Al fine di creare una mobilitazione culturale e politica attorno al miglioramento effettivo dei servizi, alcuni di essi, caratterizzati da particolare rilievo e visibilità per i cittadini, prevederanno nel Quadro "obiettivi vincolanti di servizio". Sarà così possibile creare le condizioni affinché gli interventi della politica regionale siano effettivamente aggiuntivi rispetto a quelli della politica ordinaria, producendo in questi ambiti non solo effetti finanziari e di processo ma anche effetti reali. La scelta riguarda principalmente l'area del Mezzogiorno.

Al momento, la scelta è relativa a quattro obiettivi di servizio, centrali per la strategia:

elevare le competenze degli studenti e la capacità di apprendimento della popolazione,

innalzare la partecipazione delle donne al mercato del lavoro,

tutelare e migliorare la qualità dell'ambiente per i servizi idrici integrati ...

... e per la gestione e lo smaltimento dei rifiuti urbani.

Alla forte rilevanza e visibilità, che possono farne un punto focale per la politica nel Sud, questi obiettivi uniscono la possibilità di essere misurati da appropriati indicatori (descritti nel Quadro) e sono riconducibili in maniera sufficiente alla responsabilità di ben individuabili livelli di governo. Il concorso di più livelli di governo richiesto dal conseguimento di questi obiettivi richiede spinge, comunque, a "contrattualizzare" in appositi Accordi gli impegni reciproci delle diverse parti.


Risorse disponibili, previsioni di spesa e aggiuntività della politica regionale

Ma per “contrattualizzare” ci vogliono dei soldi. E i soldi ci sono?

Nel capitolo successivo del documento ministeriale così ci rassicura:

La versione definitiva del Quadro conterrà, in un quadro finanziario unico pluriennale di cassa, le previsioni programmatiche della spesa in conto capitale fino al 2015 distintamente per il Centro Nord e il Mezzogiorno coerenti con i documenti nazionali di programmazione e con gli specifici impegni relativi alla politica regionale. In particolare:

per le risorse comunitarie e per il relativo cofinanziamento nazionale, verrà elaborato un profilo di spesa coerente con gli impegni comunitari e verrà stabilita l'entità, e la ripartizione fra Stato e Regioni, del cofinanziamento, a partire dalle indicazioni tecniche della bozza di Quadro e dalle istruttorie tecniche condotte dal DPS;

per le risorse della politica regionale nazionale (ora Fondo per le aree sottoutilizzate), si dovrà dare seguito all'impegno assunto nelle Linee guida approvate con Intesa fra Stato e Regioni di rendere settennale l'impegno programmatico di competenza; su tale base, verrà stabilita l'entità annuale dei finanziamenti a partire dalle indicazioni tecniche della bozza di Quadro; muovendo dalla riconferma di un riparto di tali risorse nella misura dell'85 per cento al Mezzogiorno e 15 per cento al Centro-Nord, potrà quindi essere costruito un profilo pluriennale di spesa che tenga anche conto del volume di risorse già assegnato, programmato e, in misura significativa, impegnato in questi anni;

per le risorse ordinarie, andrà deciso se fissare nel 30% o in un valore più elevato (più prossimo alla quota di popolazione, pari al 36 per cento) la quota della spesa ordinaria in conto capitale destinata al Mezzogiorno; in coerenza con gli obiettivi generali di spesa ordinaria in conto capitale, si potrà così costruire un profilo di spesa per macro-area coerente con le valutazioni macroeconomiche dei documenti nazionali di programmazione.

L'effettivo conseguimento dei profili di spesa che verranno programmati dovrà garantire l'obiettivo di genuina aggiuntività della politica regionale. Sarà a riguardo necessario rimuovere una serie di fattori che hanno fortemente frenato l'aggiuntività nel 2000-2006: in questo periodo, infatti, la politica ordinaria non ha conseguito l'obiettivo di destinare al Mezzogiorno il 30% della spesa in conto capitale, mentre il peggioramento delle condizioni di finanza pubblica e la modesta capacità di previsione della spesa da parte delle amministrazioni pubbliche centrali e regionali hanno concorso a ostacolare la spesa.

Il Quadro definitivo dovrà prevedere:

una maggiore cogenza, anche con il ricorso a meccanismi sanzionatori, del vincolo di destinazione territoriale della spesa, anche per grandi "enti pubblici" di spesa;

una esplicitazione della strategia di intervento ordinario, da parte delle Amministrazioni coinvolte nell'attuazione del Quadro; e il loro contemporaneo maggiore coordinamento con le Regioni;

il miglioramento dei metodi di previsione della spesa da parte delle diverse amministrazioni;

l'armonizzazione del ciclo finanziario con il ciclo progettuale e la contemporanea garanzia che il perseguimento degli obiettivi di finanza pubblica non impedisca il conseguimento degli obiettivi di spesa in conto capitale.

L'effettiva aggiuntività finanziaria del programma dipende, fra l'altro, dalla positiva risoluzione, in sede di Documento di programmazione economico-finanziaria e di Legge finanziaria, della tensione fra obiettivi di spesa e di finanza pubblica. Il successo di molti assi prioritari della strategia dipende, a sua volta, da scelte di politica o pianificazione nazionale: le priorità della ricerca e delle reti, che richiedono piani nazionali condivisi e realistici; la priorità dell'inclusione sociale e della sicurezza, che richiede, specie nel Mezzogiorno, una politica ordinaria più incisiva; la priorità di mercati concorrenziali ed efficaci, che richiede misure filo-concorrenziali e, al tempo stesso, il disegno di indirizzi per il sistema produttivo, definiti come "politica dei vantaggi comparati".

Gli obiettivi settennali che saranno contenuti nella versione definitiva del Quadro devono perciò diventare un punto di riferimento condiviso, su cui non tornare, della programmazione economica e finanziaria annuale.


Concludendo…

Mentre finivo di scrivere questo articolo si è conclusa l’estenuante maratona per la Legge finanziaria, durata molto più di quella assai più mediatica di Telethon, ma che ha avuto per lo più interesse solo per gli addetti ai lavori.

Le notizie filtrate attraverso i mezzi di informazione hanno prodotto una serie umori contrastanti nell’opinione pubblica, portata spesso a giudicare in maniera partitica “distorta” un complesso di disposizioni di spesa lungo e articolato, piuttosto oscuro nel linguaggio (forse volutamente…) e talvolta platealmente divergente dalle buone intenzioni che lo avevano ispirato.

Dopo il lavoro di coordinamento formale e il voto definitivo della Camera dei Deputati, la versione finale della Legge finanziaria 2007 è stata finalmente approvata il 21 dicembre: durante il passaggio parlamentare sono stati accorpati, riscritti e integrati, a colpi di emendamenti e maxi-emendamenti, i 217 articoli originari del disegno di legge, varato dal Consiglio dei Ministri del 29 settembre scorso.

La forma stessa in cui si presenta oggi (un articolo unico, lungo 1364 commi) lascia perplessi: praticamente una selva di provvedimenti, distribuiti in modo spesso disomogeneo lungo l’articolo unico.

Articolo unico che forse segnala il bisogno inconscio di “unità” per uno Stato per lo più schizofrenico, sempre alla ricerca di strategie “economiche” per risolvere problematiche che economiche non sono o non solamente.

A partire dall’allontanamento dei cittadini dalla politica, all’ignavia dei giovani che non conoscono la struttura e le funzioni dell’Amministrazione centrale e delle Regioni, dalla percezione di un senso di distanza anche dalle Istituzioni europee, dalla consapevolezza che il denaro da solo non ha mai dato ne mai darà la felicità né ad un individuo né ad uno Stato.

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Riquadro


LE 10 PRIORITÀ


Priorità 1. Miglioramento e valorizzazione delle risorse umane

La diagnosi condotta mostra la priorità assoluta di conseguire più elevati livelli di competenze e di capacità di apprendimento continuo della popolazione. E' indispensabile concentrare maggiormente l'azione della politica aggiuntiva, nella consapevolezza che solo un impegno significativo della politica ordinaria possa consentire l'attuazione compiuta delle riforme e dei traguardi definiti in sede europea.

Nel Centro Nord, sviluppando l'esperienza acquisita nel 2000-2006, i sistemi formativi verranno rafforzati nel senso di promuovere l'apprendimento lungo l'arco di vita e le capacità di competere attraverso metodi innovativi e considerando le necessità specifiche dei diversi target di utenza e dei territori.

Nel Mezzogiorno, accanto a questi stessi interventi e tenendo conto del fortissimo divario di competenze che si registra anche per la popolazione studentesca, verrà sviluppata, anche in termini quantitativi, la politica regionale per l'istruzione intrapresa nel 2000-2006, che ha mirato a colmare quel divario con progetti mirati e con un forte coinvolgimento dei docenti, dei discenti e degli interessi locali.

In generale, per la qualità dei sistemi formativi e di istruzione verranno previste: azioni di monitoraggio qualitativo e di valutazione; impiego di indicatori di qualità nell'accreditamento delle strutture formative; previsione di un sistema nazionale di definizione delle qualifiche e di certificazione delle competenze. La progettazione degli interventi verrà inoltre più fortemente legata all'analisi e alle tendenze dei sistemi produttivi locali e integrata con le altre azioni della politica regionale. Nell'ambito dell'azione rivolta all'adattabilità e all'imprenditorialità, particolare attenzione verrà posta alla formazione dei "piccoli imprenditori", coinvolgendo più fortemente le imprese nel disegno dei progetti.


Priorità 2. Ricerca e innovazione per la competitività

Oltre che attraverso il rafforzamento continuo delle competenze, il ritardo di produttività va aggredito direttamente dedicando una parte rilevante della politica regionale alla ricerca e all'innovazione. Ne devono essere principi guida una più forte selezione dei progetti e dei beneficiari in base a criteri di merito fondati su standard internazionali, e il ricorso intenso alla valutazione ex post dei risultati. Superando la netta distinzione fra ricerca e di base e applicata, verranno, in primo luogo, finanziati centri di ricerca e ricercatori che operano sulla frontiera della ricerca, favorendo la cooperazione fra più centri, nazionali e internazionali. Imprescindibile in questo disegno è la valorizzazione e qualificazione del capitale umano, da promuovere incentivando la mobilità internazionale e intersettoriale dei ricercatori, e assicurando un coinvolgimento dei lavoratori nei processi innovativi che la tecnologia dell'informazione rende possibile.

La connessione e l'avanzamento comune dei sistemi di ricerca e delle imprese verranno perseguite favorendo l'azione di "mediatori della conoscenza", dotati di appropriati requisiti e capaci di assicurare dialogo e integrazione della catena del valore fra i due sistemi attraverso: tecniche di valutazione dei fabbisogni/opportunità di innovazione, identificazione di partners, avvio di progetti congiunti. Al tempo stesso, la trasformazione della conoscenza in applicazioni produttive verrà promossa attraverso quelle forme di finanza innovativa che hanno dato segnali di successo.

Politiche mirate per contrastare la sottoutilizzazione della tecnologia dell'informazione da parte di imprese, pubblica amministrazione e cittadini, completano il quadro di questa priorità. Oltre che a sostenere l'offerta di servizi di rete nelle aree poco appetibili per gli operatori di mercato, queste politiche dovranno promuovere l'effettivo utilizzo di tali tecnologie ai fini di innovazione degli assetti organizzativi. Alla politica ordinaria sta la responsabilità di assicurare una mobilitazione di strumenti e risorse atta a sostenere l'impegno complessivo del Paese verso il conseguimento degli obiettivi fissati in sede europea, senza sovraccaricare la politica regionale aggiuntiva di ambizioni che eccedono le sue concrete possibilità di intervento e ne mortificano la specifica vocazione. A essa resta anche il compito di garantire alcune fondamentali precondizioni nel sistema della ricerca, nelle politiche per il capitale umano, nella Società dell'informazione per promuovere, attraverso il riconoscimento del merito e la piena applicazione del quadro normativo e regolamentare, migliori e più efficaci condizioni concorrenziali.


Priorità 3. Uso sostenibile ed efficiente delle risorse ambientali per lo sviluppo

Il recupero dei divari regionali nella qualità ed efficienza dei servizi ambientali rappresenta una priorità centrale del Quadro, sia per i benefici diretti che può arrecare al benessere dei cittadini, sia per l'effetto positivo sull’attrattività dei territori e nell’attivazione di nuove filiere produttive e di ricerca e innovazione. La priorità è particolarmente rilevante per il Mezzogiorno, in virtù dei suoi ritardi e del ruolo delle risorse naturali per lo sviluppo dell'area.

Gli indirizzi del Quadro riguardano fra gli altri, e in via prioritaria, la produzione di energia da fonti rinnovabili, e il miglioramento del servizio idrico e della gestione dei rifiuti. Altri importanti ambiti di intervento, quali la difesa del suolo e la bonifica dei siti inquinati, saranno inseriti nella programmazione operativa sulla base della valutazione dell'efficacia degli interventi già programmati, previsti nei piani e dotati di copertura finanziaria.

