Camminare in città

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Nelle città non si cammina. Ci si sposta continuamente e si maledice quel tempo buttato via così, tra un punto e l’altro, tra un ufficio e l’altro. Il camminare è attività fine a se stessa, non un effetto secondario. Se davvero tra la complessa attività del camminare e il pensiero c’è una relazione così stretta potremmo giungere subito alle conclusioni: le persone non camminano perché non pensano. O se si preferisce: non pensano perché non camminano.  Ma se definiamo“complesso” il movimento, l’atto del camminare (basti pensare a quanti muscoli e ossa vengono coinvolti, quanto combustibile viene consumato, quanto sangue pompato addirittura vicariando il cuore con i meno nobili piedi) anche il pensiero segue strade e viottoli infiniti e spesso indefinibili.  Senza avventurarmi in questi intricati percorsi voglio dare corpo a uno spettro dai molti nomi che forse spiega la leggera apprensione che accompagna questa parola: il camminante porta sempre con sé l’immagine del disagio. Chi cammina senza spostarsi semplicemente da un punto all’altro, chi vaga senza meta apparente, è spesso qualcuno che fugge, anche senza rendersene conto. Il male, la patologia, appunto il pathos, la sofferenza, dategli il nome che volete. (...)

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