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  • Psicofarmaci all’Ipm “Beccaria” di Milano: l’altra faccia di abusi e torture

    “I ragazzi distesi a letto alle 11 di mattina in un giorno infrasettimanale: stanchi, secondo il personale, a causa di poche ore di scuola. Alcune situazioni le abbiamo osservate solamente al ‘Beccaria'”. Michele Miravalle, coordinatore dell'osservatorio sulle condizioni di detenzione di Antigone, associazione che monitora le condizioni dei reclusi nelle carceri italiane, ricorda bene le “sezioni sedate” dell’Istituto penale per minorenni milanese. Lo stesso in cui l’acquisto di psicofarmaci, secondo i dati ottenuti da Altreconomia, è aumentato del 219% tra il 2020 e il 2022.

    I farmaci sono l’altra faccia degli abusi e delle torture per cui sono indagati 21 agenti della polizia penitenziaria, poco meno della metà di quelli in servizio (50). “Oggi sappiamo -riprende Miravalle- che la vitalità che caratterizza tutti gli Ipm veniva narcotizzata con due strategie: la violenza e la contenzione farmacologica”.

    E lo raccontano le spese effettuate dal presidio medico interno all’Ipm. Come detto, dal 2020 al 2022 la crescita della spesa totale in psicofarmaci è del 219%, passando da 715 euro a 2.173. Un dato al ribasso perché l’Agenzia di tutela della salute (Ats) milanese non ha comunicato il codice Atc, cioè l’etichetta che contraddistingue ogni scatola di farmaco, per il 18% degli acquisti. Nel 2022 sono state comprate soprattutto benzodiazepine, farmaci con un forte effetto sedativo e antipsicotici, prescrivibili per gravi patologie psichiatriche come il disturbo bipolare e la schizofrenia.

    Come riporta Antigone nel rapporto "Prospettive minori" pubblicato a inizio 2024, però, sugli oltre 70 reclusi presenti “quasi tutti presentavano una forma disagio psichico” ma solamente “cinque o sei avevano una diagnosi psichiatrica certificata”: l’aumento della complessità dei casi di chi fa ingresso negli Ipm non sembra però “giustificare” la relativa crescita nell’uso di psicofarmaci (registrata, anche se con dati minori, in diversi Ipm italiani). Soprattutto considerando il “contesto” del Beccaria.

    Calcolando la spesa a persona per antipsicotici, si passa da 12 euro nel 2021 a 27 nel 2022: un aumento del 122%. Per la categoria ansiolitici, nello stesso periodo di tempo la crescita è del 176% mentre per gli ipnotici, addirittura, gli acquisti crescono del 2.200% arrivando a una spesa di 1,38 euro a detenuto nel 2022. Sembrano importi "bassi" ma la lettura è più complessa: non è possibile infatti conoscere il numero di scatole ma alcuni ordini sono inferiori, in termini di costo, ai dieci centesimi. "Dati che segnalano quanto quel luogo fosse fuori da ogni parametro di normalità -riprende Miravalle-. A essere normalizzata, scopriamo dalle indagini, era invece la violenza: capita quando per tutti gli operativi non la vedevano più e ne sono assuefatti”.

    Nella struttura vigeva “un sistema consolidato di violenze reiterate, vessazioni, punizioni corporali, umiliazione e pestaggi di gruppo realizzati dagli agenti ai detenuti minorenni”, ha scritto a metà aprile la Giudice per le indagini preliminari Stefania Donadeo nell’ordinanza che ha portato all’arresto di 13 agenti (oggi in carcere ne rimangono dieci, a tre sono stati concessi i domiciliari a seguito dell’interrogatorio di garanzia) e alla sospensione di altri otto. “Le violenze perpetrate corrispondono esattamente a una pratica reiterata e sistematica -scrive ancora la giudice- su cui si fonda la convivenza dei detenuti degli agenti che vogliono stabilire le regole di civile convivenza nel carcere ed imporre picchiando, aggredendo offendendo i minori detenuti” costretti non solo a subire i pestaggi ma anche ad “assistere a quelli del compagni di cella e a volte ad udire urla di dolore”.

    “Fa impressione sapere che nello scalone, percorso tante volte, che porta all’infermeria avvenivano le violenze -racconta un medico che ha lavorato al ‘Beccaria’ e preferisce mantenere l’anonimato-. Così come il fatto che la cella usata per l’isolamento sanitario era la stessa in cui venivano reclusi i ragazzi una volta picchiati”. Come nel caso di T., che “dopo essere stato ammanettato con le mani dietro la schiena è stato pestato con calci, pugni, anche nelle parti intime e poi chiuso per dieci giorni in cella di isolamento senza gli effetti personali e senza materasso e cuscino”.