L’efficace attuazione della politica regionale è subordinata ad alcune condizioni trasversali, al cui conseguimento la politica regionale può in alcuni casi contribuire, ma di cui si farà carico la politica ordinaria: in primo luogo, la salvaguardia della sua aggiuntività, oggi fortemente compromessa da una inadeguata mobilitazione della politica ordinaria; una maggiore certezza e stabilità del quadro normativo e di regolazione, anche attraverso la piena applicazione delle direttive comunitarie e una più decisa apertura al mercato; il rafforzamento del sistema complessivo di governance, nel quadro di una precisa attribuzione delle responsabilità istituzionali al livello centrale/territoriale e accelerando il rientro all’ordinarietà delle gestioni commissariali; una maggiore sensibilizzazione e partecipazione attiva dei cittadini e degli attori economici e sociali nei processi decisionali, anche al fine di prevenire e minimizzare i conflitti. Per quanto riguarda l’energia, la strategia dovrà avere natura interregionale al fine di dimensionare in modo appropriato il ricorso alle diverse fonti, di garantire il massimo effetto di attivazione della produzione interna, di assicurare il pieno ricorso alle forme più avanzate di tecnologia.

Nel servizio idrico e nella gestione dei rifiuti, la strategia per Mezzogiorno è finalizzata alla qualità ed efficienza dei servizi resi ed è centrata, così come per la difesa del suolo e per le bonifiche, sul completamento delle riforme di settore e dei processi di pianificazione e programmazione e sulla realizzazione degli interventi infrastrutturali previsti dagli strumenti di piano adottati, nonché sul rafforzamento delle azioni di prevenzione e contrasto delle attività illecite e criminali nei settori ambientali. Priorità verrà data al soddisfacimento degli obiettivi di servizio e al raggiungimento degli standard ambientali comunitari.


Priorità 4. Valorizzazione delle risorse naturali e culturali per l'attrattività e lo sviluppo

In uno scenario di crescente mobilità internazionale di capitali e persone, l’attrattività delle regioni italiane è favorita dal potenziale vantaggio comparato rappresentato dalla dotazione di risorse naturali, paesaggistiche e culturali e dalla buona qualità della vita riconosciuta come elemento distintivo del nostro Paese. A fronte dell’inasprirsi della concorrenza internazionale, l’effettiva affermazione di tale vantaggio deve essere tuttavia rafforzata e rilanciata. Da questa esigenza scaturisce questa priorità, che individua la strategia per aumentare l’attrattività territoriale e creare opportunità di crescita e occupazione fondate sulla valorizzazione della rete ecologica e della biodiversità e del patrimonio culturale, attraverso: lo sviluppo sostenibile del turismo e la valorizzazione del suo indotto, in particolare agro-alimentare; l’attivazione di nuove filiere produttive collegate alle risorse naturali e culturali; la produzione di sinergie in termini di qualità della vita e identità territoriale. Tale strategia coniuga le esigenze della tutela e conservazione con quelle dello sviluppo sociale ed economico, garantendone le condizioni di sostenibilità nel medio-lungo periodo.

Il Quadro individua i requisiti che la strategia dovrà avere per essere efficace: assicurare un approccio integrato al complesso delle risorse disponibili sul territorio; garantire la sostenibilità organizzativa e finanziaria degli interventi a regime; concentrare le risorse su priorità tematiche territoriali. Particolare rilievo avranno la capacità delle Regioni e degli Enti Locali, di cooperare con centri di competenza nazionale, e l'effettivo orientamento al mercato dei pacchetti turistici territoriali.


Priorità 5. Inclusione sociale e servizi per la qualità della vita e l'attrattività territoriale

Questa priorità segnala che le condizioni di vita di cittadini e l'accesso alle opportunità hanno un ruolo centrale nel condizionare le capacità di attrazione e il potenziale competitivo di un'area. A questo risultato convergono le altre priorità del Quadro, ma esso richiede, in particolar modo per il Mezzogiorno, e, nel caso della sicurezza, per le quattro Regioni "Convergenza", il riconoscimento di una specifica priorità. Con essa l'azione della politica regionale aggiuntiva entra in ambiti primariamente rimessi alle responsabilità delle politiche ordinarie, cui restano affidate le funzioni perequative e le responsabilità di garantire adeguate condizioni di sicurezza del territorio, e la regolazione di cornice di più eque e regolari condizioni di accesso e partecipazione della popolazione immigrata.

La forte aderenza alle specificità territoriali necessaria per l'efficacia di questa politica richiede: un deciso rafforzamento del ruolo del partenariato economico e sociale, nel disegno e nell'attuazione, anche per realizzare quella mobilitazione sociale che è la chiave per assicurare la visibilità e verificabilità dell'azione amministrativa; una più estesa adozione degli strumenti di cooperazione interistituzionale che, come segnala l'esperienza, consentono di integrare e rafforzare le risposte dei servizi sociali, sanitari, delle politiche del lavoro, in una visione unitaria e con forte radicamento territoriale; più robuste capacità e competenze specifiche della Pubblica Amministrazione per migliorare la qualità ed efficacia dei servizi offerti; una accresciuta trasparenza e una migliore capacità di sfruttare le tecnologie dell'informazione per ridurre l'opacità dell'azione amministrativa e promuovere migliori condizioni di accesso alle opportunità e ai servizi.

Per la sicurezza, dove è necessaria una discontinuità rispetto all'azione, pur rilevante, sinora intrapresa, l'intervento sarà calibrato sulle specifiche esigenze locali, con un più stretto coordinamento fra i soggetti interessati, specie fra Prefetture e Enti locali, e prevederà attività formative mirate all'integrazione di conoscenze fra soggetti pubblici e privati.


Priorità 6. Reti e collegamenti per la mobilità

La riduzione del gap di accessibilità che caratterizza tutte le aree del paese e delle specifiche strozzature che vi concorrono è compito della politica ordinaria. Se questa rafforzerà la sua capacità di pianificazione strategico-operativa, stabilendo in modo concertato tra Stato centrale e Regioni le priorità, definendo tempi realistici di attuazione, e verificando e informando in modo trasparente sui risultati, allora la politica regionale potrà accelerare l'attuazione con finanziamenti aggiuntivi e potrà integrare i progetti maggiori con azioni di "rammaglio" del territorio.

Nel Mezzogiorno, dove più grave è il ritardo, condizione preliminare è che la politica ordinaria nazionale consegua non solo nelle assegnazioni, negli impegni giuridicamente vincolanti, ma anche nella spesa e nella realizzazione degli interventi, l’obiettivo di destinare all'area una quota superiore al 30% delle risorse ordinarie. La programmazione operativa terrà conto della limitatezza delle risorse disponibili, dei processi di condivisione degli interventi selezionati (in particolare per le grandi opere) da parte delle popolazioni interessate, della necessità di perseguire la massima tempestività di realizzazione, dando priorità ai progetti attuativi delle linee strategiche (e dei piani operativi) già avviati e/o programmati da completare, assicurando la massima integrazione tra politiche delle reti e politiche territoriali, anche fra aree limitrofe al di là dei confini amministrativi, e ponendo al centro i servizi da rendere. In queste condizioni, la politica regionale dovrà concentrarsi sul rilancio della logistica per un ricollocamento strategico di porti e aeroporti. Occorre, in particolare, superare la scarsa efficienza organizzativa e la poca concentrazione del sistema portuale attraverso interventi che sfruttino le potenzialità della tecnologia dell'informazione. Il completamento della rete e degli ulteriori nodi dovrà essere perseguito con priorità per la ferrovia. Dovrà essere promossa la connessione delle aree produttive e dei sistemi urbani alle reti principali. In un contesto di forte aumento della concorrenza del trasporto pubblico locale assicurato dalla politica ordinaria, si dovrà indirizzare l'intervento in questo ambito a privilegiare l'accesso ai servizi essenziali. Occorre, anche attraverso l’adozione di robusti meccanismi di selezione delle priorità, tendere a disegnare contestualmente l'infrastruttura, la sua manutenzione e il servizio offerto e, nel contempo, tenere conto dei vincoli e delle condizioni di contesto e della sostenibilità gestionale e finanziaria, anche attraverso un opportuno processo di selezione dei progetti che privilegi indicatori e obiettivi di “efficacia logistica”. Ne discende anche la necessità di un forte rafforzamento della capacità progettuale degli enti di gestione di rete (in particolare ANAS e RFI).


Priorità 7. Competitività dei sistemi produttivi e occupazione

L'esperienza degli scorsi anni mostra che l'efficacia generale della strategia può essere accresciuta se all'integrazione territoriale dei servizi previsti dalle altre priorità si affianca un specifico asse di intervento capaci di promuovere "progetti integrati locali" e se, più che nel passato, tali progetti accentuano la loro componente rivolta alle risorse umane e al mercato del lavoro. Non appare opportuno lanciare nuovi strumenti generali, ma è piuttosto utile partire dalla valutazione, consolidata nei territori, dei risultati sin qui raggiunti - molto variegati - dai diversi strumenti in essere ed esercitare su questa base una forte capacità di scelta e di selezione. E' poi necessario aprire la progettazione locale a centri di competenza e soggetti nazionali forti e all'interconnessione con le reti lunghe sulle quali ha luogo lo scambio di capitali, saperi e tecnologie, integrandola con progetti territoriali di area vasta, anche internazionale da sviluppare entro l’Obiettivo Cooperazione. Laddove non vi siano le condizioni per esprimere una progettualità complessa coerente con tali indirizzi, saranno realizzate azioni di capacitazione del territorio e di accompagnamento delle coalizioni locali.

I contenuti della strategia prevedono azioni di politica industriale (servizi e sistemi complementari di incentivazione) e di internazionalizzazione integrate con la pianificazione territoriale (razionalizzazione delle funzioni residenziali, produttive e ambientali; coerenza con gli aspetti di tutela del suolo, dell’ambiente e del paesaggio) e finalizzate a promuovere processi sostenibili e inclusivi di innovazione e sviluppo imprenditoriale. Tali azioni si completano con gli interventi per aumentare l’inclusività, l’efficienza e la regolarità dei mercati locali del lavoro e del credito e per migliorare l’efficacia dei servizi di intermediazione tra domanda e offerta locale di lavoro, nel contesto di una declinazione territoriale delle politiche attive per il lavoro.


Priorità 8. Competitività e attrattività delle città e dei sistemi urbani

Le città sono uno dei principali propellenti dello sviluppo economico, dell’innovazione produttiva, sociale e culturale sull’intero territorio europeo, sino ad assurgere a “priorità” nelle politiche di sviluppo. Ciò è vero soprattutto in Italia, dove il policentrismo e la qualità dei sistemi urbani, associata a quella delle istituzioni locali, sono una condizione e un’opportunità per una crescita sostenibile e diffusa dell’intero territorio.

Sulla base delle importanti esperienze del periodo 2000-2006, questa priorità si articola in programmi per città metropolitane, valorizzandone la funzione trainante e le potenzialità competitive nei mercati sovra-regionali e internazionali, e per sistemi territoriali inter-comunali, sostenendone le connessioni economico-produttive o l’offerta di servizi a scala territoriale. Questi programmi dovranno inserirsi in cornici istituzionali, strategiche e operative, che garantiscano una visione integrata tra pianificazione urbanistico-territoriale, il sistema storico, paesaggistico-ambientale, e lo sviluppo economico.

Il contributo della politica regionale aggiuntiva si concentrerà attorno ai temi dell'attrazione, della qualità della vita, dei collegamenti materiali ed immateriali. L’analisi delle tendenze demografiche e occupazionali evidenzia che la popolazione cresce significativamente nelle aree peri-urbane ma che maggiori opportunità occupazionali si concentrano ancora nelle zone più centrali; da qui l’enfasi sugli obiettivi di ampliamento dei servizi, e di mobilità su scala comunale e sovra-comunale. La medesima analisi segnala che la concentrazione del disagio in aree periferiche e peri-urbane rende necessario intervenire con obiettivi specifici focalizzati sui temi di lotta alle marginalità nelle stesse, con particolare rilievo nel Mezzogiorno. L'esperienza indica che per evitare il ripiegamento delle amministrazioni locali su investimenti di carattere “quasi-ordinario” e di impatto limitato, vanno concentrate le risorse sugli interventi a maggiore valore aggiunto. La crescita e trasformazione delle economie urbane avverrà infatti attraverso l’attrazione di investimenti per la ricerca e produzione tecnologica e nei servizi avanzati, e la maggiore valorizzazione dei vantaggi competitivi già esistenti in molte città e territori (dai sistemi turistico-culturali, all’alta formazione, all’intrattenimento). Per assicurare il concreto ed effettivo perseguimento di questi obiettivi è indispensabile migliorare la capacità di progettazione e selezione delle iniziative; l’apertura alla conoscenza, alle risorse esterne al partenariato pubblico-privato; e assicurare l’integrazione tra le programmazioni di scala diversa, mediante la governance multilivello e soluzioni gestionali prefigurate nel documento.


