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Nutrizione

L'insostenibile peso del gambero

 

L'insostenibile peso del gambero


Secondo il "Global study of shrimp fisheries" della FAO - che analizza i problemi, e le possibili soluzioni, della pesca dei gamberetti in Australia, Cambogia, Indonesia, Kuwait, Madagascar, Messico, Nigeria, Norvegia, Trinidad e Tobago ed Usa - “riducendo la capacità di pesca e limitando l´acceso alla pesca di gamberetti, si potrebbero attenuare lo sfruttamento eccessivo, le catture accidentali e la distruzione dei fondali marini, alcuni dei maggiori effetti collaterali - sia economici che ambientali - della pesca dei gamberetti”.

 

La segnalazione: http://www.greenreport.it/contenuti/leggi.php?id_cont=18052

Il comunicato stampa della FAO: http://www.fao.org/news/story/it/item/10159/icode/

L'intervista all'esperto: http://www.fao.org/news/video-clips/2009/shrimp0/en/

Il Rapporto: ftp://ftp.fao.org/docrep/fao/011/i0300e/i0300e.pdf

 

 


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Lo chef e la guerra cellulare

Lo chef e la guerra cellulare

di Daniela Condorelli

(da “Dweb – La Repubblica delle donne” del 31 gennaio 2009)


Come fa il cibo ad allontanare il cancro? Perché alcune sostanze si comportano come killer e altre invece ci proteggono? Un corso di cucina lo spiega e insegna a cambiare menu.

 

Nel 2009 dieci milioni di persone si ammaleranno di cancro. Almeno tre milioni avrebbero potuto evitarlo. Sarebbe bastato un buon corso di cucina. Che spegnere la sigaretta salvi da nove tumori del polmone su dieci lo sanno tutti, anche se non tutti la spengono. Ma non tutti sanno che, a tavola, può cambiare il destino. Si salvano tre milioni su dieci. Uno su tre. Cinico? Statisticamente discutibile? Nessuno mi darà mai la garanzia che non mi ammalerò. Ma uno su tre, in tema di cancro, è un'immensità. Chi vorrebbe sapersi artefice della propria malattia o di quella dei propri figli? Basta cambiare menu. (...)

L'articolo: http://dweb.repubblica.it/dettaglio/lo-chef-e-la-guerra-cellulare/56448?page=1

 

 










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UN CASO DI ORDINARIA FOLLIA...

UN CASO DI ORDINARIA FOLLIA...

Una mai debellata epidemia si espande nelle nostre società: l'incapacità di ragionare con il proprio cervello.

 

 

Quanto è pazzo, pazzo, pazzo questo nostro mondo!

 

Sempre più spaccato in due grandi emisferi contrapposti, contrastanti manifestazioni della dualità dell'essere umano che lo abita. Un Giano bi-fronte che ha di fronte a sé il futuro tecnologico sempre più a portata di mano ma che usa per le sue scelte, spesso assai poco consapevoli, i meccanismi ancestrali di un cervello di cui ignoriamo quasi completamente il funzionamento.

Come spiegare altrimenti i paradossi della società di massa, di questo mondo sempre più globalizzato culturalmente, per non dire plagiato commercialmente?

Recentemente vittima di quello straordinario meccanismo mentale che qualcuno chiama "isteria collettiva", "disturbo sociogenico di massa - mass sociogenic illness" o "effetto nocebo" è stata una delle società che forse più di tutte ha fatto della massificazione commerciale la sua filosofia di espansione: la Coca Cola.

A sostenerlo è uno studio dell'Università Cattolica di Lovanio che, per conto del governo belga, ha condotto un'indagine tossicologica volta a chiarire lo scandalo che ha coinvolto l'estate scorsa la multinazionale americana in Belgio: dunque, nessuna intossicazione, malori inesistenti, solo disturbi di origine psicosomatica per centinaia di persone in Belgio e Francia!

Il gruppo di ricercatori hanno illustrato le conclusioni del loro lavoro in una lettera pubblicata dall'autorevole rivista medica "The Lancet": i malesseri lamentati dai ragazzi non sono dovuti ad alcuna intossicazione riconducibile all'assunzione della bevanda. Trattasi, invece, di una reazione psicosomatica favorita dall'allarmismo dei mezzi di informazione e da una situazione di sfiducia complessiva in un Paese "sconvolto" dall'emergenza alimentare della diossina.

Secondo i ricercatori l'analisi condotta sulle bibite ha evidenziato sì un'alterazione dell'anidride carbonica e la presenza di un fungicida, ma in quantità assolutamente innocua! L'unico piccolo, trascurabile effetto (difetto?) che avrebbero prodotto queste alterazioni, è l'aver generato un odore nauseabondo tale da rendere la bibita quasi imbevibile. E basta!

Il resto è stata opera dei mass media (che, forse, la Coca Cola citerà per danni, chiedendo indennizzi multimiliardari), dell'ansia prodotta dalla diossina (forse è per questo che è così pericolosa, la diossina!) e, in qualche misura, anche dall'atteggiamento "reticente" della multinazionale di Atlanta nei primi giorni della crisi.

Ma analizziamo con ordine i fatti.

 

"Nessuna evidenza clinica o di laboratorio"

"La ragione per pensare che i ragazzi non erano in realtà stati avvelenati dalla Coca Cola - spiega al quotidiano italiano "Il Sole -24 Ore", il prof. Benoit Nemery, docente all'Università di Lovanio e coordinatore dell'indagine - è che non sono state trovate evidenze cliniche o di laboratorio che attestino l'evento (i loro sintomi erano assai deboli) e comunque non sono stati trovati agenti tossici capaci di spiegarli. Questo in realtà non significa che non sia successo nulla. Nella scuola dove si sono verificati i primi casi, molto probabilmente c'era qualcosa che non andava, la Coca Cola aveva cioé un cattivo gusto o un cattivo odore. Però, sono fermamente convinto che i ragazzi sono stati ricoverati solo perché "allarmati" in un contesto dove la crisi causata dalla diossina e l'ansia dovuta alla salubrità dei cibi, non lasciava scelta ai medici che hanno preferito non correre rischi".