    “Alcuni reclusi dormivano con la doppia felpa. Significa che sai che subirai un abuso e ti preparai: questo fotografa il fallimento del sistema” - Michele Miravalle

    Una delle tante scene di abusi e tortura ricostruito durante più di un anno di indagini nate a seguito della segnalazione del Garante dei detenuti di Milano Francesco Maisto, che ha raccolto a sua volta la denuncia dell’ex consigliere comunale David Gentili. “M. veniva condotto in infermeria al piano inferiore dove nel corridoio lo aspettavano circa dieci agenti, uno di questi apriva la cella di isolamento e diceva a S. di entrare; F. lo spogliava lasciandolo completamente nudo e ammanettato; a questo punto M. toglieva la cintura e G. lo colpiva con più cinghiate anche sulle parti genitali fino a provocarne il sanguinamento mentre F. continuava a coprirlo con numerosi calci; lo lasciavano completamente nudo dentro la stanza per un’ora senza nessun indumento o coperta; il mattino successivo lo sceglievano per spostarlo dalla sua cella e lo colpivano nuovamente in faccia con schiaffi e pugni, insultandolo con termini quali ‘sei un bastardo, sei un arabo zingaro, noi siamo napoletani, voi siete arabi di merda, sei venuto ieri…’; lo trasportavano in una cella singola dove lo colpivano nuovamente in faccia e sul naso”. A inizio maggio la Procura ha acquisito anche le cartelle sanitarie dei reclusi a partire dalla fine del 2021 per vagliare l'esistenza di referti con prognosi ammorbidite o inesistenti dopo i pestaggi ripresi dalle telecamere.

    [caption id="attachment_193626" align="aligncenter" width="1024"] Un disegno su un muro di una cella all'interno del "Beccaria" di Milano © Antigone[/caption]

    Sono per adesso 12 le vittime che hanno denunciato gli abusi e 21 gli agenti indagati, compreso il comandante a cui sono stati concessi gli arresti domiciliari il 22 aprile. L’età media degli agenti è di 31 anni e, come detto, sono coinvolti quasi la metà di quelli in servizio. Una violenza, ordinanza di custodia cautelare alla mano, che era “gratuita e generalizzata da parte di alcuni, molti, agenti penitenziari ed era da tutti i minorenni conosciuta, vissuta, patita, udita”. Tanto che in diversi casi descritti i ragazzi prevenivano, come potevano, gli abusi. “D. avvisava il compagno: mi stanno picchiando, stai attento che vogliono picchiare pure te -si legge-. Un detenuto della cella di fronte nel frattempo lo avvisava che un gruppo di agenti stava salendo di corsa dalle scale; percepito il pericolo di un’imminente pestaggio l’altro compagno di cella bagnava il pavimento della cella per renderlo scivoloso ed entrambi si cospargevano il corpo con acqua e sapone per rendersi sfuggenti alla presa degli agenti”. Un aspetto inquietante secondo Miravalle. “Alcuni dormivano con la doppia felpa. Significa che sai che subirai un abuso e ti prepari: questo fotografa il fallimento del sistema”.

    Il “Beccaria” nel giro di qualche anno si è trasformato da “modello da seguire” a potenziale teatro del primo caso di torture in un Ipm italiano. A fine 2023 la capienza è aumentata da 30 a 70 posti grazie alla riapertura dell’ex padiglione femminile: secondo i dati di Antigone al 20 gennaio 2024 i reclusi erano 72 di cui 20 maggiorenni e 52 minorenni (26 italiani e 46 stranieri, di cui 32 non accompagnati). Un aumento delle presenze a cui non è corrisposto un’adeguata riorganizzazione del personale: se gli agenti in servizio erano 71 (sempre a gennaio 2024, poi scesi a 50 a metà aprile) i funzionari giuridico pedagogici appena sei a fronte dei 18 previsti. E tutto questo in assenza di un direttore fisso e non a scavalco su più istituti durato quasi vent’anni (due direttrici sono indagate). Solo dal primo dicembre 2023 si è insediato un direttore ad hoc. “La violenza non nasce dal nulla -riprende il medico che ha lavorato al ‘Beccaria’ citato prima e che ha parlato con Altreconomia- ma da un luogo che permette a questi comportamenti di attecchire. Fatico a capire come il personale sanitario e quello trattamentale non si siano mai accorti di nulla”.

    Sei giorni fa in piena notte è scoppiato un incendio in due celle al secondo piano della struttura. Sembra che 67 detenuti sugli 82 totali siano stati accompagnati in aree comuni dove alcuni di loro hanno cominciato a danneggiare gli arredi. Per il Beccaria non c’è pace. “A mio avviso ogni cesello è inutile -conclude Miravalle-, servono scelte radicali: la struttura va chiusa e ripensata dalle fondamenta, a cominciare dagli spazi”.