Priorità 9. Apertura internazionale e attrazione di investimenti, consumi e risorse

La natura delle risorse potenziali del paese e gli stessi elementi di scenario mostrano che il recupero di competitività del Centro Nord e l’aumento di quello del Mezzogiorno dipendono in maniera rilevante dalla capacità del sistema delle imprese di trarre vantaggio dal miglioramento delle condizioni di contesto per affrontare con più forza la competizione esterna. Decisivi sono qui: il rapido progresso del processo di internazionalizzazione delle imprese, specie nel Mezzogiorno; l’estensione di questo processo anche al sistema delle pubbliche amministrazioni; la contemporanea maggiore apertura di tutto il paese agli apporti di capitale imprenditoriale e umano dall’estero.

La politica regionale, comunitaria e nazionale, può dare un contributo rilevante in questa direzione, sia con gli interventi che rientrano nell'obiettivo "Cooperazione" sia con interventi mirati che traducono i migliori servizi oggetto delle altre priorità in effettiva capacità di apertura e attrazione. Per sviluppare le capacità di internazionalizzazione occorre superare logiche di mero sostegno a breve termine delle esportazioni, promuovere accordi di collaborazione industriale su base internazionale, dare sostegno alle PMI nei loro processi di riposizionamento (cfr. Priorità 2.). Per quanto riguarda l'attrazione degli investimenti, non si tratta, per un paese con elevatissimo risparmio quale l'Italia, di attrarre patrimoni, ma di attrarre capacità imprenditoriali e tecnologie che, legandosi con quelle già esistenti nel territorio, aprano i sistemi produttivi locali, avviando processi virtuosi di innovazione e sviluppo. Il conseguimento di questo obiettivo implica il pieno coordinamento degli attori centrali, regionali e locali competenti soprattutto in merito al compito di Agenzia nazionale per l'attrazione affidata alla società Sviluppo Italia, determinante per il Mezzogiorno. Uno sforzo nazionale della politica ordinaria è anche preliminare per fermare e invertire il deflusso grave e continuo di ricercatori specie nelle discipline scientifiche (cfr. Priorità 2) e per fermare e invertire la progressiva caduta della quota italiana nei flussi in entrata del turismo internazionale (cfr. Priorità 4).


Priorità 10. Capacità istituzionali e mercati dei servizi e dei capitali concorrenziali ed efficaci

Più forte capacità delle istituzioni – che è tutt'uno con un innalzamento dei livelli di legalità, in ogni area del paese – e mercati dei servizi e dei capitali concorrenziali ed efficaci: sono i due requisiti di cornice affinché l’intera politica regionale produca risultati significativi. Si tratta di obiettivi prioritari per tutte le aree del Paese, e che assumono un ruolo decisivo nel Mezzogiorno dove, nonostante i considerevoli progressi conseguiti nel periodo 2000-2006, permangono condizioni di debolezza delle strutture amministrative, una condizione di legalità debole, lesioni particolarmente serie della concorrenza. Per superare tali ritardi, alla politica ordinaria spetta un ruolo rilevante e decisivo, nell'aumento sia della concorrenza sia della legalità. La politica regionale può concorrervi, attraverso il proprio metodo che richiede e induce il rafforzamento della capacità amministrativa e una maggiore concorrenza fra gli attori privati coinvolti. Il ripristino della legalità dove essa è debole potrà essere favorito dal metodo stesso della politica regionale e dal suo ulteriore rafforzamento: la credibilità delle sue regole, la chiara specificazione delle condizionalità, la non rinegoziabilità dei meccanismi sanzionatori e premiali, la certezza dei rapporti fiduciari, l'investimento nella capacità degli amministratori, l'elevata apertura del confronto partenariale. La prevedibilità dell'azione pubblica può divenire in sé fattore di sviluppo. Se per i servizi di pubblica utilità è decisivo, perché la politica regionale sia efficace, un impegno forte e soprattutto continuativo della politica ordinaria nazionale a favore di condizioni di concorrenza, la concorrenza nel mercato dei capitali e il superamento dei suoi fallimenti potranno essere favoriti da una migliore "strategia degli incentivi". In collegamento con l'indispensabile disegno nazionale di una nuova "politica dei vantaggi comparati", si dovranno: minimizzare il ricorso a incentivi generalisti che finiscono assai spesso per prolungare la vita di imprese inefficienti, riducendo la spinta a innovare; proseguire nella strada di un rafforzamento della responsabilità delle banche che partecipano all'allocazione degli incentivi, favorendo lo sviluppo di rapporti fiduciari banca-impresa; orientare gli incentivi verso obiettivi di natura orizzontale, soprattutto nella promozione della ricerca e dell'innovazione (cfr. Priorità 2.).

 

 






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QUANDO FINIRÀ IL PETROLIO?

QUANDO FINIRÀ IL PETROLIO?


Che cos’è il petrolio? O meglio: cosa credete che sia?

Il petrolio - il mitico oro nero - continua a essere la chiave reale della politica, sia interna che internazionale.

Il petrolio e gli altri combustibili fossili (gas naturale e carbone) sono la base della nostra civiltà e del nostro modo di vivere. Sappiamo che circa il 90% dell’energia primaria prodotta oggi in tutto il mondo (escludendo il legno) viene dai combustibili fossili, di questa la singola fonte piú importante è il petrolio greggio (circa il 40%), seguito poi dal gas naturale, dal carbone e poi a distanza dalle altre fonti.

Dal petrolio derivano la benzina per le auto, il cherosene per gli aerei, la nafta, gli oli pesanti per i diesel, le fonti dell’industria petrolchimica (materie plastiche, gomme, fertilizzanti, e così via). In pratica ne dipende l’intera vita delle società industriali, nei suoi aspetti privati (il riscaldamento) e pubblici.

Al momento, il mondo consuma più di 80 milioni di barili di petrolio al giorno, 29 miliardi di barili l’anno. Questa cifra sta salendo rapidamente, come già accade da decenni e l’aspettativa generale prevede che continuerà a farlo nei prossimi anni: l’Agenzia internazionale per l’energia prevede entro il 2030 un consumo di 121 milioni di barili al giorno.

Se pensate che il petrolio sia una sostanza prodotta ininterrottamente da qualche misteriosa forza geologica nelle profondità della terra, non leggete oltre. Meglio conservare l’illusione che, mattina dopo mattina, continuerete a far girare la chiavetta dell’accensione per il resto della vostra vita.

Se invece avete qualche nozione, seppur confusa, sul fatto che i combustibili fossili c’entrino in qualche modo con del materiale organico che una volta c’era e adesso non c’è più, anche voi sotto sotto sapete che, prima o poi, la pacchia è destinata a finire.

Il problema è sapere quando questo momento arriverà e se e come saremo in grado di affrontarlo.


Qualche informazione utile

Il petrolio è in sostanza materia organica liquefatta derivata dalla decomposizione di un immenso deposito di alghe e plancton che risale a cinquanta milioni di anni fa. Nel corso dei millenni il movimento di immense forze geologiche ha intrappolato e cotto ad altissima temperatura quella che può anche venire definita come energia solare condensata, concentrandola in alcuni giacimenti situati a profondità variabile in alcuni luoghi del mondo. A differenza dell’energia solare rinnovabile, i combustibili fossili si sono prodotti in un dato periodo e a date condizioni che non si sono presentate ovunque e che non si ripresenteranno mai più, motivo per cui simili fonti vengono dette, appunto, non rinnovabili.
Lo sfruttamento di un giacimento si suddivide in tre fasi che possono variare a seconda di molti fattori – dalla qualità del petrolio alla quantità di gas presente nel “serbatoio” – ma che, sostanzialmente, sono sempre le stesse. Nella prima fase, detta di “recupero primario”, il gas presente nel giacimento tiene sotto pressione il liquido che, una volta trovata la via d’uscita, viene spruzzato fuori come lo champagne.

In questa fase i costi di estrazione sono bassissimi, consentendo un rapido recupero delle spese iniziali. Il costo di estrazione di un barile di petrolio non varia molto nel tempo: in linea di massima, oggi si aggira intorno ai cinque dollari al barile (1 barile = 159 litri), sebbene ci siano delle differenze fra i diversi giacimenti, in base alla loro posizione geografica e alla stabilità politica dei paesi in cui si trovano.
Dopo un po’ di tempo però, lo svuotamento del pozzo fa diminuire la pressione. Il passaggio alla seconda fase, nella quale si cerca di ristabilire la pressione ripompando dentro gas o acqua, diventa inevitabile e a questo punto i costi cominciano a lievitare. Invece di limitarsi a raccogliere la manna bisogna procurarsi l’acqua – magari attraverso costosi processi di desalinizzazione, come in Arabia Saudita – iniettarla nel giacimento e poi separarla dal petrolio estratto dal sottosuolo. Più i pozzi sono vecchi e più la percentuale d’acqua aumenta - e con essa i rispettivi costi - mentre diminuiscono i ricavi: nei giacimenti texani bisogna tirare fuori dieci barili d’acqua per ottenerne uno di petrolio. Il che aggiunge un problema ambientale notevole se si pensa che, a livello mondiale, l’acqua di scarto raggiunge i 200 milioni di barili al giorno, quasi tre volte il volume del petrolio prodotto.
A questo punto il gioco comincia a non valere più la candela. La terza fase di recupero è talmente costosa che basta un piccolo calo nel prezzo del greggio per rendere più conveniente chiudere il pozzo piuttosto che sfruttarlo. A questo punto la qualità del petrolio si è deteriorata, il gas si è concentrato in una sorta di “tappo” che rende difficile ogni operazione di recupero e si finisce per pompare il petrolio meccanicamente, consumando tanta energia quanta se ne produce.
Gli enormi progressi della tecnologia estrattiva hanno trovato soluzioni geniali a una miriade di problemi ma non hanno alterato un processo che, al contrario, è stato notevolmente accelerato dalla gestione poco razionale di tutti i soggetti coinvolti, che fossero corporation private con smania di profitto o governi con interessi geostrategici precisi: invece di operare con l’obiettivo del lungo termine, tutti si sono quasi sempre mossi nel ristretto orizzonte del “tutto e subito”. Tecniche raffinate di gestione del ciclo dell’acqua sono state affiancate alle perforazioni orizzontali e, da qualche anno, si è cominciato a raccogliere il gas di scarto invece di limitarsi a bruciarlo nell’atmosfera, ma il risultato non cambia: prima o poi i giacimenti invecchiano, e muoiono.

Ne è più che convinto Jeremy Legget, esperto geologo già consulente per l’industria petrolifera britannica ed ora direttore scientifico della sezione inglese di Greenpeace. Proprio la sua profonda conoscenza – scientifica ed operativa – e la consolidata esperienza del mondo del petrolio lo hanno portato a scrivere un interessantissimo saggio “Fine corsa” in cui l’autore afferma sulla scorta di dati e ricerche recentissime che siamo già nella fase discendente dei rendimenti dei giacimenti mondiali, attuali o futuri, analoga a quella prevista per i giacimenti USA negli anni ’50 dal geologo americano Hubbert.



Il picco di Hubbert

Nel 1956 M. King Hubbert, famoso geologo passato dalla Shell al Geological Survey statunitense, rese pubbliche alcune conclusioni tratte da modelli matematici estremamente elaborati e dalla sua esperienza sul campo. L’oro nero, sostenne Hubbert, avrebbe raggiunto la punta massima di produzione (il cosiddetto picco) verso la fine del Novecento, per poi diminuire in modo abbastanza repentino fino all’esaurimento. Sebbene all’epoca la teoria del picco venne liquidata come semplice catastrofismo, oggi nessun esperto si sogna più di negare la possibilità – anzi, la certezza – dell’approssimarsi del picco, ma continuano a dividersi sul quando. Il motivo principale della riabilitazione della teoria è uno soltanto: Hubbert aveva azzeccato la data del picco americano. Nel 1970, infatti, la produzione petrolifera statunitense raggiunse la punta massima, poi il flusso dei grandi giacimenti cominciò a diminuire, e così il numero dei barili prodotti ogni giorno.
Naturalmente se conoscessimo il volume totale del petrolio a disposizione, sottraendolo a quello che abbiamo bruciato in questo secolo di pacchia (una cosa come 875 miliardi di barili), potremmo farci due conti. Ma su questa terra non c’è informazione più segreta, sia per oggettive difficoltà (si lavora sempre alla cieca, a centinaia di metri di profondità) sia per le ragioni politiche e commerciali che spingono i principali attori a sovrastimare le proprie scorte. Ci sono le cosiddette “riserve accertate” costituite dalle scorte delle compagnie petrolifere – che le sovrastimano per tenere alte le quotazioni in borsa – e da quelle di paesi come la Norvegia o l’Arabia Saudita – che possono sovra o sottostimare a seconda delle contingenze politiche. Al petrolio già scoperto ma non ancora sfruttato – secondo alcuni esperti circa 1700 miliardi di barili - bisogna aggiungere quello ancora da individuare – suddiviso a sua volta fra “probabile” e “possibile” – il cui calcolo è ancora più aleatorio.