Anche se la Coca Cola non ha rilasciato commenti sulla ricerca questa versione dei fatti "scagiona" in un certo senso l'azienda che, tra ritiro precauzionale dei prodotti e spese di comunicazione, ha speso circa 160 miliardi di lire.

Sul banco degli accusati sembrano ora restare solo i mezzi di comunicazione...

 

Un terremoto mediatico

I media infatti possono facilmente innescare una crisi o aumentarne la "magnitudo", quasi fosse un vero e proprio terremoto.

A seconda dei fattori che scatenano la crisi e la tipologia, si può costruire una sorta di "Scala Mercalli" della comunicazione:

- un primo livello, di natura tecnologica (quasi asettico, trascurabile apparentemente o forse risolvibile grazie allo stesso apparato tecnologico che ha causato il danno);

- un secondo livello, infrastrutturale;

- un terzo che coinvolge i fattori umani (siamo già ad un livello pericoloso);

- il quarto livello, che coinvolge la sfera culturale degli individui;

- ed, infine, il quinto livello, il più critico, allorchè viene intaccata la sfera emotiva e che può causare quei ben noti stati di vero e proprio "shock emotivo".

Secondo gli esperti, quanto più i messaggi che derivano da uno stato di crisi hanno connotati che interagiscono con la sfera emotiva dei consumatori, tanto maggiori sono l'impatto di una crisi e i suoi effetti negativi nel tempo.

La variabile che più genera stati di panico collettivi sembra essere la velocità dei flussi di informazione: secondo alcuni esperti di "crisis management" (divenuti sempre più necessari per le aziende in difficoltà) la "pressione mediatica" nel momento dell'emergenza è tale da costituire una sorta di "problema nel problema" che richiede un'attenta gestione.

Tra gli esperti non sono pochi quelli che, vista la mancanza di tempo "giornalistico" per andare alla ricerca della verità, suggeriscono alle aziende di assumersi la responsabilità e le colpe, anche quando non ci sono.

Ma, nei corsi di formazione per esperti di crisis management, viene studiato e preso come esempio di "emergenza evitata" il caso di tempestivo intervento di un'azienda, coinvolta in un caso di intossicazione alimentare, che riuscì abilmente a sottrarre dalla cassa di risonanza dei media l'incidente, salvandosi così dal boicottaggio dei consumatori, per poi chiarire con un'inchiesta interna, le cause dei malesseri non proprio psicosomatici accusati da cinque suoi clienti.

Ma allora, come comportarsi? Si fa ma non si dice? Oppure si dice ma non si fa?

 

Elogio della trasparenza

Nel mondo iperuranico dell'alta finanza tutti spergiurano che è "meglio parlare che tacere": questa sembra essere la "regola base" dei rapporti tra società quotate in Borsa e investitori finanziari, regola cha vale sempre (o quasi) soprattutto in caso di crisi.

Allorquando si verifica un evento straordinario che minaccia di influire sui bilanci di un azienda e/o sull'andamento del titolo, se questa è quotata in borsa, è bene che il mercato sappia con tempestività qual'è il danno, le sue dimensioni e le misure che il management intende adottare per fronteggiarlo.

Fornire al mercato tutte le informazioni necessarie: questo dovrebbe essere, per gli esperti di comunicazione, il comportamento più sensato che un'impresa dovrebbe assumere nella gestione delle emergenze.

Se così non è, se non arrivano puntualizzazioni sollecite ed esaurienti o se il mercato ha la sensazione che la società si comporti in modo poco trasparente, si formano opinioni deviate, viene meno la fiducia e ciò può avere pesanti ripercussioni sulle quotazioni del titolo che può addirittura finire sospeso per eccesso di ribasso.

Questo "dovere di informazione" (sulla cui veridicità, poi, si può anche discutere) verso il pubblico diventa però un obbligo verso gli azionisti: il passaggio chiave è spiegare alla platea degli investitori come si intende affrontare il problema che si è creato, quali strategie d'intervento ha il management e i risultati che si presumono di ottenere.

Fondamentale in questo senso è la scelta del chi comunicherà, a chi e come.

 

Il cliente ha sempre ragione?

C'era una volta... un tempo in cui si diceva che "il cliente ha sempre ragione". Questo vecchio adagio in campo commerciale viene sempre più stravolto puntando ad un guadagno immediato, alla conquista di nuovi mercati.

Nella casistica della litigiosità che contrappone sempre più spesso aziende e consumatori non è in discussione tanto la qualità dei prodotti ma piuttosto la qualità del servizio al cliente.

In questo senso molte imprese manifestano un vero e proprio deficit di comunicazione di fronte alle rimostranze del consumatore insoddisfatto: di fronte alla richiesta di spiegazioni, chiarimenti o in merito a precise contestazioni su fatti specifici a banche, produttori automobilistici, aziende di telecomunicazioni, assicurazioni, ecc. si assiste spesso all'applicazione di una strategia tristemente nota, anche ai non addetti ai lavori, come "muro di gomma".

Di fronte a ciò i cittadini, da soli o con il supporto delle associazioni dei consumatori, ricorrono sempre più spesso alla denuncia presso i mezzi di informazione (giornali, radio e televisione) e , in particolare, a quelle (rare) trasmissioni dedicate alla denuncia, al contraddittorio, ad un autentico confronto tra utente e aziende, pubbliche o private che siano.

