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  • Mario Draghi e quella fatale predilezione per gli oligopoli multinazionali

    Dopo le elezioni europee di giugno, Mario Draghi consegnerà nelle mani della presidente uscente della Commissione europea Ursula von der Leyen un rapporto sulla “competitività” dell’Unione. Il 16 aprile scorso, intervenendo alla Conferenza di alto livello sul pilastro europeo dei diritti sociali a La Hulpe, appena fuori Bruxelles, l’ex presidente del Consiglio italiano ne ha anticipato in cinque pagine “struttura e filosofia”. Ha parlato di un necessario “cambiamento radicale” per poter “realizzare la trasformazione dell’intera economia europea” di fronte a un “mondo che sta cambiando rapidamente e ci ha colto di sorpresa”. E ha dipinto l’Europa come quel giocatore un po’ tonto che non s’è accorto che gli altri al tavolo lo stanno fregando: “Altre regioni non rispettano più le regole e stanno elaborando attivamente politiche per migliorare la loro posizione competitiva -ha detto Draghi, citando i casi di Cina e Stati Uniti-. Nella migliore delle ipotesi, queste politiche sono progettate per reindirizzare gli investimenti verso le loro economie a scapito delle nostre; e, nel peggiore dei casi, per renderci permanentemente dipendenti da loro”.

    Per non morire vassalli ha perciò indicato tre filoni prioritari: consentire economie di scala superando la frammentazione tra Stati membri, garantire una fornitura quanto più unitaria di beni pubblici (dal mercato energetico alle infrastrutture di supercalcolo), occuparsi insieme di risorse e input essenziali, prevedendo ad esempio una piattaforma europea dedicata ai minerali critici per la transizione. Ha parlato anche dell’offerta di lavoratori qualificati, perché “con le società che invecchiano e gli atteggiamenti meno favorevoli nei confronti dell’immigrazione, avremo bisogno di trovare queste competenze internamente”.

    In definitiva, il “consolidamento va sostenuto, non ostacolato”. Del resto “i nostri rivali ci stanno precedendo perché possono agire come un unico Paese con un’unica strategia e allineare dietro di essa tutti gli strumenti e le politiche necessarie. Se vogliamo eguagliarli, avremo bisogno di un rinnovato partenariato tra gli Stati membri”.

    Presentata come la sferzata del genio, in realtà è la solita idea trita e ritrita di favorire l’ascesa di pochi e fortissimi “campioni europei” in grado di “competere” su scala globale. A tutti i costi, naturalmente, superando anche quelli che vengono percepiti e presentati all’opinione pubblica come inutili balzelli normativi, concorrenziali o fiscali. E assicurandogli generosi sussidi pubblici. Una ricetta già sperimentata e fatale, come aveva ribadito dieci giorni prima dell’intervento di Draghi una rete di organizzazioni e centri di ricerca indipendenti che si occupano di giustizia economica e trasparenza fiscale. Da Open markets a Somo, da Lobby control al Balanced economy project, da Foxglove a The good lobby, hanno pubblicato un agile manifesto intitolato “Rebalancing Europe”, cioè riequilibrare l’Europa.

    La priorità è esattamente opposta a quella che si vuol far bere da La Hulpe subito dopo la tornata elettorale: ed è proprio quella di contrastare il potere dei giganti multinazionali che attraverso concentrazioni oligopolistiche minacciano la democrazia, la libertà e anche la prosperità dei cittadini dell’Ue, distruggendo l’ambiente e la salute. Siano essi finanziari, tecnologici, energetici, farmaceutici, agroalimentari o nel campo dei trasporti. Perché l’Europa non ha bisogno di ulteriori cartelli tra giganti da porre al di sopra delle parti o delle leggi nel nome della “competitività”, ma semmai di un’economia inclusiva, dinamica, resiliente, democratica, decentrata e solidale, in cui le piccole e anche le grandi imprese possano agire e nella quale una concorrenza sana -e non quella spietata del modello neoliberale- possa agire in maniera equa.

    Paradossalmente, fanno notare gli autori di “Rebalancing Europe”, negli Stati Uniti (con un ordine esecutivo del 2021 dell’amministrazione Biden) ma anche in Australia, Canada, Germania, Corea del Sud e Regno Unito si stanno affermando (a fatica, va detto) proposte normative che tentano di limitare il monopolio delle corporation. Mica di favorirlo. Draghi aggiornerà le bozze?

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  • Lavoro di cura, lavoro senza tutele

    Sono 1,85 milioni gli impiegati del settore domestico in Italia. Più di uno su due non ha contratto (961mila) e il 42% di chi è assunto come badante lavora più di 40 ore a settimana. I datori di lavoro (regolari e non) sono invece due milioni: il 38% paga in contanti. Nel 52% dei casi il rapporto di lavoro si chiude per licenziamento

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  • Monitor, osservatorio sul mondo (maggio 2024)

    Al via il processo sui "Panama Papers". L'emergenza rapimenti a scopo di riscatto in Nigeria. L'arruolamento forzato della minoranza Rohingya da parte della giunta militare in Myanmar. I migranti cinesi raggiungono gli Usa passando dal Messico

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  • Le prefetture non controllano i Cpr. Inchiesta su appalti e gestione

    Dall’esame delle offerte di gara presentate da diversi enti gestori dei centri per il rimpatrio emergono carte false o promesse inverosimili. Da Nord a Sud, il monitoraggio pubblico latita. Mentre si vuole esportare il modello in Albania

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  • Le inchieste indipendenti di +972 rompono la propaganda su Gaza

    Il direttore della testata israeliana Haggai Matar racconta lo stretto legame tra il giornalismo e la retorica nazionalista. Il suo team, composto anche da reporter palestinesi attivi pure in Cisgiordania, è una voce unica e rara nel Paese

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