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  • La memoria rimossa del massacro di Debre Libanos e dell’età coloniale italiana

    “Questo avvocato militare mi ha comunicato proprio in questo momento che habet raggiunto la prova assoluta della correità dei monaci del convento di Debra Libanos con gli autori dello attentato. Passi pertanto per le armi tutti i monaci indistintamente, compreso il vice-priore. Prego farmi assicurazione comunicandomi il numero di essi”.

    È il 19 maggio 1937. Con queste poche parole Rodolfo Graziani, "viceré d’Etiopia", dà il via al massacro dei monaci di Debre Libanos, uno dei monasteri più importanti del Paese, il cuore della chiesa etiopica. Solo tre mesi prima Graziani era sopravvissuto a un attentato da parte di due giovani eritrei, ex collaboratori dell’amministrazione coloniale italiana, che agirono isolatamente, seppur vicini alla resistenza anti-italiana. La reazione fu spietata: tra il 19 e il 21 febbraio le truppe italiane, appoggiate dai civili e dalle squadre fasciste, uccisero quasi 20mila abitanti di Addis Abeba.

    Le violenze proseguirono per mesi e si allargarono in tutta la regione dello Scioa fino a raggiungere la città-monastero di Debre Libanos, a circa 150 chilometri dalla capitale etiope dove tra il 20 e il 29 maggio 1937 ebbe luogo il più grande eccidio di cristiani mai avvenuto nel continente africano.

    “Vennero massacrate circa duemila persone tra monaci e pellegrini perché ritenuti in qualche modo conniventi con l’attentato a Graziani -spiega ad Altreconomia Paolo Borruso, docente di storia contemporanea all’Università Cattolica di Milano e autore del saggio “Debre Libanos 1937" (Laterza, 2020)-. Si è trattato di un vero e proprio crimine di guerra, poiché l’eccidio è stato qualcosa che è andato al di là della logica militare, andando a colpire dei religiosi, peraltro cristiani e inermi”.

    [caption id="attachment_193781" align="aligncenter" width="960"] Il telegramma con cui il Generale Rodolfo Graziani ha ordinato il massacro di Debre Libanos © Wikimedia commons, pubblico dominio[/caption]

    Al pari di molte altre vicende legate al passato coloniale italiano, a partire proprio dal massacro di Addis Abeba, anche la tragica vicenda di Debre Libanos è rimasta ai margini del discorso pubblico. Manca una memoria consapevole sulle responsabilità per gli eccidi e le violenze commesse dagli italiani nel corso della loro “avventura” coloniale per andare alla ricerca di un “posto al sole” in Libia, in Eritrea, Somalia ed Etiopia al pari delle altre nazioni europee, vengono ancora oggi occultate dalla coscienza pubblica.

    “La storiografia, a partire dal lavoro di Angelo Del Boca, ha fatto enormi passi avanti. Non c’è un problema di ricerca storica sul tema, quello che manca, piuttosto, è la conoscenza di quello che è avvenuto in quella fase storica al di là dei circoli degli addetti ai lavori”, puntualizza Valeria Deplano, docente di storia contemporanea all’Università di Cagliari e autrice, assieme ad Alessandro Pes di “Storia del colonialismo italiano. Politica, cultura e memoria dall’età liberale ai nostri giorni” (Carocci, 2024).

    Se da un lato è molto difficile oggi trovare chi nega pubblicamente l’uso dei gas in Etiopia, dall’altro è ancora molto diffusa l’idea che le violenze furono delle eccezioni riconducibili alle decisioni di pochi, dei vertici: il mito degli italiani “brava gente”, dunque, resiste ancora a ben sedici anni di distanza dalla pubblicazione dell’omonimo libro di Angelo Del Boca.

    Che l’Italia non abbia ancora fatto compiutamente i conti con il proprio passato coloniale lo dimostrano, ad esempio, le accese polemiche attorno alle richieste avanzate da attivisti e comunità afro-discendenti per modificare e contestualizzare la toponomastica delle nostre città o per una ri-significazione dei di monumenti che celebrano il colonialismo italiano (ad esempio l’obelisco che celebra i cinquecento caduti italiani nella battaglia di Dogali a Roma, nei pressi della Stazione Termini). Temi che vengono promossi, tra gli altri, dalla rete Yekatit 12-19 febbraio il cui obiettivo è quello contribuire a un processo di rielaborazione critica e collettiva del ruolo del colonialismo nella storia e nel presente dell’Italia e che vorrebbe il riconoscimento di una giornata nazionale del ricordo delle oltre 700mila vittime del colonialismo italiano.