La televisione, da un lato, è probabilmente il veicolo pubblicitario più accattivante per le grandi marche che, tramite le ingenti risorse finanziarie investite in questo mezzo, ne influenzano (se non ne determinano radicalmente) palinsesti e scelte editoriali.

Sulla base di questo rapporto le imprese, in un certo senso si sentono in diritto di avere una sorta di "trattamento di favore" tendente a minimizzare l'audience nel momento in cui notizie negative vengono a danneggiare l'immagine di un loro prodotto.

D'altra parte, la componente giornalistica dei media, richiamandosi alla libertà di informazione e all'etica professionale, ha tutto il diritto e il dovere di informare il pubblico sugli eventuali problemi che si possono verificare con i prodotti che acquistano.

Il rapporto tra queste due "anime" dell'informazione è generalmente regolato da oliati meccanismi di equilibrio basati sulla diffusione delle informazioni:

- dalle aziende verso l'interno delle redazioni attraverso l'uso di appropriati uffici stampa (che, conoscendo i meccanismi giornalistici, sanno come veicolare al meglio il messaggio);

- da parte dei media verso l'esterno solo in presenza di fatti oggettivi (interventi dell'autorità giudiziaria; grande rilevanza dell'evento per il pubblico, come nel caso delle presunte intossicazioni da Coca Cola di cui sopra).

I programmi di denuncia e/o di servizio all'utente rappresentano in molti casi una sorta di spina nel fianco per le aziende che non amano certo lavare i propri panni sporchi davanti ad un pubblico di milioni di persone.

Ecco quindi che il portavoce aziendale, nel caso l'azienda decida di partecipare al contraddittorio, dev'essere in grado sia di sostenere le argomentazioni più efficaci per convincere il pubblico televisivo della buona fede della società che rappresenta, sia di saperlo fare negli strettissimi tempi televisivi dove contano semplicità, chiarezza e comunicatività.

 

Concludendo...

Sia che si tratti di "effetto placebo" o di "effetto nocebo", resta il fatto che sempre di più l'umanità sembra in balia di condizionamenti mentali che ne inducono comportamenti caratterizzati da profonda incoscienza.

L'acquisto di oggetti, servizi e quant'altro ci prometta l'immedesimazione in un "modello" (di uomo e/o di donna, di lavoro, di vita, di svago, ecc. ecc.) offertoci dalla pubblicità che accompagna quei prodotti ha comunque un effetto temporaneo. Come la bibita di cui sopra, ci placa la sete ma tutto è studiato per farcela rivenire dopo un pò, per perpetuare la nostra dipendenza.

 

 

 

 

 

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BIOTECNOLOGIE: BANDO ALLE IPOCRISIE!

BIOTECNOLOGIE: BANDO ALLE IPOCRISIE!



Le biotecnologie sono prima di tutto un "business"!
Al di là dei nobili fini che la ricerca scientifica applicata si pone per la risoluzione di alcuni tra i problemi più gravi che affliggono l'umanità (la fame, le malattie, l'inquinamento, ecc.) lo sviluppo delle biotecnologie é, di fatto, uno tra i tanti settori dell'economia (alla stessa stregua di quelli dell'auto, della siderurgia, della componentistica, dell'elettronica, ecc.) sui quali si gioca il confronto tra grandi potenze nazionali e multinazionali, pubbliche e private, per la supremazia dei mercati.
Le aspettative nate fin dalla loro prime applicazioni ne hanno evidenziato immediatamente le ricadute economiche e le legislazioni nazionali ed il diritto internazionale hanno cercato di adeguarsi, nei tempi più brevi possibili, alla pressante richiesta da parte sia del mondo scientifico di sperimentare su vasta scala i risultati dell'applicazione delle tecnologie genetiche che di quello produttivo di "brevettare" i nuovi prodotti per assicurarsi così l'esclusiva dello sfruttamento commerciale.
La legislazione sia a livello nazionale che internazionale deve anche tener conto delle potenziali ripercussioni negative della diffusione dei prodotti delle biotecnologie, ripercussioni che non sono solo ecologiche ma anche politiche e sociali.


Biotecnologie e fame nel mondo

Uno dei "cavalli da battaglia" preferiti dei sostenitori delle biotecnologie è la loro indispensabilità nel risolvere l'annoso problema della fame nel mondo.
Ma quale nazione del Terzo Mondo potrebbe permettersi il lusso di acquistare sementi del superpomodoro che non marcisce (finora l'unica creatura commestibile dell'ingegneria genetica, in vendita da poco tempo nei supermercati americani ad un prezzo dalle 2 alle 3 volte superiore a quello dei comuni ortaggi)?
Eppure gli obiettivi della ricerca della nazione leader nella ricerca biotecnologica sono quelli di far arrivare sul mercato entro i prossimi 6 anni almeno 50 nuovi prodotti biotecnologici tra cui olii meno grassi, cereali più proteici, ostriche più appetitose, arance che non gelano, patate che assorbono meno olio e carote più croccanti!
Prodotti ad alto valore aggiunto, elaborati per lo più a fini dietetici e "cosmetici", finalizzati ad un consumatore "pigro", poco disposto a cambiare nocive abitudini alimentari e di vita e più propenso piuttosto a cambiare prodotto.
Gli svantaggi per i Paesi in via di sviluppo potrebbero essere non solo quelli legati allo sfruttamento da parte di paesi "biotecnologicamente forti" delle risorse genetiche del Terzo Mondo per la creazione di prodotti ingegnerizzati ma anche quelli legati al rischio che tali prodotti "ingegnerizzati" scaccino dal mercato quelli naturali (così come avvenuto per lo zucchero, il burro di cacao ed alcuni tipi di olii), facendo così diminuire le entrate già scarse di valuta pregiata.
In una recente rassegna sullo "stato dell'arte biotecnologica" nei Paesi in via di sviluppo (Sasson, 1989) si evidenziava la necessità, per questi Paesi, soprattutto di formazione e di educazione in questo campo più che di prodotti bioingegnerizzati, nonchè di incrementi negli investimenti pubblici e privati per attivare "in situ" laboratori e centri di ricerca.
Nei fatti si assiste però al paradosso che i geni estratti da organismi provenienti da Paesi in via di sviluppo vengono modificati, inseriti in specie ospiti per migliorare il loro rendimento e garantirsi un brevetto ed, infine, rivenduti a caro prezzo agli agricoltori di quegli stessi Paesi che quella ricchezza biologica hanno contribuito a mantenere (Shand, 1993).