Secondo i più ottimisti (vedi scheda) ci sono circa 900 miliardi di barili ancora da scoprire che, sommati alle riserve accertate, danno la rassicurante cifra di 2.600 miliardi. Visto che il consumo mondiale si aggira sugli 80 milioni di barili al giorno e continua a crescere del 2 per cento l’anno (ma c’è chi dice di più), la riserva di 2.600 miliardi collocherebbe il picco globale intorno al 2030 o anche più avanti, se si riuscissero a comprimere i consumi o a rendere energicamente più efficiente la produzione industriale.
Gli ottimisti inoltre continuano a sperare che vengano scoperti nuovi giacimenti giganteschi, anche se non succede da quasi trent’anni ed è considerato dagli esperti alquanto improbabile. Il motivo è molto semplice: fra tecnologia satellitare, prospezioni sismiche e chi più ne ha più ne metta ormai abbiamo setacciato la terra palmo a palmo. Potremmo non aver scovato una piccola riserva, ma difficilmente ci può essere sfuggito un grande giacimento.

I pessimisti sostengono che fra petrolio accertato e quello non ancora scoperto le scorte non superino i mille miliardi di barili, collocando il picco globale intorno al 2010, ma ci sono analisti che, dati di produzione alla mano, pensano che il declino sia già cominciato e collocano il picco massimo di produzione nel 2004. Chi ha ragione? Un’occhiata ai giacimenti vale più di mille calcoli.


In via di esaurimento

Vero e proprio bastione del petrolio non-Opec, l’Alaska sembra aver già imboccato la strada della pensione malgrado i miliardi di dollari investiti. Del resto anche nelle piattaforme del Mare del Nord il flusso è in netto calo: malgrado la scoperta di un nuovo giacimento la produzione del Regno Unito ha raggiunto il suo picco nel 2002, e ora conosce un rapido declino. Il Messico, ubbidiente fornitore degli Stati Uniti, potrebbe aver toccato il picco proprio quest’anno mentre la Nigeria, considerata dalla Casa Bianca una valida alternativa, potrebbe raggiungerlo nel 2007. E che dire del petrolio russo? Iper-sfruttato come unica fonte di valuta pregiata, ha cominciato a ridursi già dal 2003 anche se, da quelle parti, nessuno è disposto a pronunciare la parola “picco”. Secondo gli esperti americani il petrolio non-Opec potrebbe “piccare” entro il 2015, lasciando l’Occidente in balia delle riserve mediorientali, principalmente dell’inesauribile cornucopia dell’arabian light, come si chiama il più puro petrolio del mondo che si trova subito sotto al deserto dell’Arabia Saudita.
Questa prospettiva, benché carica d’inquietanti implicazioni politico-militari, può considerarsi ancora moderatamente ottimista perché non fa i conti con lo stato dei giacimenti sauditi, informazione del tutto inaccessibile al di fuori di qualche membro della famiglia reale e dei tecnici che, materialmente, lavorano nell’area considerata la madre di tutti i giacimenti.

I sauditi proclamano di possedere ¼ delle riserve mondiali di greggio e di essere in grado di estrarne sempre di più. Questa assicurazione è la polizza su cui il mondo conta per proseguire uno sviluppo basato sull’energia petrolifera. Ma nessuno ha mai potuto verificare queste affermazioni: i dati sul petrolio saudita sono segreti di stato.

Fra la gran mole di libri pubblicati quest’anno sulla questione spicca “Twilight in the desert. The Coming Saudi Oil Shock and the World Economy” (Crepuscolo nel deserto) di Matthew R. Simmons, ex-consulente di Bush e capo della “Simmons & Company International” di Houston, una banca d’investimenti specializzata in questioni energetiche. Per tentare di sbirciare nel “serbatoio del mondo” Simmons ha pensato bene di utilizzare le uniche informazioni affidabili sulla salute dei giacimenti sauditi, ovvero l’inesauribile mole di documenti tecnici pubblicati dalla Society of Petroleum Engineers, la società scientifica che raggruppa gli ingegneri petroliferi del pianeta.
Dall’esame di circa 200 report in massima parte scritti per scambiarsi informazioni sulle innovazioni tecnologiche e per confrontarsi sui problemi che queste comportano, Simmons ha tratto conclusioni sulla salute dei giacimenti sauditi ben diverse da quelle fornite dalle istituzioni internazionali – l’Iea o l’Opec, tanto per citare le principali – o dallo stesso governo saudita. Viene fuori infatti che gli ingegneri stanno affrontando da anni problemi relativi alla gestione dell’acqua tipici della seconda fase di sfruttamento dei giacimenti, e anche le tecnologiche più avanzate – come i pozzi orizzontali – non riescono più ad arginare un calo della produzione che si registra anche nei giacimenti più grandi.

Simmons arriva a delle conclusioni allarmanti: quasi tutto il petrolio saudita arriva da non più di 4-5 megagiacimenti, metà da uno solo, Ghawar. Da oltre 30 anni nessun pozzo paragonabile è mai stato scoperto dai sauditi e quei supergiacimenti, sfruttati a pieno ritmo da oltre mezzo secolo, mostrano sintomi gravi e irreversibili di vecchiaia: pressione interna in calo, crescente intrusione di acqua, più alta presenza di gas.

La dettagliata diagnosi delle condizioni di Ghawar, il più grande giacimento del mondo che si fa carico, da solo, della maggior parte dell’ingente produzione saudita, è a dir poco allarmante.

La recente campagna mediatica condotta nel 2004 dalla compagnia di stato, la Saudi Aramco, per rassicurare il mondo sulle potenzialità tecnologiche dell’azienda lascia il tempo che trova: i giganti del deserto sono avviati verso il declino malgrado gli sforzi dei tecnici e l’impiego di tecnologie fra le più avanzate del settore.



C’è vita dopo il petrolio?

In “The long emergency” (La lunga emergenza), altro libro pubblicato nel 2005 con l’inquietante sottotitolo “Sopravvivere alle convergenti catastrofi del Ventunesimo secolo”, James Howard Kunstler propone una lettura destinata a ribaltare completamente l’idea corrente di progresso tecnologico e di sviluppo economico.

In sostanza, scrive Kunstler, «l’età del petrolio a buon mercato ha creato una bolla artificiale di abbondanza per un periodo non più lungo di un secolo». Una volta fuori dalla “bolla petrolifera”, secondo l’autore, ci ritroveremo nella dura realtà dei limiti materiali allo sviluppo, limiti che l’industrializzazione accelerata basata sull’energia a prezzi stracciati ci ha fatto ingenuamente sottovalutare.
Che il picco sia già stato raggiunto come sostengono i pessimisti o che manchino almeno trent’anni come sostengono i petrolieri, in fondo non cambia poi molto. Prima o poi ogni governo di questo mondo sarà costretto a investire ogni risorsa disponibile in una completa trasformazione del proprio sistema di produzione, di trasporto e di consumo per raggiungere la massima efficienza e sprecare meno energia – attraverso il risparmio energetico, la ristrutturazione della rete elettrica e degli impianti produttivi, la riconversione al gas naturale e la produzione di macchine ibride – per far durare le scorte il più a lungo possibile.

Nel frattempo, oltre a cercare di far sopravvivere le proprie economie all’impennata della bolletta energetica (si prospetta, entro un paio d’anni, lo sfondamento del tetto dei cento dollari al barile i governi dovranno mettere in moto a pieno ritmo la ricerca sulle fonti alternative (eolico, solare, idrogeno, biomasse, geotermico e chi più ne ha più ne metta) prima di approdare all’esaurimento definitivo. Il problema non è quindi se, ma quando.


L’altalena dei prezzi

Le impennate del prezzo del petrolio non sono cosa nuova: a partire dal 1965 si sono verificati cinque picchi nel prezzo del greggio, ognuno dei quali è stato seguito da un periodo di recessione economica di diversa gravità.

I picchi maggiori furono i primi due. Con il primo shock petrolifero, nel 1973, il prezzo del petrolio venne più che raddoppiato e raggiunse il corrispettivo attuale di circa trentacinque dollari al barile. La causa scatenante fu un embargo imposto dall'Opec (l'organizzazione dei paesi esportatori di petrolio) e promosso dall'Arabia Saudita in risposta al chiaro appoggio offerto a Israele dagli Stati Uniti al tempo della guerra dello Yom Kippur. La fornitura di greggio si ridusse solamente del nove per cento e la crisi durò non più di qualche mese, ma il suo effetto fu semplice, e impossibile da dimenticare per i testimoni dell'epoca: si scatenò il panico generale.

L'embargo ebbe vita breve, in parte perché i Sauditi temevano che, se l'avessero prolungato, avrebbero dato vita a una depressione globale che avrebbe messo in ginocchio le economie occidentali e di conseguenza anche la loro. Di fatto, il pur breve embargo provocò una terribile recessione economica.

Il secondo - e più tremendo - shock petrolifero fu innescato dalla deposizione dello scià di Persia nel 1979, e prolungato dallo scoppio della guerra fra Iran e Iraq nel 1980. Se il primo shock non fece salire il prezzo del greggio così in alto come in questi giorni, il secondo lo fece schizzare a più di ottanta dollari al barile in valuta attuale. Si diffuse nuovamente il panico, sebbene le forniture globali si ridussero solamente del quattro per cento.

La crisi si concluse nel 1981, quando i prezzi precipitarono, fondamentalmente per tre motivi. Primo, l'Arabia Saudita aprì i rubinetti: grazie ai suoi enormi giacimenti, scoperti fra gli anni Quaranta e Cinquanta, era in grado di agire da swing producer, ossia poteva aumentare la sua produzione di petrolio per abbassare i prezzi oppure diminuirla per farli impennare, proprio come aveva fatto nel 1973. Secondo, arrivò sul mercato il nuovo greggio proveniente da giacimenti giganti collocati in regioni più stabili del pianeta, fra cui il Mare del Nord. Terzo, governi e compagnie private fecero largamente ricorso alle proprie riserve di petrolio.

Questi tre motivi dovrebbero essere in cima alla lista delle ragioni per cui dovremmo allarmarci oggi, poiché se dovessimo affrontare un nuovo shock petrolifero, non potremmo più risolvere la situazione allo stesso modo.

Come abbiamo visto esistono buone ragioni per credere che l'Arabia Saudita si stia avvicinando al proprio picco nella produzione di petrolio, o che l'abbia già raggiunto e perciò non potrà più fungere da swing producer. In secondo luogo, i pessimisti temono che non ci siano più giacimenti giganti da scovare, né tantomeno intere province petrolifere come il Mare del Nord. Infine, le scorte disponibili non sono sufficienti a soddisfare la domanda attuale.


Concludendo…

Questi ultimi cinquant'anni di crescente dipendenza dal petrolio sarebbero difficili da comprendere persino se sapessimo di possederne riserve inesauribili. Tuttavia, ciò che rende ancora più sconcertante l'entità di questa assuefazione globale è che, per tutto il tempo in cui ci stavamo infilando in questa trappola, abbiamo sempre saputo che le riserve di petrolio sono limitate. Agli attuali livelli di consumo, il serbatoio mondiale inizierà ad andare in riserva - a fronte della crescente domanda di carburanti - molto prima della fine del secolo. È un dato di fatto indiscutibile, bisogna solo capire quando accadrà.
Ma allora perché non ci siamo attivati per anticipare l'introduzione di fonti energetiche alternative alla dipendenza da petrolio? Idrogeno, biocarburanti, pile a combustibile e batterie più avanzate sono alcune delle tecnologie che in futuro potranno fornire energia per i trasporti, mentre l'energia solare e altre fonti alternative possono generare l'elettricità necessaria per scomporre l'acqua in idrogeno e caricare le batterie. Sappiamo anche questo da decenni, come sappiamo che se adottassimo norme di risparmio energetico e trasporti di massa innovativi potremmo risparmiare interi giacimenti di petrolio. Forse queste alternative non riusciranno a rimpiazzare il greggio né in tempi brevi né con facilità, se pensiamo allo spazio minimo che occupano nei mercati attuali. Ma funzionano, e in gran parte dei casi attendono da anni un semplice via libera.