    “C’è un rifiuto a riconoscere il fatto che i monumenti e le strade intitolate a generali e luoghi di battaglia sono incompatibili con i valori di cui la Repubblica dovrebbe farsi garante”, sottolinea Deplano ricordando come fu proprio nel secondo Dopoguerra che si costruì un racconto del colonialismo finalizzato a separare quello “cattivo” del regime fascista da quello "buono" dell'Italia liberale. Una narrazione funzionale all’obiettivo di ottenere dalle Nazioni Unite un ruolo nella gestione di alcune ex colonie alla fine della Seconda guerra mondiale: se l’Eritrea (la “colonia primigenia”) nel 1952 entra a far parte della Federazione etiopica per decisione dell’Onu, Roma ottenne invece l’Amministrazione fiduciaria della Somalia, esercitando un impatto significativo sulle sorti di quel Paese per decenni.

    “Invece ci fu continuità -sottolinea Deplano-. Furono i governi liberali a occupare l’Eritrea nel 1882 e ad aprire le carceri dove vennero rinchiusi i dissidenti eritrei, a dichiarare guerra all’Impero ottomano per occupare la Libia nel 1911 dove l’Italia fu il primo Paese a utilizzare la deportazione della popolazione civile come arma di guerra. Il fascismo ha proseguito lungo questa linea con ancora maggiore enfasi, applicando in Africa la stessa violenza che aveva già messo in atto sul territorio nazionale”.

    Con quel passato l’Italia non ha mai fatto i conti, né sul piano giuridico né su quello materiale. Come ricorda Paolo Borruso in un articolo pubblicato su Avvenire, Graziani venne condannato a 19 anni di reclusione per collaborazionismo con la Repubblica sociale italiana, ma non per i crimini commessi in Africa. Le ex colonie ricevettero indennizzi irrisori e persino gli oggetti sacri trafugati a Debre Libanos e portati in Italia non furono mai ritrovati.

    “Gli italiani non possono ricordare solo quelle pagine della loro storia funzionali alla costruzione di un’immagine positiva, serve una consapevolezza nuova”, riflette Borruso. Che mette l’accento anche su una “discrasia pericolosa: da un lato la giusta memoria delle stragi nazi-fasciste commesse 'in Italia' e dall’altro la pubblica amnesia sulle violenze commesse 'dall’Italia' nelle sue colonie in Africa. Questo distacco dalla storia è molto preoccupante perché lascia la coscienza pubblica in balìa di pericolose derive disumanizzanti, aprendo vuoti insidiosi e facilmente colmabili da slogan e da letture semplificate del passato, fino alla riemersione di epiteti e attributi razzisti, che si pensava superati e che finiscono per involgarire la coscienza civile su cui si è costruita l’Italia democratica”.

    Se agli storici spetta il compito di scrivere la storia, agli scrittori spetta quello di tracciare fili rossi tra passato e presente, portando alla luce memorie sepolte per analizzarle e contestualizzarle. Lo ha fatto, ad esempio, la scrittrice Elena Rausa autrice di “Le invisibili” (Neri Pozza 2024), un romanzo che si apre ad Addis Abeba, durante la rappresaglia del 1937 per concludersi in anni più recenti e che dà voce a uno dei “reduci” dell’avventura coloniale italiana e a suo figlio. “Ho voluto indagare in che modo le memorie negate dei traumi inflitti o subiti continuano a influenzare l’oggi -spiega ad Altreconomia-. Tutto ciò che non viene raccontato continua a esercitare delle influenze inconsapevoli: si stima che un italiano su cinque abbia nella propria storia familiare dei cimeli legati alle campagne militari per la conquista dell’Eritrea, della Libia, della Somalia e dell’Etiopia. In larga parte sono uomini che hanno fatto o, più facilmente, hanno visto cose di cui pochi hanno parlato”.

    A confermare queste osservazioni, Paolo Borruso richiama il suo ultimo saggio “Testimone di un massacro” (Guerini 2022), relativa al diario di un ufficiale alpino che partecipò a numerose azioni repressive in Etiopia, al comando di un reparto di ascari (indigeni arruolati), fino alla strage di Debre Libanos, sia pur con mansioni indirette di sorveglianza del territorio: una testimonianza unica, mai apparsa nella memorialistica coloniale italiana.

    Un altro filo rosso è legato alle date: l’invasione dell’Etiopia da parte delle truppe dell’Italia fascista ebbe inizio il 3 ottobre 1935. Quasi ottant’anni dopo, nel 2013, in quello stesso giorno più di trecento profughi, in larga parte eritrei ed etiopi, perdevano la vita davanti all’isola di Lampedusa. Migranti provenienti da Paesi che hanno con l’Italia un legame storico.

