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TURISMO E CATASTROFI

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Abbiamo speso 900 miliardi di dollari in spese militari,
300 miliardi in sostegni all’agricoltura,
50 miliardi in aiuti allo sviluppo.
Forse dovremmo provare a fare il contrario.

James Wolfensohn
Presidente della Banca Mondiale

Emerge, anche alla luce del pallido sole che illumina ciò che resta di una paradiso turistico, un contrasto inaccettabile: tra la formidabile macchina organizzativa che i paesi ricchi sanno mettere in campo quando decidono di fare la guerra, e la povertà di mezzi con cui affrontiamo una calamità globale che ha superato i 150.000 morti e oltre 500.000 feriti, inclusi molti occidentali.
Lo tsunami ha colpito molti Paesi che aderiscono all’ASEAN (Associazione delle Nazioni dell’Asia Sudorientale che oggi riunisce Brunei, Cambogia, Filippine, Indonesia, Laos, Malaysia, Myanmar, Thailandia, Singapore e Vietnam), un’alleanza nata nel 1967 e che, dal 1992, ha l’ambizione di prefigurare qualcosa di simile al processo di integrazione europeo. Finalizzata alla cooperazione politica, economica e sociale (la protezione dell’ambiente non è inclusa tra le finalità) la regione ha ottenuto ottime performance sul piano dell’innalzamento del Prodotto Interno Lordo dell’area ma, solo agli inizi degli anni ‘90 - sotto gli effetti congiunti del crollo della pesca, di una deforestazione che procedeva al ritmo di un milione e mezzo di acri all’anno, di un deperimento pauroso della qualità delle acque e di un altissimo pericolo di contaminazione da rifiuti tossici e nocivi - si è giunti alla firma di un “Accordo sulla conservazione della natura e delle sue risorse” (sulla carta antesignano della Dichiarazione di Rio e di parte del programma dell’Agenda 21 del 1992) che però è stato finora ratificato solo da tre paesi e che per divenire esecutivo deve esserlo da tutti i paesi dell’ASEAN.
Nel 1992 il Presidente delle Maldive Maumoon Abdul Gayoom era intervenuto alla Conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente di Rio de Janeiro ammonendo i suoi colleghi, capi di stato e di governo di tutto il mondo: «Un innalzamento di venti centimetri del mare in trent’anni forse a voi non potrà sembrare molto, ma per noi significa sparire dalla faccia della Terra se ciò dovesse succedere entro il 2030: perché l’80% delle Maldive è fatto di territorio alto meno di 2 metri sul livello del mare».
Ora siamo qui, leader politici e semplici cittadini, a guardare in televisione gli effetti devastanti di una marea imprevista e forse prevedibile che ha travolto tragicamente l’esistenza delle milioni di persone direttamente coinvolte e, indirettamente, la sensibilità di qualunque cittadino del mondo che ha potuto assistervi mediaticamente.
Da quest’ultimo punto di vista il cataclisma ha avuto dalla sua il fatto di svolgersi in un’area geografica densamente visitata da turisti occidentali, il che ne ha fatto oggetto di una immediata e ridondante cassa di risonanza a livello mondiale. Vip e normali vacanzieri di Natale e Capodanno al sole dei tropici si sono ritrovati uniti su una scialuppa di salvataggio, sballottati da un mare che ha travolto barriere coralline e di censo, che li ha messi al livello dei poveri abitanti di quei luoghi che per noi sono “di vacanza”, “di evasione”, ma per chi ci vive sono “di lavoro”, “di sfruttamento”.

 