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  • Nasce la campagna per il monitoraggio civico delle Olimpiadi invernali di Milano-Cortina

    Il 14 maggio a Pieve di Cadore, in provincia di Belluno, verrà presentata la prima campagna internazionale di monitoraggio civico sui prossimi Giochi olimpici invernali di Milano-Cortina 2026 per chiedere trasparenza sui costi e sulla modalità di realizzazione dell’evento nonché un maggior coinvolgimento della società civile e dei cittadini. L’iniziativa, intitolata Open olympics 2026, si rivolge ai soggetti internazionali e nazionali che a diverso titolo sono coinvolti nella realizzazione dei Giochi olimpici: dal Comitato olimpico internazionale (Cio) al Coni, dalla Società infrastrutture Milano-Cortina (Simico Spa) ad Anas Spa, dalla Fondazione Milano-Cortina 2026 al ministero per lo Sport del Governo Meloni. La campagna è sostenuta da una rete di 20 associazioni nazionali ed estere, tra cui Libera, Mountain Wilderness, Cipra Italia, Wwf, Legambiente e il Club alpino italiano (Cai).  

    “Lo scopo di Open Olympics 2026 è quello di garantire la trasparenza e la partecipazione dal basso che gli organizzatori dell’evento hanno sempre negato -ha raccontato ad Altreconomia Luigi Casanova, presidente di Mountain Wilderness Italia e autore di 'Ombre sulla neve', il libro inchiesta sulle prossime Olimpiadi invernali-. I dati che presenteremo il 14 maggio riguardano i costi e i tempi di realizzazione delle opere, le modalità con cui si è svolta la gara di appalto e le società che l’hanno vinta”. Il lavoro che verrà presentato è, infatti, frutto di un percorso di confronto e di raccolta dati da parte delle associazioni e dei cittadini durato diversi mesi. 

    Uno dei principali rischi di una scarsa trasparenza è quello di infiltrazioni mafiose nei cantieri e negli appalti. “I costi delle Olimpiadi sono saliti a un totale di 5,7 miliardi di euro, una cifra parecchio appetibile per la criminalità organizzata -continua Casanova-. Non stiamo dicendo, ovviamente, che queste infiltrazioni ci siano state di sicuro, ma la mancanza di trasparenza su appalti e contratti e il diffuso ricorso al commissariamento lo rendono un rischio concreto”. Un’opinione condivisa anche da Libera; Luigi Ciotti, presidente e fondatore dell’associazione, sarà tra i relatori che interverranno durante la presentazione di Open olympics. 

    Il monitoraggio civico non si fermerà il 14 maggio, ma anzi continuerà a esaminare la realizzazione delle opere non solo fino all’evento ma anche dopo. Molti delle opere ritenute necessarie per le Olimpiadi invernali verranno, infatti, ultimate dopo il 2026. Se gli impianti, le piste da sci e le altre infrastrutture strettamente necessarie allo svolgimento dell’evento, e quindi etichettate come essenziali-indifferibili, dovranno essere realizzate entro l’inizio della manifestazione non è così per infrastrutture come bretelle stradali e ferroviarie che avranno una scadenza molto più lunga, fino al 2032. E si tratta di una quota non indifferente, su 80 opere legate ai giochi olimpici ben 60 saranno completate, e di conseguenza finanziate, anni dopo il termine delle Olimpiadi. 

    Oltre a presentare i risultati della prima fase della campagna, il 14 maggio si terrà anche un laboratorio di monitoraggio civico per favorire la creazione di “comunità monitoranti” di cittadini, per una vigilanza civile delle opere e del loro impatto sul territorio. “Come persone e comunità che vivono i luoghi delle opere in quanto storici presidi di tutela e cura del territorio, intendiamo conoscere come esso cambierà, al fine di valutare adeguatamente l’impatto sulle nostre vite e sull’ambiente. Ciò è garantito solo avendo costante informazione e trasparenza riguardo alle spese effettuate direttamente e indirettamente in concomitanza con interventi inerenti al paesaggio”, scrivono gli organizzatori dell’iniziativa.  

    Lo scopo dell’evento è anche quello di chiedere al Cio di rivedere le linee guida dei grandi eventi in modo da promuovere la partecipazione dal basso delle comunità, riducendo al contempo costi e impatto ambientale di questi eventi. “Siamo convinti che il Comitato olimpico internazionale debba aggiornare la propria carta olimpica per quanto riguarda la sostenibilità -conclude Casanova-. Le Olimpiadi di Milano-Cortina sono state presentate come un evento sostenibile è che avrebbe utilizzato solo infrastrutture già esistenti ma la realtà è del tutto diversa. Il rischio, come nel caso della pista da bob di Cortina o del trampolino per le gare di salto con gli sci a Predazzo, è di costruire cattedrali nel deserto che verranno abbandonate al termine dei giochi”. 

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  • Voci dall’ospedale Al-Aqsa: sopravvivere alla paura di diventare la prossima fossa comune

    Ali Tawil, trent’anni, è un cardiologo di Gaza. Lavora all’ospedale Al-Aqsa a Deir al-Balah, l’unico rimasto funzionante nella zona centrale della Striscia. Nonostante si tratti di una struttura di piccole dimensioni, adesso serve cinque città, dove gli attacchi si sono intensificati ad aprile, uccidendo decine di persone, soprattutto bambini, lasciando nell'incertezza chi vive e lavora all’interno. Da quando è iniziata la guerra, Tawil deve occuparsi anche dei reparti di primo soccorso e terapia intensiva con turni di 48 ore. Il personale sanitario è stato costretto a spostare e rimontare i macchinari da altri reparti per espandere l'unità di terapia intensiva. 