    E se oggi la migrazione segue una rotta che va da Sud verso Nord, in passato il percorso è stato inverso: “Come il protagonista del mio romanzo, anche il mio bisnonno è partito per l’Etiopia, ma non per combattere -racconta-. Migliaia di persone lasciarono l’Italia per lavorare in Etiopia e molti rimasero anche dopo il 1941. Anche in quel caso a partire furono persone che si misero in viaggio alla ricerca di condizioni migliori di vita per sé e per i propri figli. Ricordare anche quella parte di storia migratoria italiana significa riconoscere la radice inconsapevole del nostro modo di guardare chi oggi lascia la propria terra per compiere un viaggio inverso”.

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  • Torna “Reclaim the tech”, il festival dal basso per la giustizia digitale e di genere

    Torna a Bologna (al Centro sociale Tpo, 17-19 maggio) Reclaim the tech (Rtt): un festival, ma anche un laboratorio di critica e di proposta attorno alle tecnologie digitali e alle molte forme di sfruttamento, dominio e ingiustizia che ne accompagnano lo sviluppo. Per tre giorni si parlerà di capitalismo di controllo, di lotte femministe e transfemministe, di discriminazioni algoritmiche, di ciclo di vita del tech, di climattivismo, di scuola, dell'intelligenza artificiale nelle guerre e altri argomenti ancora. Ci saranno anche laboratori pratici sull'uso creativo e alternativo dell'intelligenza artificiale, sull'autocostruzione di droni da usare nelle lotte ecologiste, sulle nuove forme di mediattivismo. Reclaim The Tech, alla seconda edizione, è un festival autogestito, autofinanziato, costruito grazie a una fitta rete di relazioni. Lilia Giugni, ricercatrice alla University college London, attivista femminista e autrice del libro “La rete non ci salverà. Perché la rivoluzione digitale è sessista (e come resistere)” (Longanesi 2022), è tra le animatrici.

    Lilia, il motto di Rtt è: “Dentro, contro, oltre”. Cioè?
    LG
    Queste tre parole riflettono il nostro percorso. Vogliono indicare che secondo noi, in questo momento storico, caratterizzato dal capitalismo digitale e dalle sue dinamiche patriarcali e coloniali, è strategicamente opportuno, da un lato, schierarsi in maniera molto chiara contro le ingiustizie e le violenze che sono figlie di questo sistema, ma al tempo stesso è importante anche agire da dentro, in un momento in cui i “capitalisti digitali”, chiamiamoli così, e gli attori politici loro alleati, sono da tempo in una posizione di forza. Insomma è importante denunciare ciò che non ci piace, ma è anche necessario lavorare per provare a cambiare qualcosa dall'interno, per esempio tramite azioni di advocacy per ottenere leggi un migliori; che magari nel lungo periodo non sovvertiranno le dinamiche problematiche, ma che ci possono servire, nell'immediato, a strappare, con le unghie e con i denti, qualche diritto in più. Al tempo stesso pensiamo che sia indispensabile anche guardare oltre, nel senso di immaginare alternative, modi diversi di organizzare la società, l'economia e quindi, naturalmente, anche la tecnologia. Per questo pensiamo che serva a poco agire contro e da dentro, se intanto non abbiamo anche il coraggio di alzare l'asticella, con un'immaginazione radicale, azionando quello che io chiamo, nel mio lavoro di ricerca, il muscolo dell'utopia. Dobbiamo sforzarci di immaginare un futuro diverso verso cui tutto il nostro lavoro deve tendere.

    Chi organizza Rtt? Che cos'è questo movimento?
    LG Rtt non è un "classico" festival, con un comitato editoriale, degli sponsor, un direttore o una direttrice. È un evento organizzato completamente dal basso, autofinanziato, autosostenuto in cui c'è un gruppo di persone -attivisti e attiviste di varie organizzazioni- con un ruolo di coordinamento organizzativo, con il compito di raccogliere proposte e idee e di metterle insieme in un programma. Rtt, oltre che un festival, è una comunità, un movimento nascente di persone e organizzazioni piuttosto eterogenee: abbiamo collettivi politici e collettivi studenteschi, ma anche associazioni femministe e queer, Ong, network di insegnanti, imprese sociali che si occupano di ecologia e ambiente. Tutti singoli e gruppi che per motivi diversi si sono trovati a lavorare insieme sui grandi temi della giustizia digitale e delle connessioni con la giustizia sociale, di genere, ecologica, eccetera.