Questa situazione, a prescindere dall'ingenuità umana, è stata creata ad arte: viviamo in una società che più di trent'anni fa è stata capace di mandare un uomo sulla Luna, siamo proprio sicuri che non avremmo potuto trovare un sostituto del petrolio se l'avessimo voluto veramente?

Prima si smette di rimuovere il problema e si comincia a programmare la transizione, più garanzie ci sono che questa possa avvenire nel modo più democratico e meno doloroso possibile, anche se le rinunce, dal punto di vista dei consumi, non saranno poche.

Rimandare le impopolari decisioni da prendere per affrontare la crisi, e anzi negare perfino l’esistenza del problema, significa lasciare il timone nelle mani di chi il problema lo conosce bene e ha già pronta una soluzione: difendere con le unghie e con i denti il proprio modello di consumo andandosi a prendere il petrolio dove c’è, e spremere fino all’ultimo i profitti da una riserva sempre più sovvenzionata (per cercare giacimenti probabilmente inesistenti) e sempre più redditizia (per via dell’aumento esponenziale del prezzo delle ultime scorte).



Bibliografia

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Ugo Bardi (2003): La fine del petrolio. Editori Riuniti.

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Guido Rampolli (2006): I giacimenti del potere – A chi appartiene oggi il petrolio. Mondadori

S. Enderlin, S. Michel, P. Woods (2004): Pianeta petrolio – Sulle rotte dell’oro nero. Il Saggiatore

Jeremy Leggete (2006): Fine corsa – Sopravviverà la specie umana alla fine del petrolio? Einaudi

Nicola Pedde (2001): Geopolitica dell’energia. Carocci

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AA.VV. (2002): Le risorse energetiche. A cura di Carlo Bernardini. Le Scienze Quaderni n. 129. Dicembre 2002

Erich Follath (2006): La guerra delle risorse. Internazionale, n. 644, 2 giugno 2006

Ugo Spezia (2005): Energia: quale futuro? Le Scienze n. 442, giugno 2005

Colin J. Campbell, Jean H. Laherrère (1998): La fine del petrolio a buon mercato. Le Scienze n. 357, maggio 1998

 

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Scheda


OTTIMISTI E PESSIMISTI

Le riserve di petrolio considerate certe sono valutate da 1 a 1,2 migliaia di miliardi di barili, cioè circa 150 miliardi di tonnellate, il che, ai ritmi attuali, equivale ad una produzione di una quarantina d'anni. Ma le analisi tecniche dicono che le cose potrebbero andare diversamente.

Le stime delle risorse petrolifere mondiali sono affette d atre cause principali di errore in eccesso:

  1. anzitutto ai paesi produttori conviene sovrastimare le proprie riserve per avere più rilievo in sede internazionale, attrarre gli investimenti e non perdere la capacità di ottenere prestiti;

  2. i paesi dell’OPEC hanno un interesse particolare a gonfiare le stime delle loro riserve dal momento che ciascun paese può esportare in proporzione alle riserve stimate;

  3. le compagnie petrolifere che iperano sul mercato internazionale hanno interesse a sovrastimare le riserve di cui dispongono per elevare il valore del proprio pacchetto azionario e per attrarre capitali.


La ripartizione è molto diseguale: quasi due terzi si trovano in Medio oriente. L'evoluzione delle riserve non permette, però, di prevedere quella della produzione petrolifera, i dati relativi alle prime provocano infatti vivaci scontri tra opposte scuole di pensiero, alcune ottimiste, altre pessimiste.


Il gruppo degli
ottimisti comprende quasi tutte le compagnie petrolifere, i governi e i relativi organismi, la maggior parte degli analisti finanziari e dei giornalisti economici. Come potete immaginare, con uno schieramento simile sono gli ottimisti ad avere il sopravvento nella contesa, nell’attuale stato delle cose.

Gli ottimisti sono convinti che nei giacimenti rimangano ancora 2000 miliardi di barili di petrolio da sfruttare e confidano nella futura e ragionevolmente prevedibile scoperta di nuove riserve.

Fanno notare, come prima cosa, che le previsioni fatte in passato sulla diminuzione delle risorse sono sempre state smentite. Infatti, già alla fine del XIX secolo, molti esperti prevedevano la fine dello sviluppo industriale fondato sull'energia prodotta dal carbone, le cui riserve, stimate in base alla produzione dell'epoca, non sarebbero durate più di 20 anni.

Gli ottimisti osservano poi che la maggior parte delle trivellazioni esplorative viene effettuata in paesi già abbondantemente perlustrati. Inoltre, le riserve ottenute con le moderne tecniche di produzione, o anche rivalutando le riserve di vecchi giacimenti, spesso costano meno, soprattutto in Medio oriente, di quelle ottenute per esplorazione. Di conseguenza questa attività viene limitata anche nei paesi che invece offrono ottime prospettive per la scoperta di nuovi giacimenti.
Le produzioni possibili, secondo gli economisti Morris Adelman e Michael Lynch, del Massachusetts Institute of Technology (Mit), sono il risultato di una gara di velocità tra l'esaurirsi dei giacimenti conosciuti, da un lato, e il progresso tecnico che permette di accedere a nuove riserve, dall'altro. Finora, quest'ultimo ha sempre vinto, con alcuni esiti che portano a miglioramenti relativamente regolari: diminuzione dei costi di trivellazione, aumento dei tassi di recupero, migliore immagine del sottosuolo. Altre conseguenze sono più difficili da prevedere.

Se restassero effettivamente più di 2000 miliardi di barili di petrolio, il picco arriverebbe solo dopo il 2030.

I pessimisti (esperti che hanno lavorato nel cuore dell’industria petrolifera, soprattutto in qualità di geologi) sono presenti, per la maggior parte, nell'Associazione per lo studio del picco petrolifero e gassoso (Association for the Study of Peak Oil and Gas, Aspo). A questi esperti si sta unendo un piccolo gruppo, sempre più nutrito di analisti e giornalisti.

Stando alle stime dei pessimisti, rimangono solo 1000 miliardi di barili di petrolio nelle riserve, se non di meno.

Insistono molto sul carattere politico delle rivalutazioni delle riserve fatte nel 1986-1987 dai membri dell'Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio (Opec), e sostengono che non si tratta di riserve certe.

Ritengono che il picco della produzione mondiale si avrà tra il 2005 e il 2010, a un livello dell'ordine di 90 milioni di barili/giorno, cifra che comprende, però, tutti i tipi di idrocarburi naturali.
Per suffragare la propria tesi, ricordano che finalmente disponiamo non solo di un accesso all'insieme dei dati di tutti i bacini petroliferi, ma anche di un campionamento sufficiente affinché le metodologie predittive delle riserve ancora da scoprire siano ormai ragionevolmente affidabili.

L'incertezza riguarda dunque essenzialmente il futuro andamento della parte di volumi recuperabili, a partire dalle risorse date. Su questo argomento le conclusioni divergono: per gli ottimisti, il tasso medio di recupero di questi volumi potrebbe passare, nel corso dei prossimi cinquanta anni, dall'attuale 35% circa, al 50%, se non al 60%; per i pessimisti, al contrario, i miglioramenti, peraltro limitati, riguarderebbero soprattutto gli oli pesanti ed extra-pesanti.

Una valutazione intermedia viene proposta da altre équipe di specialisti, in particolare quelle della United States Geological Survey (Usgs), per le quali le riserve ultime di petrolio convenzionale sarebbero dell'ordine di 3.000 miliardi di barili, di questi circa 1.000 sarebbero quelli già consumati, un po' più di 1.000 corrisponderebbero invece alle riserve certe, mentre il resto farebbe parte delle riserve da scoprire. Questo ordine di grandezza corrisponde anche alle stime minime dei geologi de l'Institut français du pétrole (Ifp), effettuate a partire dai dati attualmente disponibili. Secondo tali stime, il massimo della produzione mondiale si avrebbe poco dopo il 2020.

Con ipotesi un po' più ottimistiche sia sui volumi da scoprire, non più minimi ma medi, che sulla crescita dei tassi di recupero, il picco potrebbe essere spostato verso il 2030.

Se le stime dell'Usgs dovessero essere riviste al rialzo, come è successo in passato, con l'integrazione delle risorse non convenzionali, il calo potrebbe essere rinviato a dopo il 2030.

 

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Riquadro

World Oil and Gas Review 2006”

Nel corso del 2005 le riserve mondiali di petrolio e di gas naturale sono aumentate, rispettivamente del 1,2% e del 2,1% secondo quanto emerge dalla “World Oil and Gas Review” (la rassegna statistica mondiale realizzata da Eni su produzione, riserve, consumi, esportazioni e importazioni di petrolio e di gas naturale) presentata l’8 giugno 2006 a Roma dall’ENI (scaricabile dal sito www.eni.it).

Le riserve provate di greggio su scala mondiale al 1 gennaio 2006 sono salite a 1.120 miliardi di barili, mentre quelle di gas sono cresciute fino a 1.838 miliardi di metri cubi, secondo quanto si evince dalla Review.

La concentrazione geografica di petrolio e gas rimane tuttavia immutata: se le riserve provate di greggio e di gas dei paesi industrializzati rappresentano meno del 10% delle disponibilità mondiali, quelle del Medio Oriente costituiscono invece ben il 66% di quelle mondiali di greggio e il 41% di quelle di gas.
L’area mediorientale fa la parte del leone anche per quanto riguarda la vita utile delle riserve: i primi quattro posti nella graduatoria mondiale per anni di durata delle disponibilità sono occupati da paesi di quella zona.

World Oil & Gas Review” descrive uno scenario caratterizzato da importanti tensioni sui mercati petroliferi, dovute sia al peso crescente che nuovi attori in forte sviluppo economico come Cina e India hanno assunto sul mercato internazionale e sia al perdurante squilibrio tra l’abbondante disponibilità di greggio di qualità medium & sour  e una crescente domanda di prodotti medi e leggeri.
La rassegna evidenzia, per il 2005, una crescita della domanda mondiale di petrolio di quasi un milione di barili al giorno (+1,2%), trainata in particolare dall’Asia e Pacifico (+1,8%) e dalla zona mediorientale (+5,1%). La Cina, in particolare, è il secondo consumatore al mondo con un consumo di 6,6 milioni di barili al giorno. L’India balza dal sesto al quarto posto con 2,6 milioni di barili al giorno di consumo.

L’area OCSE e il Nord America si sono mantenuti sugli stessi livelli di consumo del 2004, con una crescita quasi nulla: un dato rilevante, specialmente per il Nord America, che negli anni passati aveva trainato la domanda di tutta l’area OCSE e che quest’anno ha risentito degli elevati prezzi petroliferi dei mercati internazionali e degli uragani che hanno colpito le coste del Golfo del Messico.

La produzione mondiale di petrolio è cresciuta di oltre un milione di barili al giorno (+1,3%), sostenuta esclusivamente dall’OPEC, la cui produzione è salita a 34 milioni di barili giorno (+3,0%) registrando un altro anno di record dopo il 2003 e il 2004. In particolare, la rassegna evidenzia come il Nord America, anche dal lato della produzione, abbia risentito degli eventi naturali che hanno colpito il Golfo del Messico, causando la chiusura di piattaforme petrolifere e infrastrutture.
Prendendo in considerazione tutta l’area OCSE, nel 2005 la produzione è infatti scesa a 20,3 milioni di barili al giorno (-4,4%), raggiungendo il livello minimo degli ultimi dieci anni e accentuando così la dinamica negativa in corso ormai da alcuni anni. A questo hanno contribuito anche fattori strutturali, quali il lento declino della capacità produttiva di alcune aree come quella del Mare del Nord.

La domanda mondiale di gas, sulla base di prime stime, è cresciuta di circa il 2%.  In particolare, quella dei Pesi OCSE ha continuato a crescere (+1,0%), indirizzandosi anche verso l’estero, con una maggiore richiesta di gas importato, sia via nave (GNL) che via gasdotto.
Nell’area OCSE nel 2005 la produzione di gas è diminuita: negli Stati Uniti le calamità naturali hanno seriamente compromesso la capacità produttiva, peraltro già in una fase di declino come quella di Italia, Germania, Francia e Regno Unito.

Complessivamente gli scambi  internazionali di gas continuano a crescere. Le esportazioni mondiali di GNL sono cresciute dal 2000 ad un tasso medio annuo del 6,6% (+7,7% dal 2004). Tuttavia ancora oggi il gas esportato rappresenta meno del 30% della produzione totale, al contrario di quanto avviene per il petrolio, la cui produzione, per più della metà, viene esportata.

 

 



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GRANDI OPERE? SI, MA NON QUI…

GRANDI OPERE? SI, MA NON QUI…


Il caso TAV (Treno Alta Velocità) in Val di Susa esploso in modo drammatico alla fine del 2005, non è che un esempio emblematico, seppur eclatante, dei numerosi impianti e infrastrutture che vengono contestati dalle popolazioni locali.

