QUANDO FINIRÀ IL PETROLIO?

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QUANDO FINIRÀ IL PETROLIO?


Che cos’è il petrolio? O meglio: cosa credete che sia?

Il petrolio - il mitico oro nero - continua a essere la chiave reale della politica, sia interna che internazionale.

Il petrolio e gli altri combustibili fossili (gas naturale e carbone) sono la base della nostra civiltà e del nostro modo di vivere. Sappiamo che circa il 90% dell’energia primaria prodotta oggi in tutto il mondo (escludendo il legno) viene dai combustibili fossili, di questa la singola fonte piú importante è il petrolio greggio (circa il 40%), seguito poi dal gas naturale, dal carbone e poi a distanza dalle altre fonti.

Dal petrolio derivano la benzina per le auto, il cherosene per gli aerei, la nafta, gli oli pesanti per i diesel, le fonti dell’industria petrolchimica (materie plastiche, gomme, fertilizzanti, e così via). In pratica ne dipende l’intera vita delle società industriali, nei suoi aspetti privati (il riscaldamento) e pubblici.

Al momento, il mondo consuma più di 80 milioni di barili di petrolio al giorno, 29 miliardi di barili l’anno. Questa cifra sta salendo rapidamente, come già accade da decenni e l’aspettativa generale prevede che continuerà a farlo nei prossimi anni: l’Agenzia internazionale per l’energia prevede entro il 2030 un consumo di 121 milioni di barili al giorno.

Se pensate che il petrolio sia una sostanza prodotta ininterrottamente da qualche misteriosa forza geologica nelle profondità della terra, non leggete oltre. Meglio conservare l’illusione che, mattina dopo mattina, continuerete a far girare la chiavetta dell’accensione per il resto della vostra vita.

Se invece avete qualche nozione, seppur confusa, sul fatto che i combustibili fossili c’entrino in qualche modo con del materiale organico che una volta c’era e adesso non c’è più, anche voi sotto sotto sapete che, prima o poi, la pacchia è destinata a finire.

Il problema è sapere quando questo momento arriverà e se e come saremo in grado di affrontarlo.


Qualche informazione utile

Il petrolio è in sostanza materia organica liquefatta derivata dalla decomposizione di un immenso deposito di alghe e plancton che risale a cinquanta milioni di anni fa. Nel corso dei millenni il movimento di immense forze geologiche ha intrappolato e cotto ad altissima temperatura quella che può anche venire definita come energia solare condensata, concentrandola in alcuni giacimenti situati a profondità variabile in alcuni luoghi del mondo. A differenza dell’energia solare rinnovabile, i combustibili fossili si sono prodotti in un dato periodo e a date condizioni che non si sono presentate ovunque e che non si ripresenteranno mai più, motivo per cui simili fonti vengono dette, appunto, non rinnovabili.
Lo sfruttamento di un giacimento si suddivide in tre fasi che possono variare a seconda di molti fattori – dalla qualità del petrolio alla quantità di gas presente nel “serbatoio” – ma che, sostanzialmente, sono sempre le stesse. Nella prima fase, detta di “recupero primario”, il gas presente nel giacimento tiene sotto pressione il liquido che, una volta trovata la via d’uscita, viene spruzzato fuori come lo champagne.

