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UN CASO DI ORDINARIA FOLLIA...

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UN CASO DI ORDINARIA FOLLIA...

Una mai debellata epidemia si espande nelle nostre società: l'incapacità di ragionare con il proprio cervello.

 

 

Quanto è pazzo, pazzo, pazzo questo nostro mondo!

 

Sempre più spaccato in due grandi emisferi contrapposti, contrastanti manifestazioni della dualità dell'essere umano che lo abita. Un Giano bi-fronte che ha di fronte a sé il futuro tecnologico sempre più a portata di mano ma che usa per le sue scelte, spesso assai poco consapevoli, i meccanismi ancestrali di un cervello di cui ignoriamo quasi completamente il funzionamento.

Come spiegare altrimenti i paradossi della società di massa, di questo mondo sempre più globalizzato culturalmente, per non dire plagiato commercialmente?

Recentemente vittima di quello straordinario meccanismo mentale che qualcuno chiama "isteria collettiva", "disturbo sociogenico di massa - mass sociogenic illness" o "effetto nocebo" è stata una delle società che forse più di tutte ha fatto della massificazione commerciale la sua filosofia di espansione: la Coca Cola.

A sostenerlo è uno studio dell'Università Cattolica di Lovanio che, per conto del governo belga, ha condotto un'indagine tossicologica volta a chiarire lo scandalo che ha coinvolto l'estate scorsa la multinazionale americana in Belgio: dunque, nessuna intossicazione, malori inesistenti, solo disturbi di origine psicosomatica per centinaia di persone in Belgio e Francia!

Il gruppo di ricercatori hanno illustrato le conclusioni del loro lavoro in una lettera pubblicata dall'autorevole rivista medica "The Lancet": i malesseri lamentati dai ragazzi non sono dovuti ad alcuna intossicazione riconducibile all'assunzione della bevanda. Trattasi, invece, di una reazione psicosomatica favorita dall'allarmismo dei mezzi di informazione e da una situazione di sfiducia complessiva in un Paese "sconvolto" dall'emergenza alimentare della diossina.

Secondo i ricercatori l'analisi condotta sulle bibite ha evidenziato sì un'alterazione dell'anidride carbonica e la presenza di un fungicida, ma in quantità assolutamente innocua! L'unico piccolo, trascurabile effetto (difetto?) che avrebbero prodotto queste alterazioni, è l'aver generato un odore nauseabondo tale da rendere la bibita quasi imbevibile. E basta!

Il resto è stata opera dei mass media (che, forse, la Coca Cola citerà per danni, chiedendo indennizzi multimiliardari), dell'ansia prodotta dalla diossina (forse è per questo che è così pericolosa, la diossina!) e, in qualche misura, anche dall'atteggiamento "reticente" della multinazionale di Atlanta nei primi giorni della crisi.

Ma analizziamo con ordine i fatti.

 

"Nessuna evidenza clinica o di laboratorio"

"La ragione per pensare che i ragazzi non erano in realtà stati avvelenati dalla Coca Cola - spiega al quotidiano italiano "Il Sole -24 Ore", il prof. Benoit Nemery, docente all'Università di Lovanio e coordinatore dell'indagine - è che non sono state trovate evidenze cliniche o di laboratorio che attestino l'evento (i loro sintomi erano assai deboli) e comunque non sono stati trovati agenti tossici capaci di spiegarli. Questo in realtà non significa che non sia successo nulla. Nella scuola dove si sono verificati i primi casi, molto probabilmente c'era qualcosa che non andava, la Coca Cola aveva cioé un cattivo gusto o un cattivo odore. Però, sono fermamente convinto che i ragazzi sono stati ricoverati solo perché "allarmati" in un contesto dove la crisi causata dalla diossina e l'ansia dovuta alla salubrità dei cibi, non lasciava scelta ai medici che hanno preferito non correre rischi".