    "Quando senti il rumore delle esplosioni nelle vicinanze, non hai solo paura di morire, temi che un massacro possa avvenire da un momento all'altro se l'ospedale venisse colpito -spiega ad Altreconomia il dottor Tawil-. Allo stesso tempo, devi prepararti per l'arrivo imminente di una massa di feriti, sapendo che non riuscirai a salvare tutti e consapevole che infliggerai un dolore lancinante ai bambini che curerai senza anestesia". Anche quando i feriti sono in condizione di lasciare l'ospedale, si rifiutano di farlo. Alcuni sono profondamente traumatizzati e non escono dall'edificio per paura di essere nuovamente colpiti dai bombardamenti. Intere famiglie vivono all'interno della struttura, altre dormono per terra nei corridoi, altre ancora nelle tende che circondano lo spazio esterno dell'ospedale. 

    Le strutture ospedaliere di Gaza ospitano un numero senza precedenti di feriti e fungono da rifugio per migliaia di sfollati che vivono sotto la costante minaccia dell'esercito israeliano. Solo 12 dei 36 ospedali della Striscia sono attivi a inizio maggio. L'Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ha registrato più di 440 attacchi a complessi medici e ospedalieri dall'inizio della guerra, con oltre 700 persone uccise all'interno o in prossimità di strutture sanitarie. Le autorità israeliane hanno limitato l'ingresso di forniture mediche, colpito le ambulanze durante le operazioni di soccorso e bombardato i principali ospedali della Striscia, oltre a rapire e torturare civili e personale medico. Dopo settimane di assedio, negli ospedali di Al-Shifa a Gaza City e Al-Nasser a Khan Younis, sono stati ritrovati centinaia di corpi senza vita in delle vere e proprie fosse comuni. 

    Anche il cortile esterno di Al-Aqsa è stato colpito da un razzo israeliano alla fine di marzo. Quattro persone sono morte e 17 sono rimaste ferite nell'impatto. Poche ore prima dell'attacco, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite aveva annunciato una risoluzione per il cessate il fuoco, dando a molti palestinesi la speranza che qualcosa potesse cambiare in meglio. Al momento di quell’attacco il dottor Tawil stava per iniziare il suo turno. "Mi sono detto: forse questo è l'inizio di un'operazione su larga scala? Potevo decidere se andarmene o restare, ma sono un medico, questo è il posto a cui appartengo e ho il dovere di aiutare la mia gente quanto più possibile. La vita deve continuare, ogni vita è degna e preziosa”. 

    I medici di Al-Aqsa stanno registrando un aumento esponenziale dei casi di epatite A dovuti alla contaminazione dell'acqua. Solitamente l’epatite A non è una patologia mortale ma le insufficienti condizioni igieniche e il prolungato indebolimento fisico della popolazione stanno adesso causando molti decessi. Con l'inizio dell'offensiva nel Sud della Striscia, la zona centrale si prepara ad accogliere un numero ancora più alto di sfollati. Centinaia di persone potrebbero stabilirsi nei dintorni dell'ospedale, che, con il blocco totale del valico di Rafah, dovrà far fronte ad ulteriori limitazioni di rifornimenti. 

    Moamen Hassouna, 32 anni, è un autista originario di Az Zawayda. La sua casa è stata distrutta da un bombardamento in cui hanno perso la vita 15 persone. Da ottobre vive in una delle 200 tende nel cortile dell'ospedale Al-Aqsa. Non credeva che una struttura medica potesse diventare un bersaglio, pensava che sarebbe stato il luogo più sicuro dove ripararsi. 

    [caption id="attachment_193604" align="alignnone" width="1076"] La casa distrutta di Moamen[/caption]

    "Quando l'ospedale viene colpito la gente va nel panico e cerca di evacuare, ma la realtà è che non abbiamo un altro posto dove andare", come spiega Moamen, l'ospedale non è solo un rifugio, ma anche una fonte accessibile per acqua ed elettricità, che mancano disperatamente nella zona. "Possiamo scegliere tra restare qui, consapevoli di poter diventare la prossima fossa comune ritrovata sotto le macerie di un ospedale, o trasferirci nelle città circostanti, senza risorse e comunque sotto minaccia". 

    Il diritto umanitario internazionale riconosce gli ospedali come strutture civili che non possono essere attaccate. Anche se ci fosse la presenza di un gruppo armato all'interno, i malati devono essere trasferiti in un luogo sicuro. Tuttavia, evacuare gli ospedali è un'operazione impegnativa e ad alto rischio. Ci sono neonati e feriti dipendenti dalle macchine, oltre che pazienti con fratture e ustioni incapaci di muoversi autonomamente. Chi attacca ha l'obbligo di avvertire per tempo prima di colpire ed è responsabile di prendere tutte le precauzioni per evitare danni ai civili. 