    Possiamo parlare di un nuovo movimento?
    LG Diciamo che in Italia, circa vent'anni fa, al tempo del movimento chiamato No global e di Indymedia, c'era una fortissima sensibilità politica e intellettuale sul ruolo della tecnologia; all'epoca si parlava di mediattivismo. C'è stato poi uno iato storico, anche generazionale. Il fermento intellettuale e politico è scemato negli anni, per vari motivi, compresi gli effetti della brutale repressione a Genova nel 2001: molte persone, all'epoca, abbandonarono o ridussero l'attivismo. Oggi c'è un ritorno di attenzione su questi temi ma nel frattempo sono mutate le tecnologie, è cambiato il capitalismo digitale; alcune delle intuizioni, anche profetiche, dei mediattivisti di allora hanno trovato riscontro, in modi anche più radicali del previsto, ma ci sono anche senari del tutto nuovi. La cosa interessante è che negli ultimi due anni a Rtt si sono avvicinate sia persone che erano state parte del fermento di venti e più anni fa, sia persone che al tempo di Genova e dintorni o non erano nate o erano troppo giovani per partecipare. Quindi Rtt è un canale che sta unendo i mediattivisti di allora e persone più giovani, anche provenienti da ambienti esterni ai movimenti sociali, che magari lavorano nel mondo delle tecnologie digitali o sono coinvolte in quello dell'educazione o sono attive, per fare un altro esempio, nei centri antiviolenza e si imbattono nella violenza digitale di genere. Insomma, sì, credo che siamo di fronte a una cosa nuova, diversa da quelle del passato; sta crescendo qualcosa che negli ultimi vent'anni è mancato.

    Veniamo ai temi di Rtt. Quali sono le questioni chiave?
    LG Per noi le tecnologie digitali sono uno spazio di conflitto ma anche di elaborazione di idee, per cui abbiamo sempre voluto mettere in luce quanto sia importante unire i punti, connettere le lotte, costruire alleanze e tenere ferma l'attenzione su quanto succede intorno a noi. Perciò, per dire, ci è venuto naturale organizzare un panel su Gaza. Lo stesso si può dire su un tema che mi è particolarmente caro, le tecnologie e il genere: se quest'anno approfondiamo il legame tra digitale e diritti riproduttivi, è perché il diritto all'aborto è messo in discussione in molti Paesi. Un'altra novità è il grande numero di proposte che abbiamo ricevuto attorno al climattivismo, con molte idee e iniziative su un uso attivo e creativo delle tecnologie disponibili. Quest'anno, in confronto al 2023, abbiamo ricevuto un numero molto maggiore di proposte da gruppi e associazioni, rispetto alle proposte individuali. A noi pare un segno che stiamo procedendo nella direzione giusta.

    [caption id="attachment_193835" align="alignnone" width="1813"] © Reclaim the tech[/caption]

    A luglio Bologna ospiterà il G7 su scienza e tecnologia, che cosa dobbiamo aspettarci?
    LG Ne discuteremo nell'assemblea di domenica mattina (il 19 maggio, ndr). Certamente qualcosa faremo. Questo appuntamento è passato quasi inosservato, o è stato presentato come una cosa da specialisti, come se affrontasse questioni che non riguardano le persone e le comunità, mentre sappiamo bene che così non è. In questa fase storica, su questi temi, chi ha potere decisionale è nella condizione di agire senza essere sottoposto a scrutinio pubblico, per una serie di ragioni. Si è visto bene, per esempio, con le decisioni prese dal governo italiano sull'implementazione dell'IA Act europeo e di altre direttive dell'Unione europea. Una delle cose importanti da fare, per Rtt, è cercare di penetrare questo circolo chiuso e portare una visione critica sulle tecnologie fuori dai circuiti specialistici. Vogliamo politicizzare questi temi, facilitare una discussione aperta su argomenti che riguardano il presente e il futuro di tutte e tutti. A Bologna a luglio diremo la nostra.

    Tra gli altri eventi (il programma del festival si può vedere sul loro sito), sabato 18 maggio è prevista alle 19 la presentazione del libro di Stefano Borroni Barale “L'intelligenza inesistente” pubblicato da Altreconomia.