Beata vacanza, beata ignoranza…


Il turismo è considerato per definizione un’attività leggera e disimpegnata: in realtà esso provoca ogni anno 6 miliardi di spostamenti, occupa 127 milioni di persone (1 persona su 15 nel mondo lavora nel settore) e produce il 6% del Prodotto Interno Lordo del pianeta. Queste cifre, destinate peraltro a crescere, spiegano l’impatto che questa industria ha e potrebbe avere sempre di più in futuro sull’ambiente e sulle sue risorse naturali, già pesantemente minacciate da altri tipi di industria. Per fare un esempio, le Maldive (le honey moon’s islands perché ci andavano a finire tutte o quasi le coppie europee dopo il fatidico “sì”) sono per noi turisti inconsapevoli solo sinonimo di “paradiso” ma non tutto è così celestiale, né dal punto di vista ambientale né da quello sociale: ma andiamo con ordine.
È dalla fine del 1997 che le barriere coralline di gran parte dell’Oceano Indiano cominciano a mostrare i segni del loro degrado: le madrepore, formate da miliardi di esseri viventi (minuscoli polipi in simbiosi con alghe microscopiche) che costruiscono il reef - caratterizzato dai più sgargianti colori (rosa, blu, viola, verdi, gialli, marroni) - a seguito del riscaldamento dell’oceano, legato ai mutamenti climatici e all’effetto serra, o anche dell’inquinamento delle acque, muoiono e diventano… bianche. Nel giro di soli tre anni il fenomeno si amplia in maniera sempre più preoccupante anche in isole lontane da Malè, a nord e a sud dell’arcipelago, a Minadunmadulu, a Kolumadulu. È scandaloso che nessuno ne parli. Ma ormai non sono solo le Maldive in questo stato: le madrepore stanno morendo anche alle Seychelles, a Mauritius, negli atolli di Karavatti e Cannanore delle Laccadive, persino nelle semisconosciute Andatane e nelle Nicobare, negli atolli più sperduti di fronte alla penisola arabica e alle coste del Madagascar.

Ma sui depliant turistici le immagini che appaiono sono sempre quelle coloratissime di una volta: chi se ne intende ormai lo sa e cerca un altro paradiso intatto altrove (finché se ne troveranno…) e, chi non ci capisce niente di mare, ammirerà… la morte del corallo e di un fragilissimo ecosistema (non solo metaforicamente) su cui poggia l’immenso “edificio” di un turismo di massa costruito disinvoltamente dall’uomo.
Sul piano sociale l’arcipelago delle Maldive è una repubblica di 300 mila cittadini (oltre 852 per km2 - una densità maggiore perfino di quella del Bangladesh - a cui si sommano quasi 600.000 turisti stranieri, tra cui 140 mila italiani ogni anno!) dove non tutto fila liscio: nei mesi scorsi ci sono stati scontri tra potere e opposizione, con tanto di feriti e perfino morti. Gli avversari del Presidente Gayoom (al potere dal 1978, una longevità politica che supera quella di tutti gli altri capi di stato asiatici in carica) hanno dovuto fondare un loro partito all’estero, nello Sri Lanka, perché nelle Maldive i partiti sono vietati.
Seppure il turismo abbia permesso all’economia locale di decuplicare il reddito pro capite negli ultimi 25 anni (il 60% delle risorse valutarie viene da questo settore, il resto dalla pesca del tonno), i due terzi della popolazione, in maggioranza giovani sotto i 25 anni, guadagna in un mese meno del costo di una camera per notte, lavorando in condizioni di lavoro non certo “paradisiache”: uno sfruttamento che ha provocato ribellioni sempre più frequenti.
Ma per il turista (e per il tour operator, soprattutto, business as usual) è meglio non sapere niente di tutto questo. I contatti con la popolazione locale sono quasi del tutto inesistenti: non si è verificata alcuna “contaminazione” culturale tra la popolazione locale e i turisti, a differenza di quanto accaduto in altre aree vicine (Goa, Bali o Thailandia, nel bene e nel male, si pensi allo sciagurato “turismo sessuale”…).
Dev’essere una beata vacanza nella più beata ignoranza… È quanto stanno già sperimentando gli ignavi (non ignari) vacanzieri che, ad una settimana appena dal cataclisma, sono lì, a pochi passi dalla disperazione e dalla devastazione, a sorseggiare un drink, a godersi una sacrosanta vacanza, costi quel che costi…
Non che prima le cose andassero meglio: solo persone con il prosciutto sugli occhi e/o con il pelo sullo stomaco potevano trascorrere le ferie in paradisi “fuori dal mondo” infernale che è lì, a due passi dal resort, dietro il muro del villaggio turistico, nella bidonville a breve distanza dall’albergo cinque stelle… E dire che di posti non proprio tranquilli al mondo ce ne sono: basta informarsi presso il sito internet del nostro Ministero degli Esteri. Ma sembra che per godersi la vacanza in certi paesi dell’Africa, dell’Asia, dell’America Latina non devi vedere, non devi parlare, in una parola: non devi pensare.