    Ibrahim Matar, 28 anni, è un medico generico per il quale Al-Aqsa è stato sia il luogo di lavoro sia la sua unica casa, per mesi. Con difficoltà il dottore ha deciso di evacuare in Egitto per mettersi in salvo, e adesso collabora con un'associazione per inviare farmaci a Gaza. "È la prima volta che sono all'estero -spiega Matar-. Per giorni sono rimasto scioccato nel vedere che c'è vita fuori da Gaza, le case hanno un tetto, non ci sono bombe e le persone vivono normalmente. Controllo compulsivamente le notizie. La mia famiglia è al Nord, sono anziani e innocenti, perché devono morire di fame?". 

    I traumi del lavoro e delle condizioni di vita all'interno dell'ospedale emergono adesso che vive in un luogo sicuro al Cairo. Il medico racconta di una bambina che si è miracolosamente risvegliata da una sorta di coma causato da gravi ferite. Quando ha ripreso conoscenza, Matar le ha chiesto che cosa stesse sognando: "Un cessate il fuoco che duri per sempre", ha risposto lei. Nessun membro della sua famiglia è sopravvissuto, e i medici non sapevano come dirglielo. 

    "È un insulto all'umanità. Ci sono corpi in decomposizione per strada, queste sono persone con delle famiglie che stanno ancora sperando che i loro cari siano solo dispersi. Mentre lavori, sai che uno dei feriti o dei morti che arrivano in ospedale potrebbe essere tuo figlio, tua moglie, tua madre. Un genocidio sta accadendo. Sotto gli occhi di tutti". 

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  • I tribunali delle corporation minacciano il Mozambico. Il ruolo di Eni, Intesa e Unicredit

    Il Mozambico affronta un rischio economico considerevole “a causa della sua esposizione alle richieste di risoluzione delle controversie” da parte di investitori stranieri attivi nei settori del carbone, del petrolio e del gas. Un rischio stimato in 29 miliardi di dollari, “quasi il doppio del prodotto interno lordo del Paese che nel 2019 ammontava a 15 miliardi di dollari”, come si legge nel reportBillion-dollar exposure” realizzato dalla Columbia University e commissionato dalle organizzazioni ambientaliste Justiça Ambiental! (Friends of the Earth Mozambique) e Friends of the Earth Europe.

    Le aziende fossili presenti nel Paese -tra cui TotalEnergies ed Eni- possono infatti chiedere risarcimenti miliardari nel caso in cui il governo di Maputo decidesse di adottare misure d’interesse pubblico che potrebbero andare a incidere sui loro profitti, come ad esempio normative di tutela ambientale che limitino l’estrazione di combustibili fossili, leggi a favore dei diritti dei lavoratori o una revisione al rialzo delle tariffe per lo sfruttamento dei giacimenti.

    Una procedura affatto trasparente, dal momento che non si tratta di un ricorso amministrativo che viene dibattuto davanti a un tribunale pubblico, sulla base di un Investor-State dispute settlement (Isds), un arbitrato internazionale esterno al sistema giudiziario ordinario chiamato a decidere sulle controversie tra “investitori privati” e Stati previsto in molti trattati internazionali.

    Lo studio ha preso in considerazione 25 International investment agreements -ovvero gli accordi siglati dal governo del Mozambico con altrettanti Paesi stranieri- e 22 contratti pubblicamente accessibili sottoscritti con aziende private attive nel comparto fossile (petrolio, gas e carbone). “Tutti contengono una clausola Isds che consente all’investitore di avanzare richieste di risarcimenti per i danni subiti a causa di misure adottate da Maputo”, si legge nel report.

    Tra le clausole più controverse ci sono le cosiddette stabilization clauses che “proteggono” gli investimenti delle aziende da cambiamenti nelle normative per tutta la durata del contratto impedendo, di fatto, l’approvazione di leggi che garantiscono una migliore tutela ambientale, i diritti umani e quelli dei lavoratori. Ci sono poi le cosiddette “clausole di equilibrio economico” e di ripartizione degli oneri, in base alle quali se una modifica della legge incide sugli interessi economici del concessionario, le parti devono concordare le modifiche necessarie da apportare ai contratti per ripristinare la posizione economica originaria dell'investitore.

    “La conseguenza diretta di questi contratti è che ‘bloccano’ il Paese per tutta la loro durata, senza dare la possibilità al Mozambico di cambiare né il regime fiscale né il quadro legale -spiega ad Altreconomia Lea Di Salvatore, ricercatrice presso l’università di Nottingham e autrice dello studio-. E lo fanno per un periodo di tempo molto lungo dal momento che questi contratti hanno una durata media di circa 25 anni, durante i quali il Mozambico ha rinunciato alla possibilità di legiferare o di cambiare quelle normative che possano impattare sul profitto dell'investitore”.