In questa fase i costi di estrazione sono bassissimi, consentendo un rapido recupero delle spese iniziali. Il costo di estrazione di un barile di petrolio non varia molto nel tempo: in linea di massima, oggi si aggira intorno ai cinque dollari al barile (1 barile = 159 litri), sebbene ci siano delle differenze fra i diversi giacimenti, in base alla loro posizione geografica e alla stabilità politica dei paesi in cui si trovano.
Dopo un po’ di tempo però, lo svuotamento del pozzo fa diminuire la pressione. Il passaggio alla seconda fase, nella quale si cerca di ristabilire la pressione ripompando dentro gas o acqua, diventa inevitabile e a questo punto i costi cominciano a lievitare. Invece di limitarsi a raccogliere la manna bisogna procurarsi l’acqua – magari attraverso costosi processi di desalinizzazione, come in Arabia Saudita – iniettarla nel giacimento e poi separarla dal petrolio estratto dal sottosuolo. Più i pozzi sono vecchi e più la percentuale d’acqua aumenta - e con essa i rispettivi costi - mentre diminuiscono i ricavi: nei giacimenti texani bisogna tirare fuori dieci barili d’acqua per ottenerne uno di petrolio. Il che aggiunge un problema ambientale notevole se si pensa che, a livello mondiale, l’acqua di scarto raggiunge i 200 milioni di barili al giorno, quasi tre volte il volume del petrolio prodotto.
A questo punto il gioco comincia a non valere più la candela. La terza fase di recupero è talmente costosa che basta un piccolo calo nel prezzo del greggio per rendere più conveniente chiudere il pozzo piuttosto che sfruttarlo. A questo punto la qualità del petrolio si è deteriorata, il gas si è concentrato in una sorta di “tappo” che rende difficile ogni operazione di recupero e si finisce per pompare il petrolio meccanicamente, consumando tanta energia quanta se ne produce.
Gli enormi progressi della tecnologia estrattiva hanno trovato soluzioni geniali a una miriade di problemi ma non hanno alterato un processo che, al contrario, è stato notevolmente accelerato dalla gestione poco razionale di tutti i soggetti coinvolti, che fossero corporation private con smania di profitto o governi con interessi geostrategici precisi: invece di operare con l’obiettivo del lungo termine, tutti si sono quasi sempre mossi nel ristretto orizzonte del “tutto e subito”. Tecniche raffinate di gestione del ciclo dell’acqua sono state affiancate alle perforazioni orizzontali e, da qualche anno, si è cominciato a raccogliere il gas di scarto invece di limitarsi a bruciarlo nell’atmosfera, ma il risultato non cambia: prima o poi i giacimenti invecchiano, e muoiono.

Ne è più che convinto Jeremy Legget, esperto geologo già consulente per l’industria petrolifera britannica ed ora direttore scientifico della sezione inglese di Greenpeace. Proprio la sua profonda conoscenza – scientifica ed operativa – e la consolidata esperienza del mondo del petrolio lo hanno portato a scrivere un interessantissimo saggio “Fine corsa” in cui l’autore afferma sulla scorta di dati e ricerche recentissime che siamo già nella fase discendente dei rendimenti dei giacimenti mondiali, attuali o futuri, analoga a quella prevista per i giacimenti USA negli anni ’50 dal geologo americano Hubbert.



Il picco di Hubbert

Nel 1956 M. King Hubbert, famoso geologo passato dalla Shell al Geological Survey statunitense, rese pubbliche alcune conclusioni tratte da modelli matematici estremamente elaborati e dalla sua esperienza sul campo. L’oro nero, sostenne Hubbert, avrebbe raggiunto la punta massima di produzione (il cosiddetto picco) verso la fine del Novecento, per poi diminuire in modo abbastanza repentino fino all’esaurimento. Sebbene all’epoca la teoria del picco venne liquidata come semplice catastrofismo, oggi nessun esperto si sogna più di negare la possibilità – anzi, la certezza – dell’approssimarsi del picco, ma continuano a dividersi sul quando. Il motivo principale della riabilitazione della teoria è uno soltanto: Hubbert aveva azzeccato la data del picco americano. Nel 1970, infatti, la produzione petrolifera statunitense raggiunse la punta massima, poi il flusso dei grandi giacimenti cominciò a diminuire, e così il numero dei barili prodotti ogni giorno.
Naturalmente se conoscessimo il volume totale del petrolio a disposizione, sottraendolo a quello che abbiamo bruciato in questo secolo di pacchia (una cosa come 875 miliardi di barili), potremmo farci due conti. Ma su questa terra non c’è informazione più segreta, sia per oggettive difficoltà (si lavora sempre alla cieca, a centinaia di metri di profondità) sia per le ragioni politiche e commerciali che spingono i principali attori a sovrastimare le proprie scorte. Ci sono le cosiddette “riserve accertate” costituite dalle scorte delle compagnie petrolifere – che le sovrastimano per tenere alte le quotazioni in borsa – e da quelle di paesi come la Norvegia o l’Arabia Saudita – che possono sovra o sottostimare a seconda delle contingenze politiche. Al petrolio già scoperto ma non ancora sfruttato – secondo alcuni esperti circa 1700 miliardi di barili - bisogna aggiungere quello ancora da individuare – suddiviso a sua volta fra “probabile” e “possibile” – il cui calcolo è ancora più aleatorio.