Anche se la Coca Cola non ha rilasciato commenti sulla ricerca questa versione dei fatti "scagiona" in un certo senso l'azienda che, tra ritiro precauzionale dei prodotti e spese di comunicazione, ha speso circa 160 miliardi di lire.

Sul banco degli accusati sembrano ora restare solo i mezzi di comunicazione...

 

Un terremoto mediatico

I media infatti possono facilmente innescare una crisi o aumentarne la "magnitudo", quasi fosse un vero e proprio terremoto.

A seconda dei fattori che scatenano la crisi e la tipologia, si può costruire una sorta di "Scala Mercalli" della comunicazione:

- un primo livello, di natura tecnologica (quasi asettico, trascurabile apparentemente o forse risolvibile grazie allo stesso apparato tecnologico che ha causato il danno);

- un secondo livello, infrastrutturale;

- un terzo che coinvolge i fattori umani (siamo già ad un livello pericoloso);

- il quarto livello, che coinvolge la sfera culturale degli individui;

- ed, infine, il quinto livello, il più critico, allorchè viene intaccata la sfera emotiva e che può causare quei ben noti stati di vero e proprio "shock emotivo".

Secondo gli esperti, quanto più i messaggi che derivano da uno stato di crisi hanno connotati che interagiscono con la sfera emotiva dei consumatori, tanto maggiori sono l'impatto di una crisi e i suoi effetti negativi nel tempo.

La variabile che più genera stati di panico collettivi sembra essere la velocità dei flussi di informazione: secondo alcuni esperti di "crisis management" (divenuti sempre più necessari per le aziende in difficoltà) la "pressione mediatica" nel momento dell'emergenza è tale da costituire una sorta di "problema nel problema" che richiede un'attenta gestione.

Tra gli esperti non sono pochi quelli che, vista la mancanza di tempo "giornalistico" per andare alla ricerca della verità, suggeriscono alle aziende di assumersi la responsabilità e le colpe, anche quando non ci sono.

Ma, nei corsi di formazione per esperti di crisis management, viene studiato e preso come esempio di "emergenza evitata" il caso di tempestivo intervento di un'azienda, coinvolta in un caso di intossicazione alimentare, che riuscì abilmente a sottrarre dalla cassa di risonanza dei media l'incidente, salvandosi così dal boicottaggio dei consumatori, per poi chiarire con un'inchiesta interna, le cause dei malesseri non proprio psicosomatici accusati da cinque suoi clienti.

Ma allora, come comportarsi? Si fa ma non si dice? Oppure si dice ma non si fa?

 

Elogio della trasparenza

Nel mondo iperuranico dell'alta finanza tutti spergiurano che è "meglio parlare che tacere": questa sembra essere la "regola base" dei rapporti tra società quotate in Borsa e investitori finanziari, regola cha vale sempre (o quasi) soprattutto in caso di crisi.

Allorquando si verifica un evento straordinario che minaccia di influire sui bilanci di un azienda e/o sull'andamento del titolo, se questa è quotata in borsa, è bene che il mercato sappia con tempestività qual'è il danno, le sue dimensioni e le misure che il management intende adottare per fronteggiarlo.

Fornire al mercato tutte le informazioni necessarie: questo dovrebbe essere, per gli esperti di comunicazione, il comportamento più sensato che un'impresa dovrebbe assumere nella gestione delle emergenze.

Se così non è, se non arrivano puntualizzazioni sollecite ed esaurienti o se il mercato ha la sensazione che la società si comporti in modo poco trasparente, si formano opinioni deviate, viene meno la fiducia e ciò può avere pesanti ripercussioni sulle quotazioni del titolo che può addirittura finire sospeso per eccesso di ribasso.

Questo "dovere di informazione" (sulla cui veridicità, poi, si può anche discutere) verso il pubblico diventa però un obbligo verso gli azionisti: il passaggio chiave è spiegare alla platea degli investitori come si intende affrontare il problema che si è creato, quali strategie d'intervento ha il management e i risultati che si presumono di ottenere.