 

 

Chi piange, chi ride…


A una prima valutazione molto sommaria l’impatto del maremoto sulle economie delle nazioni più colpite dalla calamità appare limitato. Per due motivi: o perché si tratta di aree già molto depresse, dove l’onda anomala aveva poco da portarsi via, se non la vita della povera gente; oppure perché, per quanto devastante ed invasivo (ad Aceh, la regione indonesiana più vicina all’epicentro, l’acqua è penetrata per quasi 6 km nell’entroterra), lo tsunami ha prodotto la maggior parte del suo effetto distruttivo in prossimità delle coste dove solitamente la presenza degli insediamenti industriali è scarsa.
È stato invece un colpo molto duro per l’industria turistica dei paesi sconvolti dall’onda anomala, ma anche per quella dei paesi ricchi dell’Occidente. Qui il settore del turismo organizzato avrà un ulteriore tracollo: l’associazione dei tour operator stima che il settore possa perdere fra i 70 e gli 80 milioni di euro nel solo mese di gennaio sulle rotte asiatiche, con una flessione della domanda stimabile nel 30%.
Le assicurazioni invece tirano un sospiro di sollievo: la catastrofe del Golfo del Bengala è un disastro di serie B nelle ciniche graduatorie dei broker mondiali. I costi a carico delle grandi compagnie assicurative, secondo le prime stime molto provvisorie degli analisti, oscilleranno tra 1 e 5 miliardi di dollari, “pochi” spiccioli rispetto ai 20 miliardi di danni ai bilanci del settore causati dai 4 uragani caraibici abbattutisi sulla Florida nello scorso autunno.
Le ragioni di un conto così sproporzionato rispetto alle dimensioni della tragedia sono due.
La prima è che ben poca gente nell’area interessata dal maremoto era assicurata: la spesa media annua pro-capite per le polizze in Indonesia, il più avanzato dei paesi travolti dallo tsunami, è di 14,5 dollari contro i 3638 degli USA. La seconda è che il costo del lavoro nell’area è molto basso e così anche le spese per la ricostruzione saranno relativamente ridotte.
Peraltro il 2004 è stato per le grandi compagnie di assicurazioni un anno “nero”: i danni economici provocati da “disastri per cause naturali” hanno superato per la prima volta la barriera dei 100 miliardi di dollari, di cui 42 sono o diverranno richieste di risarcimento. I dolori peggiori però le compagnie non li hanno avuti da eventi catastrofici avvenuti in paesi in via di sviluppo (che pure da soli hanno sofferto quasi la metà dei 21 mila morti in queste tragedie, esclusa quella del Golfo del Bengala), ma dagli uragani abbattutisi in passato sugli USA e sul Giappone, dove, si sa, il costo e… il “valore” della vita è di serie A!
Adesso che la bolletta di quei disastri ha sfondato l’argine dei 100 miliardi di dollari di perdite economiche, qualche associazione ambientalista spera che questo indurrà i vertici economici e politici mondiali a “inventarsi” qualche cosa per prevenire o ridurre gli effetti dei cataclismi “naturali” in cui talvolta c’è anche lo zampino dell’uomo (come nel caso dei cambiamenti climatici).

 

La parola alla… Scienza


Gli scienziati sono molto cauti nel mettere in relazione l’intensificarsi dei disastri naturali con l’effetto serra o altre alterazioni dell’ecosistema causate dall’uomo. È però significativo che i dati forniti da Swiss Re, la più grande società di ri-assicurazione mondiale, mettono bene in risalto una coincidenza perlomeno sospetta: dal 1990 il tasso di catastrofi naturali ha subito un’impennata, lo stesso anno in cui il fenomeno del riscaldamento del clima è diventato più significativo.
Il Centro di ricerca sull’epidemiologia dei disastri dell’Università di Lovanio (che collabora con l’Organizzazione Mondiale della Sanità) ha contabilizzato in 570 i disastri naturali verificatisi negli ultimi 30 anni: 75 disastri nel 1975, 150 nel 1982, 225 nel 1994, 546 nel 2000. L’ONU afferma poi che il numero dei morti per effetto dei disastri naturali negli anni ‘90 è raddoppiato rispetto agli anni ‘70.
Da questi dati emerge un’altra tragedia… nella tragedia: i maggiori danni provocati da catastrofi naturali (alluvioni, cicloni, eruzioni vulcaniche, tempeste, terremoti) gravano sistematicamente sui Paesi poveri. Non si tratta di accanimento della natura matrigna contro i meno abbienti: il problema sta nel fatto che il moderno sviluppo delle scienze naturali e dell’elettronica-informatica che consente la trasmissione istantanea delle informazioni, permette ai paesi avanzati di evitare o limitare catastrofi: per esempio anche con la costruzione di case antisismiche, realizzate su vasta scala in Giappone per limitare o addirittura eliminare i danni dei terremoti.
Anche il modo in cui si protegge il territorio è importante: l’uragano Jeanne fece 3000 morti ad Haiti e solo 20 nell’altra parte della stessa isola, nella Repubblica Domenicana. È vero che quest’ultima ha avuto un maggiore sviluppo economico rispetto ad Haiti, ma c’è anche un’altra spiegazione: Haiti ha distrutto i suoi boschi, che hanno un ruolo fondamentale nel proteggere il suolo dal dilavamento causato dalle piogge e nel limitare i danni degli uragani, mentre la Repubblica Domenicana li ha protetti.
Ma avere risorse non è sempre sufficiente: bisogna saperle usare. Purtroppo a questa categoria appartiene anche l’Italia: siamo l’unico Paese industrializzato compreso nell’elenco di quelli che hanno subito le peggiori catastrofi naturali per numero di morti a partire dal 1970. Il triste primato dipende dal terremoto che il 23 novembre 1980 causò ben 3100 vittime in Campania e Basilicata. La scossa era inevitabile, ma le costruzioni inadatte a resistervi pesano sulla coscienza non solo dei cittadini ma soprattutto dei Governi nazionali e locali che non promossero la costruzione di edifici asismici e, anzi, con i condoni incoraggiano edificazioni raffazzonate e in località a rischio.