    Lorenzo Guadagnucci è giornalista del “Quotidiano Nazionale”. Per Altreconomia ha scritto, tra gli altri, i libri “Noi della Diaz” e “Parole sporche”

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  • Le importazioni di legno russo in Europa che aggirano le sanzioni

    Diverse aziende europee avrebbero importato legname proveniente dalla Russia violando le normative dell'Ue e aggirando le sanzioni inflitte a Mosca. Lo afferma Earthsight, organizzazione non profit impegnata a contrastare la criminalità ambientale e sociale, che a seguito di un’indagine antielusione della Commissione europea sulle importazioni illegali di compensato di betulla russo, ha presentato lo scorso 16 aprile circostanziate denunce contro 31 aziende presenti in nove Paesi dell’Unione europea. L’accusa è quella di essersi rifornite da quattro società segnalate dalla Commissione per utilizzare materie prime russe (tronchi e impiallacciature), in violazione del "Regolamento legno" dell’Ue (Eutr).

    Dopo che lo scorso primo marzo sono stati pubblicati i risultati della ricerca, durata otto mesi, l’organizzazione ha esposto i suoi reclami formali all’Eutr e alle autorità doganali dei nove Stati coinvolti -Polonia, Germania, Romania, Bulgaria, Lettonia, Ungheria, Lituania, Paesi Bassi e Grecia-. I numeri sono allarmanti: tra ottobre e dicembre 2023 le aziende presenti in questi Paesi avrebbero importato “più di 43 milioni di euro in compensato di betulla dai quattro fornitori coinvolti nell’indagine dell’Ue”.

    A causa dell’invasione dell’Ucraina nel 2022 l’importazione diretta o indiretta di prodotti in legno realizzati in Russia è stata infatti vietata; ma già prima della guerra l’Unione europea aveva fatto crescere i dazi di importazione esistenti sul compensato di betulla russo fino al 15,8%. Per aggirare i dazi antidumping, alcune aziende hanno imboccato la strada del commercio attraverso Paesi terzi, in particolare Kazakistan e Turchia.

    Secondo l’indagine europea, tra luglio 2022 e giugno 2023 le importazioni kazake di compensato di betulla dalla Russia sarebbero "aumentate di sette volte e quelle di tronchi e impiallacciature quadruplicate”. Non solo. “Aumenti sospetti sono stati notati anche per le importazioni turche degli stessi prodotti”.

    “L'Eutr -spiega ad Altreconomia Tara Ganesh di Earthsight- impone alle aziende dell'Ue di controllare i propri fornitori per assicurarsi che corrano un rischio ‘trascurabile’ di illegalità. Le autorità avevano precedentemente affermato che sarebbe stato ‘impossibile’ importare legalmente legno russo. Eppure come Earthsight abbiamo individuato il compensato venduto dalle aziende kazake e turche, indicate dall'Ue come aziende che trattano legno russo, ad aziende dei nove Stati membri. Questo legname è stato acquistato in violazione delle leggi comunitarie e vogliamo che le aziende coinvolte ne rispondano. La maggior parte delle prove di comportamenti illeciti da parte dei fornitori erano contenute nel rapporto della Commissione europea. Noi abbiamo contribuito a rintracciarli nel mercato”.

    L’indagine è partita per iniziativa di un consorzio industriale di aziende europee di compensato che ha presentato una denuncia alla Commissione contro le società che eludevano i dazi. “La cosa più interessante sarà vedere come l’Ue e gli Stati membri affronteranno ora questi importanti aspetti”, osserva Ganesh.

    Anche perché il fenomeno va approfondito. Per Earthsight, che ha lavorato grazie al monitoraggio di dati commerciali e all’aiuto di alcuni informatori, le aziende coinvolte nel commercio di compensato di betulla sono molte di più rispetto a quelle su cui si è investigato. “Altri Paesi come la Cina e la Georgia non sono stati indagati -dice- anche se la nostra ricerca e altre fonti mostrano che anche queste sono probabilmente vie di riciclaggio. Il problema con il legno russo che raggiunge i mercati europei è molto più ampio”.

    Un avvertimento, specifica Ganesh, c’era già stato: “Nell'aprile 2023, abbiamo inviato alle autorità dell'Ue un avviso di controllo sul riciclaggio di legname da parte della società russa Sveza (di proprietà di un oligarca sanzionato in Europa) attraverso la Cina, il Kazakistan e la Turchia. Conosciamo il problema da molto tempo. È un peccato che il commercio sia continuato così a lungo”.

    Il nodo centrale è senza dubbio quello del monitoraggio dell’applicazione del Regolamento Ue: “Sono necessari controlli molto più rigorosi per escludere la possibilità che il legno russo entri”. Tenendo d’occhio soprattutto i nove Paesi individuati da Earthsight, e in particolare, specifica Ganesh, la Polonia.