Fondamentale in questo senso è la scelta del chi comunicherà, a chi e come.

 

Il cliente ha sempre ragione?

C'era una volta... un tempo in cui si diceva che "il cliente ha sempre ragione". Questo vecchio adagio in campo commerciale viene sempre più stravolto puntando ad un guadagno immediato, alla conquista di nuovi mercati.

Nella casistica della litigiosità che contrappone sempre più spesso aziende e consumatori non è in discussione tanto la qualità dei prodotti ma piuttosto la qualità del servizio al cliente.

In questo senso molte imprese manifestano un vero e proprio deficit di comunicazione di fronte alle rimostranze del consumatore insoddisfatto: di fronte alla richiesta di spiegazioni, chiarimenti o in merito a precise contestazioni su fatti specifici a banche, produttori automobilistici, aziende di telecomunicazioni, assicurazioni, ecc. si assiste spesso all'applicazione di una strategia tristemente nota, anche ai non addetti ai lavori, come "muro di gomma".

Di fronte a ciò i cittadini, da soli o con il supporto delle associazioni dei consumatori, ricorrono sempre più spesso alla denuncia presso i mezzi di informazione (giornali, radio e televisione) e , in particolare, a quelle (rare) trasmissioni dedicate alla denuncia, al contraddittorio, ad un autentico confronto tra utente e aziende, pubbliche o private che siano.

La televisione, da un lato, è probabilmente il veicolo pubblicitario più accattivante per le grandi marche che, tramite le ingenti risorse finanziarie investite in questo mezzo, ne influenzano (se non ne determinano radicalmente) palinsesti e scelte editoriali.

Sulla base di questo rapporto le imprese, in un certo senso si sentono in diritto di avere una sorta di "trattamento di favore" tendente a minimizzare l'audience nel momento in cui notizie negative vengono a danneggiare l'immagine di un loro prodotto.

D'altra parte, la componente giornalistica dei media, richiamandosi alla libertà di informazione e all'etica professionale, ha tutto il diritto e il dovere di informare il pubblico sugli eventuali problemi che si possono verificare con i prodotti che acquistano.

Il rapporto tra queste due "anime" dell'informazione è generalmente regolato da oliati meccanismi di equilibrio basati sulla diffusione delle informazioni:

- dalle aziende verso l'interno delle redazioni attraverso l'uso di appropriati uffici stampa (che, conoscendo i meccanismi giornalistici, sanno come veicolare al meglio il messaggio);

- da parte dei media verso l'esterno solo in presenza di fatti oggettivi (interventi dell'autorità giudiziaria; grande rilevanza dell'evento per il pubblico, come nel caso delle presunte intossicazioni da Coca Cola di cui sopra).

I programmi di denuncia e/o di servizio all'utente rappresentano in molti casi una sorta di spina nel fianco per le aziende che non amano certo lavare i propri panni sporchi davanti ad un pubblico di milioni di persone.

Ecco quindi che il portavoce aziendale, nel caso l'azienda decida di partecipare al contraddittorio, dev'essere in grado sia di sostenere le argomentazioni più efficaci per convincere il pubblico televisivo della buona fede della società che rappresenta, sia di saperlo fare negli strettissimi tempi televisivi dove contano semplicità, chiarezza e comunicatività.

 

Concludendo...

Sia che si tratti di "effetto placebo" o di "effetto nocebo", resta il fatto che sempre di più l'umanità sembra in balia di condizionamenti mentali che ne inducono comportamenti caratterizzati da profonda incoscienza.

L'acquisto di oggetti, servizi e quant'altro ci prometta l'immedesimazione in un "modello" (di uomo e/o di donna, di lavoro, di vita, di svago, ecc. ecc.) offertoci dalla pubblicità che accompagna quei prodotti ha comunque un effetto temporaneo. Come la bibita di cui sopra, ci placa la sete ma tutto è studiato per farcela rivenire dopo un pò, per perpetuare la nostra dipendenza.

 

 

 

 

 

 
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