Secondo i più ottimisti (vedi scheda) ci sono circa 900 miliardi di barili ancora da scoprire che, sommati alle riserve accertate, danno la rassicurante cifra di 2.600 miliardi. Visto che il consumo mondiale si aggira sugli 80 milioni di barili al giorno e continua a crescere del 2 per cento l’anno (ma c’è chi dice di più), la riserva di 2.600 miliardi collocherebbe il picco globale intorno al 2030 o anche più avanti, se si riuscissero a comprimere i consumi o a rendere energicamente più efficiente la produzione industriale.
Gli ottimisti inoltre continuano a sperare che vengano scoperti nuovi giacimenti giganteschi, anche se non succede da quasi trent’anni ed è considerato dagli esperti alquanto improbabile. Il motivo è molto semplice: fra tecnologia satellitare, prospezioni sismiche e chi più ne ha più ne metta ormai abbiamo setacciato la terra palmo a palmo. Potremmo non aver scovato una piccola riserva, ma difficilmente ci può essere sfuggito un grande giacimento.

I pessimisti sostengono che fra petrolio accertato e quello non ancora scoperto le scorte non superino i mille miliardi di barili, collocando il picco globale intorno al 2010, ma ci sono analisti che, dati di produzione alla mano, pensano che il declino sia già cominciato e collocano il picco massimo di produzione nel 2004. Chi ha ragione? Un’occhiata ai giacimenti vale più di mille calcoli.


In via di esaurimento

Vero e proprio bastione del petrolio non-Opec, l’Alaska sembra aver già imboccato la strada della pensione malgrado i miliardi di dollari investiti. Del resto anche nelle piattaforme del Mare del Nord il flusso è in netto calo: malgrado la scoperta di un nuovo giacimento la produzione del Regno Unito ha raggiunto il suo picco nel 2002, e ora conosce un rapido declino. Il Messico, ubbidiente fornitore degli Stati Uniti, potrebbe aver toccato il picco proprio quest’anno mentre la Nigeria, considerata dalla Casa Bianca una valida alternativa, potrebbe raggiungerlo nel 2007. E che dire del petrolio russo? Iper-sfruttato come unica fonte di valuta pregiata, ha cominciato a ridursi già dal 2003 anche se, da quelle parti, nessuno è disposto a pronunciare la parola “picco”. Secondo gli esperti americani il petrolio non-Opec potrebbe “piccare” entro il 2015, lasciando l’Occidente in balia delle riserve mediorientali, principalmente dell’inesauribile cornucopia dell’arabian light, come si chiama il più puro petrolio del mondo che si trova subito sotto al deserto dell’Arabia Saudita.
Questa prospettiva, benché carica d’inquietanti implicazioni politico-militari, può considerarsi ancora moderatamente ottimista perché non fa i conti con lo stato dei giacimenti sauditi, informazione del tutto inaccessibile al di fuori di qualche membro della famiglia reale e dei tecnici che, materialmente, lavorano nell’area considerata la madre di tutti i giacimenti.

I sauditi proclamano di possedere ¼ delle riserve mondiali di greggio e di essere in grado di estrarne sempre di più. Questa assicurazione è la polizza su cui il mondo conta per proseguire uno sviluppo basato sull’energia petrolifera. Ma nessuno ha mai potuto verificare queste affermazioni: i dati sul petrolio saudita sono segreti di stato.

Fra la gran mole di libri pubblicati quest’anno sulla questione spicca “Twilight in the desert. The Coming Saudi Oil Shock and the World Economy” (Crepuscolo nel deserto) di Matthew R. Simmons, ex-consulente di Bush e capo della “Simmons & Company International” di Houston, una banca d’investimenti specializzata in questioni energetiche. Per tentare di sbirciare nel “serbatoio del mondo” Simmons ha pensato bene di utilizzare le uniche informazioni affidabili sulla salute dei giacimenti sauditi, ovvero l’inesauribile mole di documenti tecnici pubblicati dalla Society of Petroleum Engineers, la società scientifica che raggruppa gli ingegneri petroliferi del pianeta.
Dall’esame di circa 200 report in massima parte scritti per scambiarsi informazioni sulle innovazioni tecnologiche e per confrontarsi sui problemi che queste comportano, Simmons ha tratto conclusioni sulla salute dei giacimenti sauditi ben diverse da quelle fornite dalle istituzioni internazionali – l’Iea o l’Opec, tanto per citare le principali – o dallo stesso governo saudita. Viene fuori infatti che gli ingegneri stanno affrontando da anni problemi relativi alla gestione dell’acqua tipici della seconda fase di sfruttamento dei giacimenti, e anche le tecnologiche più avanzate – come i pozzi orizzontali – non riescono più ad arginare un calo della produzione che si registra anche nei giacimenti più grandi.