    “Le autorità -puntualizza Ganesh- devono emettere un avviso alle aziende nei loro Paesi affinché siano più vigili sulle importazioni di compensato di betulla da Turchia, Kazakistan, Cina, e Georgia e devono informarle dei risultati di questa indagine”. Non solo. “Devono agire contro le aziende che da mesi acquistano questo compensato di betulla da Turchia e Kazakistan. Dato che questo mercato è di nicchia, è difficile credere che queste aziende non abbiano avuto sospetti”.

    Più in generale, dice Ganesh, “è necessaria una risposta molto più unitaria”. E questa ricerca può essere l’inizio di un cambio di marcia. “Indagini commerciali come questa sono particolarmente rigorose -commenta-. Lo stesso non si può dire per quelle sul legname illegale per altri motivi (disboscamento illegale, concussione, corruzione, porto di documenti falsi)”.

    E rilancia: “Abbiamo ottenuto un accesso senza precedenti alle prove raccolte e alle denunce presentate dai membri del settore. Ciò che è emerso ha implicazioni molto preoccupanti per i rischi esistenti nelle catene di approvvigionamento del legname verso l’Ue. L’indagine probabilmente ha solo scalfito la superficie del problema”. Che va affrontato continuando a documentare, indagare e -dice Ganesh- “a presentare denunce per smascherare i cattivi attori del commercio di legname nell’Ue”.

    “Le sanzioni russe -conclude- hanno avuto un impatto enorme sul mercato del legno. Ma diventa più difficile per tutti gli altri quando alcune aziende si rifiutano di seguire le regole. E questo commercio sta finanziando l’invasione illegale dell’Ucraina da parte della Russia, poiché il legno è estremamente importante per l’economia di Mosca”.

    Il 14 maggio c'è stato uno sviluppo importante. A seguito dell’inchiesta e al dichiarato scopo di tutelare i produttori dell’Ue dalla concorrenza e dal commercio sleale, le misure antidumping sono state estese dalla Commissione europea “sulle importazioni di compensato di betulla dalla Russia alle importazioni dal Kazakistan e dalla Turchia”. Cinque società con sede in Kazakistan e quattro società con sede in Turchia avevano presentato moduli di richiesta di esenzione, chiedendo di “essere esentate dai dazi nel caso in cui le misure fossero state estese al Kazakistan e alla Turchia”. Ma l’indagine della Commissione Europea ha rilevato che “due società in Kazakistan (QazFanCom e VFP LPP) e tre società in Turchia (Murat Şahin Orman Ürünleri, Petek Kontrplak San ve Tic A.Ş. e Saglamlar Orman Tarim Urunleri San. Ve. Tic. AS) non hanno collaborato ai sensi dell'articolo 18 del Regolamento di base e di conseguenza non hanno dimostrato di non essere coinvolti in attività di elusione”. Ecco perché le loro richieste di esenzione dai dazi non sono state accolte.

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  • Biella è il carcere più sedato d’Italia. Otto detenuti su dieci assumono psicofarmaci

    L’80% dei detenuti del carcere di Biella assume psicofarmaci. Un dato impressionante, rilevato da Antigone nel 2023, associazione che monitora le condizioni dei reclusi, che rende la Casa circondariale biellese la struttura più “sedata” d’Italia. Lo dimostrano anche i dati ottenuti da Altreconomia: l’utilizzo di antipsicotici, farmaci prescrivibili per gravi patologie come la schizofrenia e il disturbo bipolare, risulta superiore di venti volte rispetto all’esterno.

    “Una situazione completamente fuori controllo”, racconta Marco, nome di fantasia, medico che ha lavorato per anni nel carcere piemontese e preferisce restare anonimo. Il 17 maggio è prevista a Biella la visita del ministro della Giustizia Carlo Nordio accompagnato dal sottosegretario Andrea Delmastro, originario proprio del distretto laniero.

    L’istituto biellese, da 395 posti secondo la capienza regolamentare, è un buon angolo prospettico per guardare allo stato di malessere delle carceri italiane. Secondo i dati forniti ad Altreconomia dall’Azienda sanitaria locale (Asl) in tre anni, 2020-2022, un farmaco su tre acquistato era uno psicofarmaco. In termini assoluti i dati sono elevatissimi: nel 2021 la spesa totale sfiora i 30mila euro, una cifra due o tre volte superiore a istituti con capienza simile (come la casa circondariale di Spoleto e il San Michele di Alessandria) analizzati nella nostra inchiesta “Fine pillola mai”.