    Una situazione particolarmente allarmante e che segna l’impossibilità -di fatto-di una transizione energetica verso fonti rinnovabili del Mozambico dal momento che tutti i contratti analizzati sono stati siglati tra il 2000 e il 2019. Alcuni, inoltre, prevedono esplicitamente la possibilità di prolungare i termini come nel caso di una concessione firmata nel 2014 per lo sfruttamento per 25 anni di una miniera di carbone e che prevede di continuare l’attività per lo stesso periodo di tempo. Ovvero fino al 2064.

    Altrettanto preoccupante è la questione fiscale. "Alcune clausole impediscono di cambiare il gettito fiscale derivante dallo sfruttamento di gas, petrolio e carbone da parte delle società -continua Di Salvatore-. Il Mozambico sta puntando su queste risorse per promuovere una crescita economica del Paese che però ancora non si è vista e difficilmente si vedrà perché, per come è regolamentata la tassazione, nelle casse statali finisce poco o nulla. Su diversi contratti è scritto chiaramente che modifiche in questo senso rappresentano una violazione dello stesso".

    Sfidare le società fossili e rimettersi al giudizio di un arbitrato internazionale può essere un azzardo rischioso. Non solo perché sono quelle che fanno più frequentemente ricorso agli Isds ma perché “la maggior parte dei casi relativi alle aziende fossili si risolvono con una decisione a loro favore -si legge nel rapporto 'Investor-State disputes in the fossil fuel Industry' pubblicato nel 2021-. Questo è particolarmente evidente nel giudizio di merito, dove gli investitori hanno successo nel 72% dei casi”.

    Difficile quindi pensare che il governo di Maputo possa sfidare le multinazionali fossili anche perché le potenziali passività Isds derivanti dai soli progetti petroliferi e del gas equivalgono, come detto, a 29 miliardi di dollari. Una cifra sufficiente a “coprire quasi un decennio di spese governative per il contrasto alla povertà e al raggiungimento degli Obiettivi di sviluppo sostenibile”, evidenzia il report Billion-dollar exposure

    "Questi rischi finanziari non fanno altro che aggiungere altra benzina all’incendio causato dai grandi progetti per l’estrazione di gas in Mozambico -ha commentato Daniel Ribeiro, di Justiça Ambiental-. I progetti hanno contribuito all'insicurezza e alla violenza nella regione e hanno provocato lo sfollamento delle comunità locali. Ora è chiaro che le argomentazioni economiche a favore del loro proseguimento non reggono".

    La questione degli accordi contrattuali diseguali tra Paesi fragili come il Mozambico e le multinazionali fossili europee e statunitensi è ancora più rilevante alla luce dell’annuncio da parte di TotalEnergies di voler riprendere al più presto i lavori per lo sviluppo del terminal per l’estrazione e la liquefazione del gas naturale in costruzione ad Afungi, nella provincia di Cabo Delgado, nel Nord del Paese.

    Un progetto di enormi dimensioni sia economiche (l’investimento previsto è di 20 miliardi di dollari) sia per quanto riguarda l’impatto sull’ambiente: se completato, infatti, porterà all’emissione in atmosfera tra i 3,3 e i 4,5 miliardi di tonnellate di carbonio. Una quantità persino più elevata rispetto alle emissioni annuali di tutti i 27 Paesi dell’Unione europea.

    I lavori erano stati interrotti nel 2021 per “cause di forza maggiore” a seguito dell’attacco di miliziani islamisti che, tra agosto 2020 e marzo 2021, avevano preso il controllo di ampi territori della provincia di Cabo Delgado, comprese le città di Mocímboa da Praia e di Palma. Quest’ultima in particolare si trova a pochi chilometri dal sito estrattivo ci viveva buona parte dei dipendenti di TotalEnergies. La vicenda, peraltro, è al centro di una causa giudiziaria intentata da tre sopravvissuti all'attacco e dai familiari di quattro vittime nei confronti della società, che non avrebbe informato i subappaltatori dei rischi di possibili attacchi e non avrebbe predisposto piani di sicurezza o di evacuazione adeguati. I vertici dell'azienda hanno sempre respinto queste accuse, ma lo scorso 4 maggio i pubblici ministeri francesi hanno annunciato di aver aperto un'indagine preliminare sulla vicenda.

    TotalEnergies è comunque pronta a riprendere il progetto: un impegno dichiarato a fine 2023 alla luce di un "chiaro miglioramento" delle condizioni di sicurezza nell’area, tale da rendere possibile la ripresa delle attività. Una posizione ribadita anche attraverso la pubblicazione da parte della società di un report secondo cui le strade tra le principali località di Cabo Delgado sarebbero sufficientemente sicure da permettere alle Ong di operare senza scorta.