Le tre generazioni

Con le biotecnologie di "prima generazione" si è riusciti ad indurre i batteri a produrre particolari molecole medicinali (la somatostatina, l'ormone dell'accrescimento umano, l'interferone, la relaxina, ecc.), per lo più materiale farmaceutico coperto da brevetti soprattutto americani, inglesi, tedeschi e francesi.
Successivamente, con le biotecnologie di "seconda generazione" i geni (segmenti di DNA che codificano polipeptidi e proteine) sono stati manipolati (tagliati, ricuciti, introdotti, trasferiti) in modo da modificare specifiche caratteristiche di piante e animali: sono nate così alcune varietà vegetali che posseggono la resistenza a specifici insetti o ad altri patogeni.
Oggi, oltre a migliorare tali tecniche ed estenderne la diffusione, stanno nascendo le biotecnologie di terza generazione: si inducono le piante a produrre molecole che mai avrebbero sintetizzato nel loro organismo, perchŠ codificate solamente nei batteri e nell'uomo.
Le prime realizzazioni sono la produzione da parte di piante di colza di leucoencefalina (un'endorfina cerebrale) e dell'albumina del siero umano.
La produzione di BHB, un poliestere utilizzato per la plastica, ottenuto finora grazie al batterio "Alcaligenes eutrophus", da parte di una piccola erbaccia spontanea (la crucifera "Arabidopsis thaliana") apre nuove prospettive all'agricoltura, destinata in  futuro a fungere da sintetizzatrice di molecole per le più varie applicazioni (chimica, medicina, energia, ambiente, ecc.).
Peraltro tale compito non appare nuovo se si pensa all'ancora quasi inesplorata "creatività chimica naturale" che caratterizza il mondo vegetale: si tratterebbe ora di far produrre alle piante anche ciò che producono batteri e uomini.


Nuova agricoltura o vecchi monopoli?

Quanto detto sopra appare certamente ancora una proiezione futura: la manipolazione genetica delle piante, trionfalmente annunciata dieci anni orsono, ha mostrato  di incontrare a tutt'oggi inaspettate  difficoltà anche dal punto di vista tecnico oltre che giuridico.
E ciò malgrado che ad appoggiare e ad esercitare talvolta in proprio l'arte manipolativa non ci fossero ricercatori pivellini e compagnie sprovvedute.
Fin dalle origini la ricerca biotecnologica è stata condotta dalle più grosse multinazionali della chimica e della farmaceutica con l'appoggio dalle migliori università del mondo.
Nel settore agricolo la chimica tradizionale, dopo un paio di secoli di "lotta" contro i sistemi naturali, ha però lasciato insoluti ancora diversi "problemini"...
La vendita associata di semi + erbicida (sementi selezionate e ingegnerizzate per la resistenza ad uno specifico erbicida, venduto dalla stessa ditta) promette agli agricoltori la certezza di liberarsi per sempre di uno dei primcipali nemici delle colture: le erbacce infestanti.
Altri nemici giurati dei coltivatori sono gli insetti: una delle più grandi multinazionali è riuscita ad introdurre un gene del batterio "Bacillus thuringiensis" nel seme di mais ottenendo così il primo granturco "ingegnerizzato" per la resistenza ad un insetto, le cui piante sviluppano  una proteina in grado di contrastare l'azione di un parassita - la piralide - causa di perdite sul raccolto annuale che possono incidere fino al 20% della produzione.
La ricerca ferve anche nel campo della difesa delle piante dall'attacco dei virus, responsabili di riduzioni del 25-35% del raccolto in modo particolare nelle Solanacee (pomodoro, patata, tabacco). Oltre alle tecnologie di micropropagazione (coltura degli apici vegetativi in vitro) in grado di ottenere piante esenti da virus, sono stati individuati due approcci genetici al problema: a) selezionare piante contenenti geni che consentano un'efficace resistenza all'attacco virale; b) produrre piante transgeniche in cui la resistenza ai virus viene indotta mediante inserimento nel patrimonio genetico vegetale dei geni responsabili della produzione dell'involucro proteico dello stesso virus.
Ma anche in questo caso siamo ancora ad un livello sperimentale: la commercializzazione su larga scala di queste nuove sementi attende però più approfondite prove in campo ed il completamento dei processi di autorizzazione alla vendita da parte delle competenti autorità.
L'enfasi sui "miracolosi effetti" e le aspettative in un rapido diffondersi dei prodotti delle biotecnologie vanno dunque temperate: la manipolazione di un organismo "primitivo" come una pianta (se confrontata con un animale o addirittura con l'uomo) per farlo adattare ad un composto chimico artificiale - per giunta, tossico per i delicati meccanismi biochimici delle cellule - oppure all'ingresso di un gene batterico, è tutt'altro che semplice.
Del resto la storia delle realizzazioni dell'ingegneria genetica in campo agricolo è finora costellata di pochi successi e più frequentemente di piccole ma significative acquisizioni soprattutto nell'esplorazione degli affascinanti misteri dei genomi di virus, batteri, vegetali ed animali.