Sono circa 200 le opere oggi contestate in Italia: impianti per lo smaltimento dei rifiuti, centrali elettriche e a carbone, ripetitori, siti industriali, antenne per la telefonia mobile, cave, parchi eolici, termovalorizzatori, rigassificatori, elettrodotti, ferrovie, autostrade.

Dal Piemonte alla Sicilia il fenomeno Nimby, acronimo dell'espressione inglese Not In My Back Yard, "Non nel mio cortile") si allarga a macchia d'olio. Le manifestazioni si intrecciano, Internet fa da acceleratore.

Le battaglie proseguono in tribunale, e a volte conquistano le pagine dei giornali: i "No Tav" in Val di Susa, i "No Mose" in Veneto contro il sistema di dighe mobili in laguna per salvare Venezia dall'acqua alta, le proteste contro la costruzione del Ponte sullo Stretto di Messina, i "No coke" contro la centrale a carbone a Civitavecchia, le contestazioni al deposito di scorie nucleari a Scanzano Jonico, in Basilicata, o contro i termovalorizzatori, in Campania.

La "sindrome" - definizione che non piace agli ecologisti - Nimby nasce negli Usa a metà anni Cinquanta, all'epoca delle Freeway Revolts di Santa Rosa, in Florida, e nei Sessanta, ai tempi dei sit-in per bloccare la costruzione delle autostrade intorno alla baia di San Francisco.

Con il passare degli anni, il fenomeno si è radicalizzato e gli acronimi moltiplicati: Banana - Build absolutely nothing anywhere near anyone ("Non costruire nulla in nessun luogo vicino a nessuno"); Cave - Citizens against virtually everything ("Cittadini contro tutto"); Nope - Not on planet Earth ("Non sul pianeta Terra") e così via.


Persuasione o contrattazione?

Se i rapporti con i cittadini fossero impostati in maniera più aperta, anche in accordo con la legge 2001/42/CE che invita gli amministratori a consultare e informare i cittadini nel caso di opere a grande impatto ambientale, probabilmente molti casi di proteste e opposizioni sarebbero mitigati, e altri forse sarebbero riconsiderati dai proponenti, dato che a volte grandi opere vengono approvate prima di una seria valutazione di impatto ambientale (come è avvenuto recentemente quando il governo belga, a seguito dell'opposizione delle amministrazioni locali, ha sospeso alcuni progetti ed ha accettato di rivedere la propria strategia generale per lo smaltimento dei rifiuti radioattivi).

"Un progetto, prima di essere promosso o bocciato – afferma Alessandro Beulcke, Presidente del Nimby Forum - va conosciuto senza pregiudizi ideologici. Spetta ai proponenti preparare il terreno di confronto: le istituzioni devono attuare una corretta programmazione, le imprese gestire bene la commessa dal lato ambientale e sociale. Rispetto ad altri Paesi, purtroppo, in Italia ci sono scarso senso dello Stato, scarsa fiducia nelle istituzioni e una normativa poco chiara sulle garanzie di informazione e comunicazione".

In Francia, all'inizio dei lavori per la Tav, hanno costruito un museo di 700 metri quadri e un punto informativo sul progetto che ne racconta peculiarità, finalità, impatti ambientali e tecnologie per ridurli, stato d'avanzamento. Con metodi analoghi (informazione continua, concertazione, partecipazione alle scelte e benefici compensativi a favore delle comunità locali), sempre in Francia (Centre de l'Aube) è stata costruita un'area di stoccaggio di scorie nucleari da 1.000.000 m3 senza particolari opposizioni.

In Austria, prima di ampliare l'aeroporto di Vienna, sono state proposte alternative, e creati gruppi di lavoro per identificare interlocutori e argomenti da sviluppare.

Altro metodo usato all’estero per decidere queste cose è quello di contrattare con la popolazione locale per la realizzazione dell’opera. Talvolta – non sempre – è possibile monetizzare il disagio creato dall’opera alle popolazioni interessate; in quel caso la contrattazione stabilisce che gli abitanti della tale valle si prendono il disagio e in cambio ottengono qualcosa.

Se il problema della sindrome Nimby può essere interpretato come frutto dell'egoismo di una comunità locale nei confronti dello sviluppo economico di una intera Nazione (e quindi di tutti i suoi cittadini) il metodo risolutivo della “contrattazione” ha il pregio di dare un peso agli “egoismi” delle due parti e provvedere una compensazione. In Francia e in Spagna hanno risolto così il problema dei depositi di scorie radioattive.


Cercasi comuni per rigassificatori

In Italia, si sa, tira un'aria diversa. Nimby fa fioccare proteste e azioni giudiziarie.

Contro il rigassificatore del porto di Brindisi, l'impianto della British Gas che dovrebbe essere pronto nel 2008, lottano Regione, Provincia, Comune, comitati civici e associazioni: la Corte europea di giustizia e la procura di Brindisi hanno aperto due inchieste.

"La nostra città - spiega Doretto Marinazzo, il consigliere nazionale di Legambiente che ha promosso il coordinamento con comitati, associazioni e organizzazioni - è a elevato rischio di crisi ambientale, fra le prime 14 zone di interesse nazionale per la bonifica di siti inquinati. L'interramento di 20 ettari di mare per la costruzione del rigassificatore - 110 gasiere da 130-140 mila tonnellate e otto miliardi di metri cubi di metano l'anno - è incompatibile con lo sviluppo sostenibile del territorio, le attività turistiche, commerciali e industriali".

Secondo gli oppositori nessuno ha previsto la Valutazione d’impatto ambientale (Via) prima della costruzione della piattaforma “che – per dirla con le parole del Presidente regionale Nichi Vendola – grava su una zona già martoriata dalla presenza di pesanti insediamenti industriali”.

Forse solo i pugliesi ricordano che il 26 settembre di 30 anni fa (poche settimane dopo l’incidente che sparse una nube di diossina a Seveso) l’esplosione del reattore del petrolchimico di Manfredonia inquinò con diecimila chili di anidride arseniosa il territorio circostante, lasciandosi dietro, anche dopo la sua chiusura nel 1988, una coda di terreni contaminati da bonificare, ad un costo per la collettività di decine di milioni di euro, una bonifica mai completata, estranea alla popolazione.

Se però l'Italia per l'energia dipende dall'estero, qualcuno dovrà pur ospitare gli impianti di rigassificazione.


Nimby come… “atteggiamento” mentale

L'acronimo Nimby denota un atteggiamento che si ritrova nelle proteste contro opere di interesse pubblico e attività che hanno, o si teme possano avere, effetti negativi sul territorio in cui verranno realizzate. L'atteggiamento consiste nel riconoscere come necessari, o comunque possibili, gli oggetti del contendere, ma, contemporaneamente, nel dichiararli indesiderabili per via delle fastidiose controindicazioni degli stessi sull'ambiente locale.

Per qualcuno si tratta di una iattura. Per altri del risveglio della partecipazione.

Alcuni (spesso i sostenitori della realizzazione di un'opera) arrivano a chiamare questo atteggiamento una sindrome e a squalificare in questo modo ogni opposizione alla realizzazione dell'opera, comprese le critiche che mettono in discussione i vari aspetti del progetto e della procedura di attuazione.

Altri (spesso i detrattori della realizzazione di un'opera) mettono in discussione l'intero processo che ha portato a decidere la realizzazione dell'opera, e sostengono che l'accusa di essere Nimby serva solo ad impedire una discussione serena ed approfondita sull'argomento.

Per chi predica una visione laica dei problemi sociali, il Nimby è un fenomeno radicato nelle trasformazioni della società contemporanea con le comunità locali sempre più pronte a mobilitarsi contro progetti di valore collettivo ma percepiti (non sempre a torto) come una minaccia per i propri interessi e per la propria identità.

"Nimby è un problema generale delle democrazie occidentali - spiega Luigi Bobbio, docente di Analisi delle politiche pubbliche all'Università di Torino - Rispetto a 30 o 40 anni fa i cittadini si sentono più forti, e così reagiscono alla minaccia al loro stile di vita, al cambiamento da cui non traggono benefici. In Italia si va per le spicce: quando si progetta una nuova opera non si fa attenzione alle comunità locali. Da parte dei proponenti c'è una rigidità terribile. Così, quando presentano il piano al pubblico, tutti protestano, ma loro non riescono più a modificarlo: hanno investito troppo".


Conoscere per capire

Sarebbe riduttivo, però, liquidare questo atteggiamento contestatario come quello di chi si oppone aprioristicamente allo “sviluppo” o di chi usufruisce dei risultati del “progresso” senza voler in alcun modo sopportarne i disagi che provocano, preferendo insediarli altrove (pur percependone utilità).

Tant’è che le istituzioni hanno cercato di cogliere il significato, promuovendo studi e ricerche per comprendere il fenomeno e definire delle linee di azione.

Nel corso del 2005, tra i numerosi eventi che hanno cercato di analizzare e comprendere il fenomeno, si segnalano in ordine cronologico:

a) la presentazione della Ricerca su informazione sui temi ambientali, commissionata dal Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio, effettuata dall’ISPO - Istituto per gli Studi sulla Pubblica Opinione;

b) il Convegno di presentazione dei risultati della Prima edizione del Nimby Forum;

c) il Workshop finale della Ricerca effettuata dallo IEFE (Istituto di Economia e Politica dell’Energia e dell’Ambiente) dell’Università “L. Bocconi” di Milano, su Informazione e partecipazione pubblica in campo ambientale.

I 3 studi, seppur indipendenti per obiettivi prefissi e metodologie impiegate, sono comunque tra loro correlati.

a) La prima ricerca dell’ISPO, che, da maggio a novembre 2004, ha monitorato il livello di sensibilità nei confronti dell’ambiente, ha denunciato che gli italiani:

- considerano l’ambiente il tema più importante su cui impegnarsi (65% degli intervistati);

- ritengono la situazione ambientale molto o abbastanza critica (l’80%);

- reputano che la propria azione può fare una reale differenza (57%);

- si preoccupano maggiormente di inquinamento dell’aria, del nucleare, della gestione dei rifiuti;

- non sono per nulla o poco informati sui temi ambientali (52%).

b) La seconda indagine, quella dell’Osservatorio NIMBY Forum sul tema dei conflitti territoriali ambientali, ideato e promosso da Allea (Società di consulenza nel settore della comunicazione e delle relazioni istituzionali), ha analizzato 2.760 articoli apparsi sulla stampa italiana nel periodo giugno 2004 – maggio 2005.

Dai risultati è emerso che:

- gli impianti più contestati sono quelli legati al ciclo di trattamento dei rifiuti, che rappresentano il 65% degli impianti contestati (per lo più termovalorizzatori), contro il 22% nel comparto elettrico, l’8% di infrastrutture;

- le principali motivazioni delle opposizioni territoriali riguardano per i timori per la salute (il 18% dei casi), per gli effetti sull’ambiente (17%), per qualità della vita (6%);

- i quotidiani locali costituiscono il 73% degli articoli raccolti ed analizzati, seguono i quotidiani nazionali (16%) e quelli politici ed economicofinanziari (9%);

- la voce più riportata dai media analizzati è quella degli amministratori locali (43%) dei casi, seguita subito dopo dai comitati spontanei di opposizione (19%);

- nel 72% dei casi viene fornita una presentazione parziale dei fatti della situazione, mentre solo nel 28% abbiamo una presentazione completa;

- solo nell’1% degli articoli viene riportata la notizia di campagne di informazione territoriale e solo nel 3% dei casi risulta siano state avviate iniziative di consultazione o di coinvolgimento delle comunità locali.

I dati dell’Osservatorio Nimby Forum parlano quest’anno di 171 impianti contestati (dove per impianti si intende il complesso di insediamenti industriali, infrastrutture viarie e ferroviarie, centrali per la produzione di energia, rigassificatori, impianti per il trattamento dei rifiuti, ecc.) contro i 190 censiti nel corso della scorsa edizione. Tuttavia, il numero di articoli di stampa censiti sull’argomento è schizzato dai 2.760 dell’anno scorso ai 4.020 di quest’anno, con punte massime di 66 articoli al giorno (contro i 45 dell’anno scorso) e una media di 309 articoli al mese contro 251. Senza contare le numerosissime trasmissioni di approfondimento giornalistico televisivo che hanno ripetutamente trattato questo tema nel corso dell’anno.

Si rileva quindi che, pure a fronte di una diminuzione in termini assoluti delle opere contestate, si è assistito ad un incremento notevole dell’attenzione, da parte dai media e del dibattito politico, a questo fenomeno.