    Un ottimismo che però non viene condiviso dalle poche organizzazioni umanitarie presenti sul territorio. Il 5 gennaio quattro persone, tra cui un operatore sanitario di Medici senza frontiere (Msf), sono state uccise durante un attacco nel villaggio di Chibanga, distretto di Mocímboa da Praia, nella provincia di Cabo Delgado. Inoltre, nei primi mesi del 2024 oltre 80mila persone sono state costrette a fuggire dalle proprie case a seguito degli attacchi commessi da gruppi armati, denuncia Msf in un documento pubblicato il 4 marzo.

    A oggi l’unico impianto Gnl attivo nel Paese africano è la piattaforma offshore Coral South Flng, di proprietà dell'italiana Eni e che esporta gas dal novembre 2022. “Viene considerato un asset strategico per l’azienda e, di riflesso, anche per la sicurezza energetica dell’Italia-spiega ad Altreconomia Simone Ogno di ReCommon-. I dati però smentiscono questa retorica: da novembre 2022 a inizio 2023, infatti, solo due dei 58 carichi di gas naturale liquefatto partiti dalle coste del Mozambico sono arrivati nel nostro Paese. La maggior parte delle navi gasiere si dirige verso Paesi asiatici”.

    La società di San Donato vorrebbe “duplicare” questo impianto ed è in fase di studio il progetto per la realizzazione di una seconda piattaforma, Coral North Flng. “Eni vorrebbe raccogliere entro quest’anno i finanziamenti necessari”, spiega Ogno. Tra gli istituti di credito in prima linea ci sono Intesa Sanpaolo e Unicredit, ed è proprio a loro che è indirizzata una petizione con relativa raccolta firme promossa da ReCommon in occasione delle assemblee degli azionisti, momenti importanti in cui le banche sono chiamate a rispondere pubblicamente delle loro scelte.

    C’è poi un terzo progetto fossile che Eni promuove in collaborazione con la statunitense ExxonMobil, Rovuma Lng, per sfruttare i giacimenti scoperti davanti alla foce dell’omonimo fiume che segna il confine settentrionale con la Tanzania. Una volta a regime, avrà una capacità produttiva di 15 milioni di tonnellate all’anno di Gnl.

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  • Le cause climatiche che vogliono bloccare i finanziamenti pubblici ai combustibili fossili

    Le cause legali sui cambiamenti climatici sono sempre più numerose in tutto il mondo e stanno diventando uno strumento di lotta politica della società civile e dei singoli cittadini per cercare di ottenere dai governi e dal settore privato azioni più incisive per il clima. Attualmente sono oltre duemila quelle in corso a livello globale e finora, per la maggior parte, sono state intentate per contestare la carenza delle politiche governative e aziendali nel contrastare gli impatti dei cambiamenti climatici, per denunciare obiettivi insufficienti di riduzione delle emissioni dei gas serra e per stabilire e affermare il diritto alla vita, alla salute, al cibo, all'acqua, a un ambiente sano, a un clima sicuro e il dovere dei governi e di altre entità di proteggere questi diritti.

    Tra le nuove strategie di accusa che si stanno diffondendo ci sono quelle che vogliono impedire che finanziamenti pubblici, ma anche privati, vengano destinati a progetti ad alte emissioni di CO₂ come ad esempio l’espansione di nuovi pozzi di estrazioni di petrolio e gas. Il rapporto “Global trends in climate change litigation: 2023 snapshot” pubblicato nel giugno 2023 e frutto della collaborazione tra due istituti della London school of Economics and political science -il Centre for climate change economics and policy (Cccep) e il Grantham research institute on climate change- definisce questi come casi di “chiusura dei rubinetti". Nel documento sono riportate 14 cause contro enti pubblici o istituzioni finanziarie statali (come le agenzie di credito all'esportazione) e 12 contro soggetti privati, tra cui banche e fondi pensione. L'obiettivo è impedire che i finanziamenti siano destinati a progetti o attività ad alto impatto ambientale o dannosi.

    Le cause contro le istituzioni di proprietà o controllate dai governi, come le agenzie di credito all'esportazione (indicate anche con l’acronimo inglese Eca), sono in particolare pensate per indirizzare i flussi finanziari pubblici lontano dai combustibili fossili. Questi enti forniscono supporto a grandi progetti infrastrutturali in tutto il mondo attraverso coperture assicurative, garanzie, sovvenzioni e prestiti concessi a tassi spesso inferiori rispetto a quelli di mercato, in modo da ridurre i rischi finanziari per chi vuole realizzare i progetti e stimolare lo sviluppo di un certo tipo di infrastrutture strategiche in tutto il mondo. Molto spesso questo tipo di finanziamenti è destinato al settore energetico. Secondo il Public finance for energy database, creato dalla Ong Oil change international, le Eca sono i maggiori finanziatori pubblici di combustibili fossili al mondo: tra il 2019 e il 2022 hanno fornito un sostegno finanziario sette volte superiore ai combustibili fossili (circa 136 miliardi di dollari) rispetto ai progetti di energia pulita (circa 19 miliardi). Nello stesso periodo, l’Eca italiana Sace ha destinato circa nove miliardi ai combustibili fossili e 25 milioni alle rinnovabili.