Biotecnologie buone o cattive?

Spesso nei confronti di una nuova scoperta scientifica o di una applicazione tecnologica si attua una vera e propria battaglia da parte di schieramenti contrapposti che fanno di tutto per celebrarne gli aspetti positivi o per demonizzarne quelli negativi.
Anche in questo caso e forse più che per altre innovazioni, alte si sono levate le grida tra chi sostiene che le biotecnologie potranno risolvere gran parte dei problemi che attanagliano oggi l'umanità (fame, malattie, crisi energetica, produzione di rifiuti, degradazione dell'ambiente, ecc.) mentre i detrattori ne paventano tutti i rischi collegati alla manipolazione del patrimonio genetico di una specie, anche fosse di un microscopico batterio.
E' peraltro indubbio che senza adeguate precauzioni e stante le ancora immense lacune sulla conoscenza dei sistemi biologici la manipolazione genetica potrebbe generare situazioni di non facile gestione, soprattutto considerando le conseguenze ecologiche ed epidemiologiche che potrebbere derivare dal rilascio voluto o accidentale nella biosfera di organismi geneticamente alterati che, tra l'altro, non possono essere ritirati dal mercato come qualsiasi altro prodotto "difettoso".
Ecco che quindi l'allargamento dei "detentori di know how" biotecnologico potrebbe rappresentare un rischio reale laddove la ricerca e le applicazioni non seguissero i codici deontologici che le scienze biologiche hanno messo "a guardia" di ogni ricercatore.
Una delle preoccupazioni maggiori è che il controllo e la regolamentazione pubblica si riducono via via che il settore diventa sempre più privato e più concentrato in mano ai grandi colossi transnazionali dell'agrochimica, della farmaceutica e dell'alimentare.
Il grande business che vi è dietro le biotecnologie ha come principale obiettivo il profitto che, si sa, non è sinonimo di etica.
La pressante richiesta da parte delle multinazionali di avere un sistema unificato di brevetti che permetta loro di ottenere la proprietà privata delle forme di vita geneticamente modificate
rappresenta per milioni di agricoltori dei Paesi in via di sviluppo uno "shock culturale" in quanto trasforma le risorse biologiche da beni comunitari in merci.


Conclusioni

L'ingegneria genetica si trova quindi a dover affrontare oltre ai problemi più strettamente tecnologici, legati alle ancora scarse conoscenze umane sui sistemi biologici e sulla vita, anche quelli non meno fondamentali dei valori e dei fini che presiedono all'organizzazione sociale, al cambiamento tecnologico e alla definizione delle priorità di sviluppo.
In realtà sarebbe indispensabile che su questi problemi che determineranno il nostro futuro prossimo fossimo tutti informati e attenti: l'uomo di oggi rischia sempre più di essere considerato dal sistema produttivo solo un consumatore acritico di beni e servizi.
L'informazione genetica che le biotecnologie manipolano per migliorare la qualità della vita è un prodotto del nostro tempo; la manipolazione dell'informazione è anch'essa "tecnologia" sofisticata, seppur più "datata", ma dalla quale dovremo sempre più difenderci per assicurare alla nostra vita intellettiva quella libertà di scelta che solo una conoscenza a 360 gradi delle cose può consentirci.


Bibliografia

Sasson A., 1989. Biotechnologies and developing countries: present and future. In: A. Sasson and V. Costarini (Editors), Plant biotechnologies for Developing Countries. Technical Centre for Agriculture and Rural Co-operation and the Food and Agriculture Organisation of the United Nations.

Shand H., 1993. Agbio and Third World Development. Bio/Technology, 11: 513.

Mannion A.M., 1995. Agriculture, environment and biotechnology. In: Agriculture, Ecosystems and Environment 53 (1995) 31-45.

Shiva V., 1995. Monocolture della mente - Biodiversità, biotecnologia e agricoltura "scientifica". Bollati Boringhieri.


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GLOBALIZZIAMO LA SICUREZZA ALIMENTARE !!!

GLOBALIZZIAMO LA SICUREZZA ALIMENTARE !!!

 

Di fronte ai recenti scandali alimentari che hanno interessato alcuni paesi membri (il caso dei polli alla diossina, delle intossicazioni da Coca Cola, della mucca pazza, ecc.) il Presidente della Commissione Europea aveva indicato sin nel suo discorso programmatico dinanzi al Parlamento europeo come una priorità assoluta della nuova Commissione, la sicurezza alimentare.

In quell’occasione Romano Prodi aveva affermato: “Noi come politici e come legislatori abbiamo il dovere, che è anche una responsabilità, di proteggere la salute dei nostri concittadini. E’ nostro preciso obbligo prendere i provvedimenti rapidi e risolutivi che i nostri cittadini reclamano”.

Un sistema di sicurezza alimentare efficace e credibile parte innanzitutto, secondo Prodi, da una corretta informazione circa i contenuti dei prodotti alimentari.

Un’altra priorità indicata riguarda il rafforzamento del sistema di ispezione: “Tutta la catena della produzione alimentare – dal campo alla mensa – dovrebbe essere attentamente e rigorosamente controllata in ogni sua fase in ogni stato membro” .