Per altro vi è da dire che le catastrofi naturali, terremoti e maremoti, sono sempre accadute a intervalli più o meno regolari, ma le conseguenze sono adesso spesso più gravi perché avvengono in zone ad alta densità di popolazione e, in termini di vite umane, il bilancio finisce per essere peggiore.
Secondo alcuni scienziati, malgrado il fatto che la possibilità di prevenire i terremoti è al momento quasi inesistente, anche questo sisma avrebbe potuto provocare meno morti se fosse stato affrontato meglio, perché ci sono volute 2-3 ore per raggiungere alcuni dei posti colpiti. L’entità di questa tragedia poteva essere drasticamente ridotta anche della metà con un adeguato sistema di preallerta, costituito da tecnologie avanzate, un’efficace organizzazione di protezione civile ed una capillare educazione della popolazione nelle zone a rischio.
Il termine “globalizzazione” ci induce a pensare che tutto il mondo è connesso, che l’informazione possa viaggiare in tempo reale tra i punti più distanti del pianeta, ma non è affatto così, e ce ne accorgiamo dolorosamente in questi casi. Adesso, di colpo, ci rendiamo conto che non solo i due terzi dell’umanità non ha mai effettuato una telefonata, ma un terzo non sa neppure cosa sia un interruttore della luce, perché non è collegata alla rete elettrica.
Uno degli ostacoli più evidenti nell’opera di soccorso è la mancanza di infrastrutture che rallentano la nostra buona volontà di soccorrere le popolazioni colpite: solo oggi scopriamo che anche prima dello tsunami in molte di queste regioni (quelle poco battute dai turisti) mancavano reti di trasporto, acqua, energia, fogne, sanità, comunicazione. I media criticano i governi per non averle costruite, come se i beni collettivi fossero una priorità in tempi di libero mercato…
Se si fossero avvertite più tempestivamente le popolazioni di alcune zone, dopo che si è creata la prima onda, sarebbe stato possibile evacuarle e salvare molte vite. Le onde avanzavano a 500 km/h ma certe località erano a 2500 km di distanza: la Thailandia meridionale è stata investita un’ora dopo il terremoto originario, l’India e lo Sri Lanka due ore e mezzo dopo. Ancora più tardi Malesia e Maldive. Si potevano avvisare le aree interessate del pericolo incombente e lanciare un ordine di evacuazione per la popolazione. Nessuno lo ha fatto: perché?
Eppure sistemi di monitoraggio e prevenzione esistono in Giappone e sulla costa pacifica degli USA ed hanno funzionato anche in questo caso: il direttore della stazione di Honolulu del “Centro di allerta maremoti per il Pacifico” (i cui sismografi avevano captato quello che stava accadendo sotto le acque intorno a Sumatra) 15 minuti dopo la scossa ha emesso un bollettino diffondendolo a tutti i 26 paesi membri del DART (Sistema internazionale di allarme anti tsunami), tra cui anche Indonesia e Thailandia. L’allarme nei paesi interessati è stato però evidentemente sottovalutato e l’informazione si è diffusa troppo lentamente, via telefono, senza la tempestività garantita da sistemi tecnologicamente più avanzati: la mancanza nei Paesi colpiti di sensori in grado di capire in anticipo direzione e caratteristiche dei maremoti ha fatto il resto.
I costi di un sistema di monitoraggio, analogo a quelli americani e giapponesi, sono infatti molto elevati e serve personale specializzato per gestirlo: secondo gli studiosi, le probabilità che un evento del tipo tsunami si verificasse nell’oceano Indiano erano scarsissime e quindi alcuni paesi, come India e Bangladesh, avevano preferito investire le poche risorse disponibili per realizzare un sistema congiunto di monitoraggio anti-tifoni, in grado di salvare la vita di migliaia di persone da questi eventi naturali tipici di quest’area. Là i pescatori sono ormai abituati ad ascoltare le previsioni meteo alla radio: le loro vite, molto spesso, dipendono da semplici, banali radioline a transistor che descrivono i movimenti e i cambi di traiettoria dei cicloni. L’India non poteva permettersi 26 milioni di dollari per un sistema di monitoraggio dopo aver speso 3 miliardi di dollari per fabbricare bombe atomiche, che speriamo non userà mai…
Il ruolo più cruciale del DART spetta agli individui incaricati di trasmettere l’allarme dal centro di segnalazione terrestre al pubblico: negli USA i bollettini possono essere irradiati immediatamente e in maniera capillare a tutte le radio e tv del paese. Entro la fine del 2005 è previsto un nuovo dispositivo di allarme che azionerà automaticamente altoparlanti su torrette poste su tutte le spiagge del paese.
Solo un problema di pertinenza di Paesi in via di sviluppo, carenti di fondi e di conoscenza scientifica? A giudicare dalla situazione in Italia non si direbbe. Pur avendo completato il catalogo storico dei maremoti nel nostro paese, di cui abbiamo notizie fin dal 79 d.C, e pur consapevoli del fatto che la vicinanza delle loro sorgenti alla fascia costiera è un’aggravante per l’esiguità del tempo (pochi minuti) a disposizione per avvertire la popolazione, di fatto anche noi siamo privi di un sistema capace di dare tempestivamente l’allarme.
Va inoltre considerato un altro fattore: nel caso dello tsunami del sud-est asiatico, oltre ad una carenza di tecnologia si è manifestata una carente valutazione dell’informazione. Lentezza ed errata percezione della gravità della situazione hanno dunque amplificato i termini della catastrofe e hanno contribuito a moltiplicare le morti. Un problema più umano che tecnico, dunque.