Tra le cause principali di questi processi oppositivi, il NIMBY Forum ha messo in evidenza:

- carenze nella programmazione e gestione del territorio;

- scarsa alfabetizzazione ambientale;

- mancanza di informazione e di coinvolgimento della popolazione;

- insufficiente responsabilità delle imprese;

- inadeguatezza normativa;

- carente ruolo dei media e della comunità scientifica.

c) Il terzo lavoro, quello dello IEFE durato ben 2 anni (2003-2005) e svolto in due fasi, ha riguardato:

- la domanda di informazione;

- gli strumenti di accesso e diffusione dell’informazione ambientale;

- l’applicazione delle politiche di e-government in campo ambientale;

- la partecipazione al decision-making ambientale.

Dallo studio, che ha coinvolto 100 soggetti tra Regioni, Province, Comuni al di sopra dei 50.000 abitanti, ARPA, Autorità d’Ambito, Consorzi e Camere di Commercio, si evidenzia che:

- quasi il 50% delle autorità pubbliche non rende accessibili dati su procedimenti e controlli ambientali in atto;

- il 44% delle autorità pubblica una relazione sullo stato dell’ambiente, ma solo il 21% certifica la gestione

dei dati ambientali;

- il 48% delle autorità dichiara che le informazioni relative a ispezioni e controlli non sono accessibili nel timore di infrangere la normativa sulla privacy, mentre la normativa prevede che tali informazioni siano rese pubbliche;

- solo il 9% detta una disciplina specifica per l’acceso alla informazioni ambientali all’interno del regolamento generale per l’accesso agli atti amministrativi;

- solo il 4% del campione ha adottato un apposito regolamento per l’accesso alle informazioni ambientali;

- solo il 25% dispone di un elenco delle banche dati che possiede;

- solo il 40% sa come sono stati raccolti i dati disponibili.

Anche quando i processi partecipativi vengono realizzati - ha spiegato il Vicedirettore e coordinatore dello studio IEFE, Edoardo Croci, durante la presentazione - spesso si riducono a semplice rito burocratico, piuttosto che rappresentare un’opportunità di miglioramento dei processi decisionali e possibilmente di condivisione delle soluzioni”.

Da quanto sopra riportato sembra che possa affermarsi che NIMBY, più che una preconcetta opposizione dei cittadini a qualsivoglia infrastruttura venga progettata nel territorio in cui vivono, sia l’estrema difesa degli individui che acquisiscono la consapevolezza che in processi e progetti di pianificazione e programmazione ambientale non sono coinvolti, mentre quei progetti li riguardano direttamente.

Da più parti si riconosce che c’è bisogno di riequilibrare i ruoli tra autorità e cittadini in tema di decisioni sul territorio, anche per evitare che assenza di informazione e scarsa partecipazione possano indurre a prese di posizione scientificamente infondate; al contempo, però, la pubblica amministrazione si comporta ancora in modo poco trasparente, limitando di fatto l’esercizio di specifici diritti dei cittadini che nuove normative hanno loro attribuito:

- Convenzione di Aarhus, ratificata dall’Italia;

- Direttiva 2003/4/CE sull’accesso del pubblico all’informazione ambientale, attuata in Italia con il D. Lgs. n. 195/ 2005;

- Direttiva 2003/35/CE sulla partecipazione del pubblico nell’elaborazione di taluni piani e programmi in materia ambientale (non ancora recepita);

- Legge n. 241/1990, sui procedimenti amministrativi, come modificata dalla Legge n. 15/2005;

- Aalborg Commitments (2004), per le amministrazioni ed enti aderenti a Coordinamento Agende 21 Locali.


Quale ruolo per le amministrazioni pubbliche?

Come in altri campi, le amministrazioni pubbliche sono chiamate a affrontare nuove problematiche relative alla comunicazione e alla negoziazione.

Le analisi mostrano che sono nella maggior parte dei casi Nimby sono le amministrazioni pubbliche a portare avanti il dialogo con i media. Ma troppo spesso manca un coordinamento della comunicazione con gli altri soggetti coinvolti, imprese in primis. Si crea così un deficit comunicativo che contribuisce a diffondere una percezione negativa dell’impianto.

Altrettanto cruciale diventa la capacità dell’amministrazione di riuscire a gestire con competenza e cognizione di causa il processo decisionale.

Nei casi di Nimby e dintorni, in particolare, alle amministrazioni pubbliche si chiede di coinvolgere nel processo negoziale tutti i soggetti del territorio potenzialmente interessati dalla decisione.

In particolare, se il processo informativo e partecipativo sui temi ambientali, previsto dalle normative, è carente o assume aspetti di criticità in tutte le pubbliche amministrazioni, risulta “spiacevole” quando a commettere le omissioni sono amministrazioni ed enti che hanno volontariamente aderito ad Agende 21 Locali e, quindi, ai loro processi e alle loro azioni, e tra gli obiettivi dei quali c’è anche una Pianificazione sostenibile e partecipata.

Troppo spesso gli amministratori viceversa confondono “informazione” con la “partecipazione”.

Illustrare” il progetto di un impianto di trattamento dei rifiuti o “presentare” un piano di assetto territoriale, non significa coinvolgere la comunità in scelte che riguardano il loro presente e il futuro dei propri figli e nipoti.

La partecipazione informata e consapevole dei cittadini passa attraverso la possibilità offerta loro di contribuire sulla base di idee e conoscenze, anche di tipo culturale, alla realizzazione del progetto, fatte salve le scelte che autonomamente gli amministratori prenderanno, dopo aver valutato attentamente la reale necessità delle opere rispetto ad un piano di sviluppo programmatico, nonché risorse e costi finanziari necessari.

Solo queste effettive forme di partecipazione garantiscono al contempo un completo processo decisionale che riduce le possibilità di intraprendere azioni erronee e permette la legittimazione delle decisioni assunte.

Certo, le questioni da affrontare non sono facili, in special modo oggi che le problematiche di localizzazione di insediamenti ed infrastrutture tendono a superare la dimensione comunale per assumere quella di “Area Vasta”.

Proprio per superare le criticità connesse alla diversa strumentazione è “necessario organizzare forme di coinvolgimento, ineludibile, della comunità sulle scelte riguardanti direttamente il loro futuro”, obiettivo che si è posto correttamente il Gruppo di Lavoro “Città sostenibile” del Coordinamento Agende 21 Locali italiane.

I cittadini hanno il diritto di sapere se quelle opere ed infrastrutture produrranno vero “progresso” o semplice “sviluppo”. I due termini solo lessicalmente sono sinonimi, nella realtà assumono concetti diversi.

Lo sviluppo, inteso come crescita economica e fonte di benessere per tutti, poggia sul paradigma: più infrastrutture-più consumo-più produzione-più lavoro.

Il progresso, con la connotazione di civiltà, tiene conto, oltre che del PIL, di fattori quali benessere, qualità della vita, salute.

Proprio per evitare che si creino dicotomie, si è assunto l’aggettivo sostenibile accanto al termine sviluppo, intendendo quella crescita continua della produzione e dei consumi, non superiore però alle capacità di rigenerazione e di assorbimento del territorio.

I cittadini su questi temi attendono delle risposte perché sono sempre più consapevoli di essere portatori di informazioni e interessi che non sempre collimano con quelli dei decisori politici e degli esperti tecnico-scientifici e, di conseguenza, non vogliono più essere semplici “auditori”.

Solo una partecipazione effettiva può favorire la maturazione di opinioni fondate su elementi concreti di conoscenza, dando anche maggior credibilità a chi tali processi ha promosso.


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VOX CLAMANS IN DESERTUM

VOX CLAMANS IN DESERTUM

Considerazioni sulla lotta contro la desertificazione delle coscienze che fa avanzare i deserti

(articolo pubblicato sulla rivista "Cultura e Natura" n. 2 (2000)

 

In un mondo sempre più cinico che sta sperimentando sulla pelle dei più poveri ed emarginati la dura “legge del mercato” che premia ma , al tempo stesso, punisce chi vi si adegua rinnegando la sua umanità, avanza un nemico difficile da combattere.

Un qualcosa che è dentro di noi ma i cui effetti sono fuori di noi...

Il deserto nelle coscienze genera paesaggi desolati, in cui la vita è assente, in cui lo spirito dell’uomo che osserva la natura non può che disperarsi per ciò che non ha creato, per ciò che ha distrutto.

La desertificazione è lì fuori, ormai non troppo lontano dalle nostre metropoli evolute, a testimoniarci l’incuria, l’abbandono, l’inerzia o, peggio, l’inetta presunzione di onnipotenza con cui abbiamo trattato la nostra Madre Terra.

Le cause ormai sono chiare: la scienza ce lo conferma (vedi scheda) ma richiede altre prove, altre certezze irrefutabili prima di esporsi, prima di alzare il suo “grido di dolore” in un mondo come quello di oggi, dove, paradossalmente, basiamo tutto sulla comunicazione ma in cui siamo così restii ad ascoltare le voci fuori dal coro di chi non ha niente da vendere nel mercato globalizzato.

All’interno di esso troverete anche chi, basandosi sulle disgrazie altrui - come nel recente Forum mondiale per l’acqua dell’Aja - paventa l’avanzata del deserto come spauracchio per aggiudicarsi più in fretta il mercato sempre più appetito dell’acqua. Acqua che diverta merce di scambio, “bisogno umano di base” (e come tale da soddisfare...a caro prezzo) e non più “diritto umano e sociale di base” di cui garantire almeno un libero accesso.

L’ipocrisia degli Stati sedicenti “democratici” - che orientano il destino dei loro “sudditi” attraverso un’educazione del tutto priva delle cognizioni di base atte a prevenire il dissesto del proprio territorio, le patologie legate ad un uso scellerato delle risorse idriche, la rovina di quell’esile substrato biologico a cui dobbiamo nutrimento e prosperità - è grande almeno quanto la loro operosità nel mettersi intorno ad un tavolo per risolvere una volta per tutte questo tipo di problemi.


Montagne di carta contro il deserto

Ho partecipato in prima persona alle estenuanti riunioni internazionali in cui si dibattono problemi annosi come la fame, la malnutrizione, le malattie, la desertificazione, appunto, cesellando definizioni, dichiarazioni, piani d’azione, destinati per lo più a restare vuote e macabre esercitazioni di stile intorno a fatti e cifre raccapriccianti se viste con occhi appena un pò più partecipi delle sofferenze umane

E’ impressionante vedere, dai documenti ufficiali, quanti “sforzi” vengono fatti per arginare un fenomeno drammatico quale quello che mette a repentaglio l’esistenza di centinaia di milioni di esseri umani nei Paesi più poveri della Terra.

Dalla risoluzione 32/172 dell’Assemblea della Nazioni Unite che puntava, già nel lontano dicembre 1977, ad un piano d’azione per combattere il fenomeno della desertificazione al Capitolo 12 dell’Agenda 21, il corposo frutto della Conferenza su Ambiente e Sviluppo (Rio de Janeiro, 1992), che pose le basi per la “Convenzione delle Nazioni Unite contro la desertificazione nei Paesi gravemente colpiti dalla siccità e/o dalla desertificazione, in particolare in Africa” (UNCCD) stilata a Parigi nel 1994 ed entrata in vigore nel 1996, la comunità internazionale si è dotata di strumenti giuridici e scientifici adeguati per fronteggiare quest’emergenza che però, a livello operativo, dev’essere gestita in un quadro regionale e attraverso strumenti adeguati che ogni singola Nazione deve attivare sul suo territorio.

Nascono cosi (o almeno dovrebbero farlo in tutte le nazioni parti della Convenzione) attraverso leggi di ratifica ed esecuzione della UNCCD, i vari Comitati nazionali per la lotta alla siccità e/o alla desertificazione che hanno come compito precipuo lo studio dei fenomeni oggetto e, soprattutto, l’individuazione delle linee guida per la predisposizione dei Piani d’azione nazionali con annessi rapporti.


Si uccide più con la lingua che con la spada”?

La lettura dei documenti internazionali è particolarmente interessante: prendendo ad esempio la suddetta UNCCD, nell’Introduzione vengono individuati con chiarezza i termini del problema attraverso, innanzitutto una univoca definizione dei termini e delle espressioni indicate nel testo.

Altrettanto chiari e affermativi sono, all’articolo 2, gli obiettivi, ma già all’articolo seguente, laddove si parla di principi per raggiungere gli obiettivi della Convenzione e per applicarne le disposizioni, si comincia a sfumarne la volontà attraverso l’uso del condizionale:

  • dovrebbero assicurarsi che le decisioni...siano prese con la partecipazione delle popolazioni...”;

  • dovrebbero , in spirito di solidarietà e di compartecipazione internazionali, migliorare la cooperazione e il coordinamento...”;

  • dovrebbero, in uno spirito di compartecipazione, istituire una cooperazione tra i poteri...”;

  • dovrebbero prendere pienamente in considerazione la situazione e i bisogni particolari dei Paesi in sviluppo colpiti...”.

Forse l’uso dell’indicativo sarebbe stato troppo vincolante...