In questo senso l’attuale sistema che regola le ispezioni alimentari dovrà essere aggiornato e semplificato con l’obiettivo di presentarsi come un insieme unico di regole (attualmente sono più di cento le direttive di base) e di acquisire la necessaria flessibilità in funzione del progredire delle conoscenze scientifiche e tecniche.

Per raggiungere questo scopo già nei mesi scorsi era stata auspicata le costituzione di un’Agenzia europea per la sicurezza alimentare, garanzia per i consumatori e per ridurre al minimo le tensioni commerciali derivanti dalla incapacità di prendere decisioni in tempi rapidi in un settore così delicato come quello alimentare.

Nei giorni scorsi la Commissione europea ha mantenuto il suo impegno e ha pubblicato un interessante “Libro bianco” che contiene più di 80 proposte di nuove direttive destinate a rivoluzionare l’intero apparato legislativo afferente ai settori agricolo, alimentare e dei mangimi.

 

Trasparenza dai campi alla tavola

Uno dei capisaldi della nuova politica alimentare dell’Unione europea sarà la possibilità per il consumatore di poter conoscere il percorso degli alimenti, dei loro ingredienti e dei mangimi (nel caso dell’allevamento degli animali destinati alla macellazione).

I prodotti di origine vegetale ed animale presentano dei rischi intrinseci dovuti a pratiche fraudolente o alla contaminazione biologica e chimica. Questi possono derivare da prassi non corrette in fase di produzione, di immagazzinamento, di confezionamento, di trasporto e di distribuzione degli alimenti.

Una delle priorità è quella di fissare degli standard europei lungo l’intera catena che va dai prodotti agricoli ai prodotti zootecnici agli alimenti, fino alle tavole dei consumatori.

In questo settore, al momento, sono presenti norme specifiche solo per un certo numero di contaminanti, con diversità di regolamentazione tra i vari paesi.

Per esempio, riguardo all’utilizzo di pesticidi e di medicinali veterinari esistono norme che fissano i limiti massimi di residui consentiti negli alimenti e nei prodotti agricoli, ma i controlli non sono armonizzati ed ogni stato ha delle procedure diverse che creano, di fatto, una disparità di tutela tra i consumatori europei.

Nel caso del Belgio, l’assenza di verifiche interne (buone prassi produttive, verifiche di autocontrollo da parte dei produttori, piani di emergenza) unita alla mancanza di meccanismi per la rintracciabilità dei punti critici hanno consentito che la crisi della diossina si sviluppasse lungo l’intera catena alimentare.

Il documento della Commissione auspica la fissazione di regole volte a disciplinare la responsabilità primaria che sarà condivisa tra tutti gli operatori della filiera alimentare (agricoltore, produttore di mangimi, industria di trasformazione, operatore della logistica e della distribuzione).

I primi responsabili della sicurezza dei cibi rimangono gli operatori del settore alimentare che saranno tenuti, di loro iniziativa, a ridurre al minimo i rischi. Va già in questa direzione il metodo di autocontrollo Haccp (Hazard analysis and critical control points) varato nei processi produttivi di industria, distribuzione e commercio - che consente allo stesso produttore di monitorare i punti critici dal punto di vista igienico-sanitario esistenti nella intera filiera di sua competenza - che ora Bruxelles vorrebbe rendere obbligatorio anche per l’agricoltore, il primo elemento della filiera alimentare, e per il produttore di mangimi.

In quest’ultimo caso verranno definiti i materiali che possono essere usati nella produzione, compresi i sottoprodotti di origine animale. Sarà finalmente vietato l’utilizzo di animali morti e di materiali di scarto nella catena produttiva dei mangimi e verrà individuato un elenco degli altri addittiviconsentiti. Tutte misure per rispondere in modo chiaro all’attuale carenza legislativa (e di coscienza, direi…) che, in alcuni casi, ha caratterizzato negativamente il settore.

Proprio per garantire l’informazione ai consumatori tra le misure proposte sul Libro bianco sul tema “etichette” c’è l’adozione di nuove regole sull’indicazione in esse della composizione, conservazione ed uso dei vari alimenti.

Una nuova disciplina regolamenterà l’etichettatura di additivi, integratori alimentari ed alimenti arricchiti. Verrà eliminata la possibilità prevista dall’attuale normativa di non indicare i componenti o gli ingredienti dei componenti quando questi costituiscano meno del 25% del prodotto finale, garantendo così anche la salute di quei consumatori che devono evitare certi ingredienti (celiaci, diabetici, anziani, bambini, donne in gravidanza, ecc.). Anche per le confezioni di frutta fresca scatterà l’obbligo di indicare il luogo di origine del prodotto.

Tutto ciò permetterà anche, nel caso in cui si presentino rischi sanitari, la possibilità di identificare e ritirare dal mercato gli alimenti sospetti, facendo ricorso al principio di precauzione.

 

Chi controlla i controllori?

Le autorità nazionali continueranno ad avere il compito della sorveglianza e dei controlli secondo regole sempre meglio armonizzate tra i quindici paesi che al momento aderiscono all’Unione che si riserva, tramite la Commissione, di operare attraverso ispezioni periodiche l’efficacia dei controlli nazionali.

Infatti l’esperienza del servizio ispettivo della Commissione, che compie visite agli Stati membri su base regolare, ha indicato che vi sono notevoli divergenze nel modo in cui la normativa comunitaria è applicata e fatta rispettare. In effetti le recenti crisi in materia di sicurezza alimentare hanno fatto emergere tutte le falle dei sistemi di controllo nazionali.

Ciò significa che finora i consumatori non hanno potuto essere sicuri di ricevere lo stesso livello di protezione su tutto il territorio dell’Unione e che, in definitiva, per la valutazione dell’efficacia delle misure attuate dalle autorità nazionali, un ruolo centrale continueranno ad averlo gli stessi cittadini.