    E infatti guardando alla spesa pro-capite a detenuto, il risultato è allarmante: prendendo in esame gli antipsicotici, utilizzabili sulla carta in presenza di gravi patologie, nel 2021 la spesa è pari a quasi 74 euro a persona. Tra i 15 istituti analizzati da Altreconomia, Biella è seconda solamente a San Vittore a Milano. “Non mi stupisce -spiega il dottore-. E non è vero che l’uso di psicofarmaci sia correlato alla crescita di persone con patologie”.

    Marco racconta che al suo arrivo il presidio sanitario ha tentato in tutti i modi di limitare l’uso di psicofarmaci. I dati sembrano confermarlo perché tra il 2021 e il 2022 la spesa a persona sempre in antipsicotici scende passando da 74 a 37 euro a persona. Segno, evidentemente, di come sia possibile trovare soluzione alternative. “Poi purtroppo questo processo è stato arrestato -riprende il medico-. Sembrava di lottare contro i mulini a vento: la polizia penitenziaria insisteva all’inverosimile per somministrare farmaci, l’Azienda sanitaria tentennava nel prendere posizione e poi, soprattutto, lo spaccio interno di pastiglie era diffusissimo. Oggi la situazione è ancora peggio di prima”. Uno smercio interno messo a nudo dalla Procura di Biella che, dopo tre anni di indagine ha eseguito 56 misure cautelari a inizio settembre 2023. Soprattutto detenuti ed ex detenuti ma anche sei agenti della polizia penitenziaria accusati di corruzione, ricettazione e falso in atto pubblico.

    Non è l’unico procedimento penale in corso. Il 14 maggio è arrivata la notizia della chiusura delle indagini per venticinque agenti accusati anche di tortura. Come riporta La Stampa, uno dei casi di violenza riguarda H.M., detenuto di origine marocchina che secondo l’accusa sarebbe stato colpito con schiaffi sul volto e calci nel fianco sinistro e poi scaraventato a terra. "A quel punto un gruppo di agenti alla presenza del comandante -ricostruisce sempre il quotidiano- l’avrebbe accerchiato e poi legato con del nastro adesivo, che gli avrebbe avvolto caviglie, ginocchia e spalle, questo nonostante fosse già ammanettato". In questo cupo quadro a Biella, per più di due anni, è mancato un direttore ad hoc.

    “Il malessere che si vive nell’istituto è palpabile -spiega Sonia Caronni, la Garante dei diritti dei detenuti del Comune-. Il farmaco diventa la via per resistere a una quotidianità difficile da sopportare”. Soprattutto nel “vecchio padiglione” -che ospita anche i detenuti “protetti”- che presenta anche “carenze strutturali evidenti e di difficile risoluzione”, come scrive Antigone. “Le celle sono piccole e nei bagni non vi è spazio per muoversi. Le docce sono al piano e i sanitari presentano infiltrazioni e muffe alle pareti. Non è presente l'acqua calda e la luce non è attivabile autonomamente”.

    Questa è la cruda realtà del carcere di Biella. Un’immagine distante da quella presentata a inizio agosto 2019 quando venne annunciata l’apertura di una sartoria interna alla struttura per produrre settemila divise della penitenziaria. Nordio arriva a Biella proprio per visitare il laboratorio sartoriale, esperienza unica in Italia. La sartoria, promossa grazie al gruppo Ermenegildo Zegna, non è mai entrata a pieno regime: sono 50 i detenuti coinvolti in attività lavorativa, contro i 140 previsti dal progetto. Tra i diversi problemi di attivazione c’è anche la carenza di organico: fino al primo marzo due funzionari giuridico-pedagogici sui quattro previsti (oggi sono otto quelli presenti) e 48 agenti in meno della pianta organica sulla carta (con gli agenti indagati tutt’ora in servizio).

    Un tema molto caldo anche a livello politico. Il sottosegretario Andrea Delmastro è più volte finito sotto i riflettori: prima per il presunto festino, proprio in carcere, alla presenza di alcuni agenti sotto indagine, poi per lo “sparo” di Capodanno avvenuto a Rosazza, a pochi chilometri di Biella. Il parlamentare Emanuele Pozzolo, indagato per i fatti di quella notte, nei giorni scorsi ha accusato Pablito Morello, capo della scorta di Delmastro ed ex ispettore proprio del carcere di Biella. Dove entro il 2027, secondo i piani del sottosegretario, dovrebbe aprire una scuola per agenti nell’ex ospedale. Un costo complessivo di 77,1 milioni euro, di cui 56,5 milioni per i lavori, mentre le spese tecniche relative alla progettazione e alla direzione lavori dovrebbero richiederne circa sei milioni. “Biella non è il feudo di Delmastro come di nessun altro politico -ha commentato il deputato Marco Grimaldi di Alleanza sinistra verdi-. Il biellese è di tutte e tutti i cittadini che lo abitano, ci vivono, ci lavorano e lo amano”.