 

Due mondi accomunati


Secondo alcuni lo tsunami dell’Oceano Indiano ha rimarcato in modo tragico lo squilibrio tra due mondi, quello scientifico e tecnologico, un club ristretto che possiede strumenti di previsione e di protezione per i suoi cittadini, e l’altro mondo, ai margini dello sviluppo, dove le popolazioni sono abbandonate alla furia degli elementi, senza aiuto, senza soccorso.
L’ignoranza, fattor comune ai due mondi di cui sopra, ha dimostrato ancora una volta di essere all’origine di gran parte dei mali dell’umanità. L’egoismo impedisce di condividere i progressi scientifici, la povertà di attrezzarsi adeguatamente per fronteggiare i pericoli.
Qui ricchi e poveri hanno condiviso una stessa tragica sorte. Nei primi momenti dopo una catastrofe, scatta immediata l’onda della solidarietà capace di superare antiche e profonde divisioni: fu così dopo un terremoto al confine tra India e Pakistan alcuni anni fa, così è adesso in Sri Lanka, dove la comunità civile si è prodigata negli aiuti senza tenere in conto l’etnia delle vittime, se fossero tamil o cingalesi.
Dalle rovine di questa catastrofe potrà nascere un comune impegno per la ricostruzione di un mondo unito nella comune lotta all’ignoranza?
Saranno capaci le Nazioni Unite, di nome e di fatto, di colmare le enormi differenze che diventano sempre più abissi tra ricchi e poveri?
Saranno capaci i nostri governanti di rivedere le loro convinzioni sulle catastrofi, considerate solo fenomeni naturali (forse manifestazioni divine?) contro le quali non si può far niente, se non rassegnarsi e ricominciare, cambiando tutto per non migliorare niente?
Saremo capaci, noi tutti, di ricordarci che la vita di ogni essere umano è importante aldilà del colore della pelle? Che il valore della vita non dipende dal fatto che appartenga ad un turista o ad un locale ma dal fatto di scoprirne il senso?


Indonesia tsunami fear

 
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