    “L'idea alla base di questa nuova ondata di cause è assicurare che i governi, quando spendono il denaro pubblico, prendano in considerazione l'impatto ambientale dei progetti da finanziare per assicurarsi che questi siano in linea con gli obiettivi dell’Accordo di Parigi su clima”, spiega ad Altreconomia Lorenzo Fiorilli, esperto legale che si occupa di finanza pubblica, mercati energetici e concorrenza per ClientEarth, organizzazione inglese che si impegna a tutelare i diritti delle persone e del Pianeta.

    “Molti progetti non esisterebbero senza il supporto finanziario del pubblico perché sono troppo rischiosi. Tra questi ci sono quelli legati ai combustibili fossili. I casi giudiziari contro le Eca potrebbero impedire che gli Stati li finanzino. In questo modo, i rischi per gli investitori privati sarebbero troppo alti e il profitto più difficile, così il progetto potrebbe non essere sviluppato”. Per Fiorilli, lo scopo di queste cause è anche reindirizzare le risorse pubbliche verso la transizione ecologica: “L'effetto più concreto che possiamo avere è quello trasferire quel denaro nella direzione giusta, perché i governi devono essere i primi a prendere le decisioni corrette”.

    I casi più recenti di questo tipo si sono verificati in Regno Unito, Australia, Mozambico, Brasile e Corea del Sud. L'anno scorso, l’associazione Friends of the Earth ha portato in tribunale l'Eca britannica per il suo investimento in un importante progetto di gas “naturale” liquefatto (Gnl) in Mozambico. Anche se la sentenza è stata favorevole per l'Eca, il caso ha avuto degli effetti positivi. “Ha portato a revisionare le politiche dell’Agenzia di credito e a introdurre misure più solide e robuste che escludono i progetti legati ai combustibili fossili dai finanziamenti, così come hanno migliorato la trasparenza nelle attività di rendicontazione dei progetti. Seguendo questo esempio anche altre agenzie europe, come quella francese e tedesca, hanno fatto la stessa cosa”, racconta Lorenzo Fiorilli. Questo almeno in teoria, poiché anche queste nuove procedure prevedono una serie di eccezioni.

    Così, nonostante i numerosi impegni internazionali, firmati dalle principali banche multilaterali di sviluppo (Mdb), dai Paesi del G20 e recentemente anche dal G7, per porre fine ai finanziamenti pubblici internazionali nei confronti di progetti legati all'oil&gas miliardi di dollari continuano a fluire verso i combustibili fossili. Le cause climatiche hanno allora diversi obiettivi. “Possono servire, per esempio, a chiarire che cosa nello specifico prevedono gli accordi internazionali firmati o le leggi ambientali varate a livello nazionale e internazionale. Aiutano a rendere esplicito lo scopo di questi documenti e quello che deve essere fatto nel concreto- continua Fiorilli-. E inoltre servono a rendere gli Stati responsabili per quello che hanno firmato, un modo per far capire ai governi che quando sottoscrivono un accordo questo significa qualcosa”. Un valore riconosciuto anche dal report “Global Climate Litigation Report: 2023 Status Review”, pubblicato a luglio 2023 dal Programma delle Nazioni Unite per l'Ambiente (Unep), con il supporto del centro Sabin della Columbia Law school di New York che gestisce il Climate change litigation databases dove sono raccolte le informazioni sulle cause sul clima attualmente in corso in tutto il mondo: “Queste controversie sono un'importante via per gli attori per influenzare la politica climatica al di fuori dei processi formali dell'Unfccc", la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici.

    I governi nazionali e subnazionali si sono impegnati a contrastare i cambiamenti climatici attraverso vari accordi internazionali e relative leggi o dichiarazioni politiche nazionali, ma le misure attuate sono ancora lontane dal raggiungere gli obiettivi. In risposta, singoli individui, bambini e giovani, donne e gruppi per i diritti umani, comunità, gruppi indigeni, organizzazioni non governative si sono rivolti a tribunali o altri organismi giudicanti, comprese le Nazioni Unite e i tribunali arbitrali, cercando di ottenere un aiuto. Il caso delle oltre duemila donne svizzere, le KlimaSeniorinnen Schweiz, ne è un esempio. Ad aprile la Corte europea dei diritti umani (Cedu) ha giudicato la Svizzera responsabile di non aver assunto misure adeguate per fronteggiare i cambiamenti climatici, violando così il diritto al rispetto della vita privata e familiare (l'Articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo).

    “Gli accordi internazionali e le cause climatiche sono due facce della stessa medaglia. Gli Stati hanno il dovere di eliminare i combustibili fossili per non superare il limite di 1,5 gradi di innalzamento della temperatura stabilito dall'Accordo di Parigi. Il finanziamento di attività dipendenti dai combustibili fossili non si allinea con questo dovere. La legge internazionale, attraverso le sentenze, vuole obbligare gli Stati a porre fine a questi finanziamenti -conclude Fiorilli-. I politici devono agire immediatamente e non domani”.

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