Uno degli elementi sottolineati nel Libro bianco è il ruolo chiave che la Commissione, assieme alla nuova Autorità alimentare europea, avrà nella promozione del dialogo con i consumatori onde incoraggiare il loro coinvolgimento nella nuova politica di sicurezza alimentare.

Nello stesso tempo – si aggiunge – “i consumatori devono essere tenuti meglio informati delle nuove preoccupazioni in materia di sicurezza alimentare e dei rischi che certi alimenti particolari presentano per determinati gruppi di persone” e dell’importanza di una dieta equilibrata e sulle sue ripercussioni a livello sanitario.

 

Cibi transgenici

Uno degli aspetti più controversi del dibattito mondiale sulla sicurezza alimentare riguarda i cibi transgenici.

Secondo il commissario europeo per la salute e la tutela dei consumatori David Byrne “l’unico modo per affrontare la controversia che circonda il tema della biotecnologia è promuovere un dialogo aperto ed equilibrato tra tutte le parti interessate”.

L’attuale legislazione dell’Ue si fonda su un approccio scientifico che impedisce l’immissione sul mercato europeo di prodotti alimentari geneticamente modificati fino a che non venga condotta su di essi una valutazione scientifica e non vengano dichiarati sicuri per la salute umana e l’ambiente.

Nei casi in cui le prove scientifiche siano insufficienti o la dimostraione della sicurezza alimentare risulti inconcludente, la Commissione europea ritiene che i provvedimenti debbano basarsi su un “principio precauzionale”. Pertanto essa sta attualmente lavorando ad una comunicazione che definisca detto principio precauzionale, esaminando come e quando esso potrebe esere applicato.

Riguardo agli organismi modificati geneticamente (Ogm) la Commissione nel Libro Bianco propone la creazione di un sistema centralizzato per l’autorizzazione dell’uso di prodotti biotecnologici nell’alimentazione animale e umana.

Agli operatori verrà data la possibilità di utilizzare nell’etichettatura dei prodotti alimentari riferimenti all’assenza dell’uso di tecniche di ingegneria genetica.

Questa misura è fortemente avversata da alcuni partner commerciali dell’Unione, con in testa gli Stati Uniti (la cui cultura, in fatto di sicurezza alimentare, è ben diversa da quella europea: per gli USA bisogna prima dimostrare la pericolosità di un prodotto e, soltanto in caso positivo, si può metterlo fuori commercio) e le multinazionali del settore che non vorrebbero rendere identificabili i prodotti alimentari contenenti Ogm.

 

Autorità alimentare europea

Una volta varata la legislazione necessaria la nuova Autorità potrebbe essere istituita già entro il 2002.

Questo organismo indipendente costituirà il punto di riferimento scientifico per l’intera Unione (anche se sarà solo un organo consultivo): attingerà alle migliori conoscenze scientifiche di tutti i Paesi membri, operando a stretto contatto con le Agenzie e gli organismi scientifici nazionali, e garantirà quella autorevolezza e trasparenza necessaria anche a ripristinare e a mantenere la fiducia dei consumatori nei prodotti alimentari in vendita in Europa.

Essa sarà il referente per tutte le problematiche riguardanti la valutazione del rischio (reti di monitoraggio e sorveglianza; sistemi di informazione agricoli, sistemi di allarme rapidi) e la comunicazione sulle tematiche della sicurezza alimentare (informazione ai consumatori, etichettatura, campagne nutrizionali).

I modelli a cui si ispira questo nuovo ente sono la Food and drug administration (Fda) statunitense e l’Agenzia europea di valutazione dei medicinali (Emea) anche se non avrà come nel caso dell’Agenzia americana, poteri di regolamentazione.

La nuova Autorità potrà segnalare nuovi rischi per la salute ed i problemi sanitari emergenti ma non avrà poteri legati alla gestione dei controlli: la gestione del rischio alimentare, infatti, che comprende la funzione legislativa e le attività di controllo, rimarranno di competenza di Parlamento, Consiglio e Commissione europea.

 

Una sfida...vitale

L’Unione europea è il più grande importatore/esportatore di prodotti alimentari al mondo e come tale una sua azione decisa nel campo della sicurezza alimentare potrà avere un ruolo guida nella diffusione di standard produttivi sempre più alti non solo in termini di quantità ma anche e soprattutto di qualità.

Il sistema dei controlli sanitari che sarà armonizzato tra i Quindici, andrà rivisto e sviluppato anche alle frontiere esterne dell’Unione europea: il sistema attuale, basato sui posti di ispezione frontalieri che ricadono sotto la responsabilità dei singoli Stati membri, copriva solo i prodotti di origine animale.

Secondo il nuovo progetto si dovranno controllare tutti i prodotti agricoli ed alimentari, rendendo anche più semplici ed uniformi le regole e le tasse nazionali relative ai controlli alle frontiere.

Se quello delle frodi e della criminalità nel settore mangimistico costituice uno dei più pesanti dossier alimentari che l’Unione europea si trova a dover affrontare, non bisogna dimenticare che la comunità internazionale deve vedersela con almeno altri tre scottanti capitoli concernenti l’alimentazione:la già ricordata affidabilità ambientale e sanitaria dei cibi transgenici, la vicenda delle cosiddette “bistecche agli ormoni” e l’uso degli antibiotici “da ingrasso” (vedi schede).

Ma il vero problema di fondo messo in evidenza da queste vicende è il cinismo del guadagno facile pronto anche a danneggiare la salute umana e l’ignoranza di una scienza asservita al potere economico che tratta gli animali alla stregua di macchine da cui trarre il massimo profitto.