Il dubbio rimane allorquando, nella Seconda parte, si dettano le disposizioni generali: sotto il titolo “Obblighi generali” le volitive azioni per aggiungere l’obiettivo della presente Convenzione sono precedute da un sibillino “secondo quanto conviene”: a chi?

La cooperazione è al centro dell’art. 4: al paragrafo 2 nei punti d, e, f, g le Parti sono stimolate ad incoraggiare tale azione comune tra i Paesi colpiti, tramite un rafforzamento della cooperazione subregionale, regionale, internazionale, oppure in seno ad organizzazioni intergovernative competenti, stabilendo “meccanismi istituzionali, se è il caso, tenendo presente la necessità di evitare doppioni”.

Ma, a giudicare da quanto emerge dal fiorire di iniziative che questa Convenzione ha aiutato a crescere, qui si rischia di “cooperare troppo” non del tutto a giovamento di coloro che si vorrebbero aiutare...

Passando, per così dire, alla fase operativa, nella “Parte Terza - Sezione 1: Programmi d’azione”, all’art. 9 si dice che: “Per adempiere gli obblighi loro imposti dall’articolo 5, i Paesi... elaborano, pubblicano o eseguono, secondo quanto conviene, programmi d’azione nazionali...”.

Si tratta, nelle intenzioni dei recensori della Convenzione di un insieme di strategie preventive e a breve, medio e lungo termine che, solo presupponendo un interesse precipuo e cogente da parte di ciascuno Stato Parte della Convenzione a impostare le sue risorse ed i suoi interessi verso uno sviluppo armonico e democraticamente condiviso, consentirebbero, se attuate realmente, un’esistenza felice e prospera delle popolazioni.

Un “volo pindarico” da parte di Istituzioni che in gran parte si limiteranno ad altri “voli pindarici” a livello di piano d’azione nazionale. Ci auguriamo di sbagliarci ma, visti i precedenti e la realtà quotidiana di tanti Paesi sedicenti “avanzati” che favoriscono lo sviluppo (soprattutto bellico) di Paesi sedicenti “meno avanzati” in lotta tra loro e non contro la desertificazione, che al contrario favoriscono ...

 


Italia: dalla teoria alla pratica...legale e non

Se, come detto, il nostro paese brilla per background culturale e legislativo nella redazione di leggi e piani assai nobili ed ispirati, non altrettanto può dirsi per la loro effettiva realizzazione.

Abbiamo già in passato dovuto occuparci di uno dei documenti citati nelle premesse del Programma nazionale per la lotta alla siccità e alla desertificazione e cioè del “Piano nazionale per lo sviluppo sostenibile”del 1993, forse il documento più bello ed ispirato ma anche quello che, perfino sul piano della divulgazione, non ha lasciato traccia di sé.

Nel caso in esame l’Italia, di solito piuttosto lenta nel recepire le istanze comunitarie ed internazionali, ha invece mostrato un’insolita solerzia nell’attivarsi: con la legge 4/6/1997 n. 170 il nostro Paese si è dotato di quel provvedimento di ratifica e di esecuzione necessario per rendere operativa anche nel nostro Paese la Convenzione sulla lotta contro la desertificazione.

Con il DPCM del 26/9/1997 veniva istituito il Comitato nazionale con il compito di seguire la predisposizione del piano d’azione nazionale nel contesto del bacino del Mediterraneo e di redigere un primo rapporto entro la fine del 1998.

Puntualmente, con la delibera CIPE n. 154 del 22/12/1998, arrivava la “Prima comunicazione nazionale in attuazione della UNCCD” a cui seguiva il 22/7/1999 la pubblicazione da parte del Comitato nazionale per la lotta alla desertificazione delle “Linee guida del piano di azione nazionale per la lotta alla desertificazione”.

Paradossalmente in questo documento, frutto di un’attività legislativa spasmodica, si evince che per combattere la desertificazione uno dei principi generali più importanti è l’applicazione e valorizzazione delle norme nazionali e comunitarie esistenti, favorendo l’attuazione da parte delle Regioni di leggi e programmi mirati.

Il Piano nazionale, deliberato dal CIPE il 21/12 1999, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il 15/2/2000, si apre con una lunghissima premessa di 4 colonne di atti, decreti, delibere, regolamenti e leggi che, almeno teoricamente, ci consentono di avere tutti i presupposti per ben operare su questo fronte, ammettendo di riuscire ad individuare correttamente tutte le competenze che regolano risorse idriche, suolo, attività agricola e forestale, rischi idrogeologici, riciclo dei rifiuti ed altri aspetti rilevanti ai fini della desertificazione.

Se poi lo Stato non ci riesce, ci penserà l’ecomafia a gestirne le fila con i risultati che si evidenziano proprio in termini, purtroppo, di degrado territoriale e culturale.


Coltivare una nuova cultura...

Ho partecipato recentemente ad un interessante ed istruttivo incontro per la presentazione di un innovativo sistema di aratura contro la desertificazione (sviluppato da un nostro valente agronomo, il dott. Venanzio Vallerani- vedi scheda) che ha visto la partecipazione di autorevoli rappresentanti della F.A.O., di tecnici della Cooperazione allo Sviluppo, delle ambasciate di numerosi Paesi e della altre agenzie dell’ONU che si occupano di queste tematiche.

Da più parti, nel corso del dibattito che ha visto la partecipazione di qualificati esperti con alle spalle anni di lavoro sul campo in varie parti del mondo, si evidenziato quanto importante sia la necessità di affrontare la lotta alla desertificazione, prima di tutto, “nella testa della gente” attraverso un educazione che punti alla prevenzione di certi fenomeni.

Sviluppare insieme una “cultura”nuova, e non già solo introdurre una nuova “coltura” può sembrare strano detto da tecnici agronomi con esperienze diverse maturate in continenti lontani, nel difficile lavoro di inserirsi in sistemi agricoli autoctoni vecchi di millenni con l’intento di apportare novità tecnico-scientifiche frutto di studi e di ricerche senza indossare i panni del neocolonialista.

Vincere la sfida contro il deserto sempre di più vorrà dire in futuro prevenire i prodromi di un degrado che ha radici lunghe nella innocente ignoranza delle popolazioni che nascono, vivono e muoiono senza sapere perchè e nella colpevole negligenza di chi manifesta la volontà politica di sottovalutare, ritardare o far finta di ignorare la necessità di prendersi cura delle basi stesse della vita e della civile convivenza tra gli uomini.

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Scheda 

Il sistema Vallerani

La tecnica tradizionale di scavo a mano di micro-bacini, diffusa da secoli in tutto il bacino del Mediterraneo e nelle isole Canarie e Capo Verde, è stata largamente adottata da tutte le Agenzie di cooperazione e considerata come una efficace pratica di aridocoltura.

Il Sistema Vallerani è un nuovo approccio tecnico e socio-culturale ai problemi del degrado ambientale, della desertificazione e della insicurezza alimentare nelle regioni aride e semi-aride del pianeta.

Sul piano tecnico il sistema si avvale principalmente di due aratri speciali che scavano nel terreno una serie di solchi a semiluna per la raccolta e la concentrazione delle risorse disponibili (acque di pioggia e di scorrimento superficiale, terra fina e materia organica).

Un trattore dotato di questo aratro è in grado di compiere il lavoro di 2000 uomini con una capacità lavorativa media di 2 ettari/ora (15 ha/giorno).

Il coefficiente medio di moltiplicazione dell’acqua e delle rese produttive agro-silvo-pastorali del sistema è 2-3 volte quello dei terreni non trattati e consente di produrre alimenti anche nelle condizioni più difficili.

La raccolta e concentrazione dell’acqua di pioggia permette la crescita di colture erbacee ed arboree che vengono seminate direttamente in loco (e non più utilizzando le piantine da vivaio, ad apparato radicale superficiale e necessitanti quindi continua irrigazione di soccorso): questo rende la riforestazione quanto più rapida, economica ed efficace possibile.

Sul piano sociale, esso solleva le comunità interessate dai lavori più duri di difesa ambientale (scavo delle buche, preparazione dei vivai, trapianto delle piantine, irrigazione delle stesse) consentendo loro di dedicarsi più facilmente a quelli leggeri e complementari.

Un rapporto non dirigistico, aperto ed interattivo, fra la direzione tecnica del programma di riqualificazione e le comunità interessate, è fondamentale per conquistare la fiducia della popolazione e per promuoverne rapidamente, attraverso una opportuna educazione ambientale, la partecipazione attiva, cosciente e responsabile alle tematiche e alle azioni di risanamento ambientale e produttivo.

Proprio in virtù della sua efficacia, economicità e semplicità applicativa - che minacciano consolidate ma superate strategie di sviluppo - il sistema Vallerani è stato fortemente avversato, sia a livello nazionale che internazionale, da una ristretta ma agguerrita schiera di tecnici.

Ciò nonostante dove è stato possibile promuovere la sua introduzione (Burkina Faso, Niger, Senegal, Ciad) nel quadro di programmi finanziati da Agenzie nazionali e internazionali (FAO, IFAD, Cooperazione tedesca, danese e svizzera) i risultati sono stati sempre estremamente positivi, in particolare per quanto concerne la produzione agro-alimentare e il miglioramento dei pascoli.

Questo sistema, nato da 50 anni di esperienza professionale vissuta con una coinvolgente umanità partecipe alle difficoltà di vita delle popolazioni che ha conosciuto, punta a realizzare nel breve, medio e lungo termine quella valorizzazione integrata delle risorse umane e naturali che, sotto il nome di “sviluppo eco-compatibile”, potrebbe arginare quel deserto che spesso segue e non precede l’arrivo dell’uomo.

Vallerani lancia ora una nuova sfida alle istituzioni: con i suoi aratri si potrebbe realizzare una fascia di 6000 km di lunghezza per 10 di profondità per fermare il fronte del deserto che avanza nel Sahel, con un costo di 300 miliardi (il costo di 10 aereoplani da guerra...).

Quale guerra preferiranno combattere i governi e le istituzioni internazionali di quest’area “calda” in tutti i sensi del pianeta? Ai posteri l’ardua sentenza...

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Riquadro

LA STANCHEZZA DELLA TERRA

Cause ed effetti della desertificazione

Le regioni aride, caratterizzate da equilibri ecologici molto delicati in quanto a causa del clima la quantità di acqua perduta attraverso l’evaporazione è superiore talvolta a quella caduta con le piogge, costituiscono circa il 47% di tutte le terre emerse.

In molte regioni aride del pianeta la qualità del suolo si va rapidamente deteriorando in modo tale da non poter più permettere la vita animale e vegetale, dando luogo a quel processo denominato “desertificazione”.

La Convenzione delle Nazioni Unite per la lotta alla desertificazione definisce con questo termine “il degrado delle terre nelle zone aride, semi-aride e subumide secche provocato da diversi fattori, tra i quali le variazioni climatiche e le attività umane”.

Circa 1/5 di queste zone ha già subito questo processo in maniera più o meno grave che ora rischia di estendersi a vaste aree in tutti i continenti: in Europa, dove sono presenti circa il 6% delle zone aride del pianeta la desertificazione ha già colpito 1/3 di queste terre - in Italia sono a rischio le regioni del Mezzogiorno, la Sicilia e la Sardegna.

Tale degrado del territorio è dovuto a varie cause:

  • naturali: caratteristiche climatiche - siccità, piogge brevi ma intense, vento;

    caratteristiche dei suoli - basso contenuto di argilla e di sostanza organica;

    fenomeni erosivi dovuti alla forma del paesaggio (esposizione solare e presenza di pendii lunghi, ripidi; presenza e varietà della vegetazione)

  • antropiche: utilizzo improprio delle risorse idriche - pozzi, sfruttamento dei fiumi, dighe;

deforestazione ed incendi;

attività agricole e zootecniche improprie - uso di macchine, lavorazioni ed

irrigazioni non idonee, monocolture, impiego di fertilizzanti e pesticidi,

pascolo eccessivo;

variazioni nell’uso del territorio - espansione delle aree urbane, abbandono delle campagne;

cambiamenti climatici indotti dall’uomo - alterazione della composizione dell’atmosfera terrestre.


La desertificazione minaccia oggi ambienti naturali e insediamenti, culture e attività produttive di oltre 1 miliardo di persone in oltre 100 Paesi contribuendo a determinare:

  • erosione dei suoli

  • impoverimento delle falde acquifere

  • tempeste di sabbia

  • danni alla vegetazione e alla fauna

  • frane ed inondazioni improvvise

  • aumento della povertà

  • esodo di popolazioni

  • incremento dell’urbanizzazione

  • aumento dei conflitti sociali ed etnici, instabilità politica, conflitti armati

  • malnutrizione, fame e carestie

  • effetti sulla salute (indebolimento delle difese immunitarie, malattie respiratorie, allergie, infezioni agli occhi).

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