    Tra polemiche politiche e promesse vuote restano invisibili le persone che quotidianamente vivono nel carcere più sedato d’Italia. Dall’inizio del 2024 si sono suicidate nelle carceri italiane già 33 persone, oltre a cinque agenti di polizia penitenziaria. I detenuti totali, intanto, superano quota 60mila. E l’abuso di psicofarmaci è il sintomo "silenzioso" di un sistema al collasso rispetto al quale il ministro Carlo Nordio non ha ancora fornito spiegazioni. “Spero che anche gli operatori sanitari comincino a opporsi -riprende Marco, il medico che ha lavorato nel carcere di Biella-. Certe prescrizioni e somministrazioni vanno fatte solo per il bene del paziente e non per altri scopi”.

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  • “Il Comune di Milano pretenda la chiusura del Cpr”. L’appello della società civile al sindaco

    Il Comune di Milano deve pretendere la chiusura del Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) di via Corelli e chiedere il risarcimento per il danno d’immagine subito dalla città per le gravi violazioni dei diritti dei reclusi. È il cuore dell’azione popolare promossa da Altreconomia, ActionAid, Antigone Lombardia, Asgi, Cild, Le Carbet, Mai più lager-No ai Cpr, MeltingPot, Naga, Spazi Circolari, insieme con altre sigle della società civile milanese e privati cittadini che chiede al sindaco Giuseppe Sala di rivolgersi al ministero dell’Interno per pretendere la chiusura della struttura.

    I promotori dell’appello sottolineano che il Cpr di Milano, fin dalla sua riapertura, è stato teatro di “profonda sofferenza e di costante violazione di diritti inviolabili, quali il diritto alla difesa, alla salute, a una vita dignitosa, alla libertà di comunicazione”. Lo abbiamo raccontato più volte anche su: dall’abuso di psicofarmaci ai documenti contraffatti presentati dalla società "Martinina Srl" per aggiudicarsi la gara milionaria indetta dalla prefettura per la gestione. Proprio l’azienda oggi è indagata per frode in pubbliche forniture.

    “Nonostante le documentate condizioni di vita inumane e degradanti e le inchieste da parte della Procura -si legge nell’appello- il Governo non ascolta le innumerevoli denunce da parte della società civile e annuncia l’idea di aprire un secondo Cpr sul territorio milanese”. Ma la presenza di queste strutture è in contrasto, per le organizzazioni promotrici, con lo statuto della Città di Milano, secondo cui è compito del Comune garantire “uguaglianza di trattamento alle persone e alle formazioni sociali nell’esercizio delle libertà e dei diritti, senza distinzione di età, sesso, razza, lingua, religione, opinione e condizione personale e sociale”.

    Per questo alcuni cittadini milanesi hanno presentato una formale istanza al Sindaco Giuseppe Sala affinché si attivi per ottenere la chiusura del Cpr e un risarcimento per il danno all’immagine e all’identità della città. Come tra l’altro già successo a Bari dove, in seguito a un'iniziativa simile, il ministero dell’Interno era stato condannato al risarcimento di 32mila euro per “danno di immagine” al Comune di Bari, per quanto successo nell’allora Centro di identificazione ed espulsione (Cie) della città. Se Sala, entro 90 giorni, non procederà con la richiesta saranno i cittadini stessi, attraverso una sorta di "sostituzione processuale", a procedere nei confronti del Viminale.

    L'azione popolare verrà promossa in occasione degli "Stati generali sulla detenzione amministrativa" si svolgeranno venerdì 17 e sabato 18 maggio al Teatro Officina di Milano

    A supporto dell’azione popolare promossa, si chiede alla comunità milanese che si riconosce nelle parole dello Statuto e intende difenderne i principi, di sottoscrivere un appello (è possibile farlo qui) affinché tali valori non vengano svuotati di significato dall’inerzia legittimante delle istituzioni di fronte all’orrore e alla vergogna del centro di via Corelli. L’azione popolare verrà presentata al convegno “Stati Generali sulla detenzione amministrativa” che si terrà al Teatro Officina di Milano (stazione metro Gorla) venerdì 17 e sabato 18 maggio 2024. Parteciperà anche Altreconomia. Qui è possibile consultare il programma completo.

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