E’ una sfida mondiale a cui la vecchia Europa, culla di civiltà, forse può contribuire indicando strade nuove, ispirate da principi consoni al rispetto di un concetto apparentemente astratto (quello di vita) assai difficile da definire e da ricreare in laboratorio, eppure così concreto, direi “vitale” quando noi uomini rischiamo di perderla, per sempre!

L’evoluzione dell’uomo si misura anche dal suo comportamento nei confronti delle creature a cui dobbiamo quanto meno riconoscenza per il ruolo che svolgono nell’ecosistema Terra e da cui dipende l’esistenza stessa dell’uomo.

Se avveleniamo e alteriamo le piante e gli animali che mangiamo distruggeremo presto noi stessi, dimostrando così di non meritare l’altisonante appellativo “sapiens sapiens” che ci siamo autoattribuito e di cui ci fregiamo, tutto sommato piuttosto immeritatamente, appena da qualche millennio.

 

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Scheda 1

BISTECCHE AGLI ORMONI...

I primi dubbi nacquero quando agli scaricatori del mercato parigino di Les Halles cominciò a crescere il seno...

Colpa del loro piatto preferito, a base di colli di pollo che trovavano con facilità sui banchi di macelleria: all’epoca proprio nei colli venivano impiantate capsule di ormoni estrogeni per far crescere meglio gli animali. Erano gli anni ‘50 e da allora le autorità sanitarie hanno imposto leggi e controlli sull’uso dei farmaci negli allevamenti ma la situazione varia da continente a continente.

Su questo argomento si è scatenata da tempo tra Europa ed USA una vera e propria guerra commerciale e scientifica.

Nonostante il parere contrario dell’Organizzazione mondiale del Commercio (WTO) l’Unione europea ha posto il veto all’importazione di carne statunitense che per il 95% è ricavata da bovini “gonfiati” con sei diversi ormoni sessuali da tempo vietati in Europa.

Secondo la Food and Drug Administration americana questi ormoni, se opportunamente impiantati sotto la cute dell’orecchio del bovino, vengono considerati compatibili con un consumo sicuro.

Anche l’JECFA (l’organismo che per conto della FAO e dell’Organizzazione Mondiale della Sanità valuta gli effetti sulla salute umana dei farmaci di uso veterinario) ha stabilito che i tre più comuni ormoni somministrati agli animali d’allevamento - 17 beta-estradiolo, testosterone e progesterone - non sono riscontrabili in livelli alterati nelle bistecche d’oltreoceano.

Ma questi dati vengono contestati, oltre che dalle autorità sanitarie europee anche da ricercatori americani come Samuel Epstein, docente di medicina ambientale dell’Università dell’Illinois di Chcago, secondo il quale in un trancio di carne di 500 grammi capita di trovare tanto 17 beta-estradiolo quanto ne viene prodotto da un organismo di un adolescente in 24 ore.

La ragione di questi valori alterati starebbe nel fatto che molti allevatori, invce di impaiantare l’ormone nell’orecchio, preferirebbero somministrarlo nel collo degli animali, aumentando così notevolmente la quantità di sostanza in circolo.

La cosa è particolarmente grave per il 17 beta-estradiolo, per il quale esistono ormai ampie prove epidemiologiche sul suo potere genotossico e cancerogeno, soprattutto per l’endometrio e il seno.

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Scheda 2

FETTINE AGLI ANTIBIOTICI...

Un’altra emergenza all’ordine del giorno per la nuova Aurorità europea sarà costituito dallall’uso in molti allevamenti di antibiotici come fattori di crescita della massa muscolare degli animali. Gli antibioticinon vengono infatti usati non solo per debellare le infezioni ma anche in dosi subterapeutiche per aumentare il rendimento nutritivo dei mangimi.

L’abuso di antibiotici si ripercuote poi sui consumatori di quelle carni perchè la resistenza agli antibiotici da parte di batteri che di solito infettano gli animali si può trasmettere agli uomini attraverso i cibi.

Già nei primi mesi del 1998 un articolo pubblicato sulla prestigiosa rivista scientifica Science denunciava i rischi di “spuntare” le armi della medicina e di renderla inerme di fronte agli attacchi di una grande quantità di batteri (anterobatteri, salmonelle, enterococchi).

Secondo un documento del Ministero dell’agricoltura francese, i mangimi animali sono “corretti” con antibiotici nel 98% degli allevamenti di suini, , nel 96% in quelli dei tacchini e nel 68% degli altri avicoli. Ton van den Boogaard, del Dipartimento di microbiologia veterinaria dell’Università di Maastricht ha stimato in 200 tonnellate all’anno la quantità di antibiotici aggiunti ai mangimi in Olanda, mentre in Gran Bretagna la Soil Association valuta in 100 tonnellate la quantita di questi farmaci usati come anabolizzanti.

Per questo i paesi occidentali stanno correndo ai ripari ed hanno emanato negli ultimi anni norme sempre più severeanche se forse basterebe almeno rispettare le direttive del comitato Swann del Regno Unito che già nel 1969 stabiliva che gli antibiotici usati nella chemioterapia o quelli capaci di promuovere resistenza crociata non dovessero essere usati come promotori della crescita animale, posizione condivisa anche dall’Organizzazione Mondiale della Sanità ma che finora non è stata rispettata nè in Europa nè in altri parti del mondo.

Il bando degli antibiotici in zootecnia secondo alcuni esperti non sarebbe poi così disastroso per i produttori: i medesimi risultati potrebbero essere raggiunti migliorando altri aspetti della cura degli animali come la loro igiene e il loro benessere.

 

 

 

 

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