Simmons arriva a delle conclusioni allarmanti: quasi tutto il petrolio saudita arriva da non più di 4-5 megagiacimenti, metà da uno solo, Ghawar. Da oltre 30 anni nessun pozzo paragonabile è mai stato scoperto dai sauditi e quei supergiacimenti, sfruttati a pieno ritmo da oltre mezzo secolo, mostrano sintomi gravi e irreversibili di vecchiaia: pressione interna in calo, crescente intrusione di acqua, più alta presenza di gas.

La dettagliata diagnosi delle condizioni di Ghawar, il più grande giacimento del mondo che si fa carico, da solo, della maggior parte dell’ingente produzione saudita, è a dir poco allarmante.

La recente campagna mediatica condotta nel 2004 dalla compagnia di stato, la Saudi Aramco, per rassicurare il mondo sulle potenzialità tecnologiche dell’azienda lascia il tempo che trova: i giganti del deserto sono avviati verso il declino malgrado gli sforzi dei tecnici e l’impiego di tecnologie fra le più avanzate del settore.



C’è vita dopo il petrolio?

In “The long emergency” (La lunga emergenza), altro libro pubblicato nel 2005 con l’inquietante sottotitolo “Sopravvivere alle convergenti catastrofi del Ventunesimo secolo”, James Howard Kunstler propone una lettura destinata a ribaltare completamente l’idea corrente di progresso tecnologico e di sviluppo economico.

In sostanza, scrive Kunstler, «l’età del petrolio a buon mercato ha creato una bolla artificiale di abbondanza per un periodo non più lungo di un secolo». Una volta fuori dalla “bolla petrolifera”, secondo l’autore, ci ritroveremo nella dura realtà dei limiti materiali allo sviluppo, limiti che l’industrializzazione accelerata basata sull’energia a prezzi stracciati ci ha fatto ingenuamente sottovalutare.
Che il picco sia già stato raggiunto come sostengono i pessimisti o che manchino almeno trent’anni come sostengono i petrolieri, in fondo non cambia poi molto. Prima o poi ogni governo di questo mondo sarà costretto a investire ogni risorsa disponibile in una completa trasformazione del proprio sistema di produzione, di trasporto e di consumo per raggiungere la massima efficienza e sprecare meno energia – attraverso il risparmio energetico, la ristrutturazione della rete elettrica e degli impianti produttivi, la riconversione al gas naturale e la produzione di macchine ibride – per far durare le scorte il più a lungo possibile.

Nel frattempo, oltre a cercare di far sopravvivere le proprie economie all’impennata della bolletta energetica (si prospetta, entro un paio d’anni, lo sfondamento del tetto dei cento dollari al barile i governi dovranno mettere in moto a pieno ritmo la ricerca sulle fonti alternative (eolico, solare, idrogeno, biomasse, geotermico e chi più ne ha più ne metta) prima di approdare all’esaurimento definitivo. Il problema non è quindi se, ma quando.


L’altalena dei prezzi

Le impennate del prezzo del petrolio non sono cosa nuova: a partire dal 1965 si sono verificati cinque picchi nel prezzo del greggio, ognuno dei quali è stato seguito da un periodo di recessione economica di diversa gravità.

I picchi maggiori furono i primi due. Con il primo shock petrolifero, nel 1973, il prezzo del petrolio venne più che raddoppiato e raggiunse il corrispettivo attuale di circa trentacinque dollari al barile. La causa scatenante fu un embargo imposto dall'Opec (l'organizzazione dei paesi esportatori di petrolio) e promosso dall'Arabia Saudita in risposta al chiaro appoggio offerto a Israele dagli Stati Uniti al tempo della guerra dello Yom Kippur. La fornitura di greggio si ridusse solamente del nove per cento e la crisi durò non più di qualche mese, ma il suo effetto fu semplice, e impossibile da dimenticare per i testimoni dell'epoca: si scatenò il panico generale.

L'embargo ebbe vita breve, in parte perché i Sauditi temevano che, se l'avessero prolungato, avrebbero dato vita a una depressione globale che avrebbe messo in ginocchio le economie occidentali e di conseguenza anche la loro. Di fatto, il pur breve embargo provocò una terribile recessione economica.

Il secondo - e più tremendo - shock petrolifero fu innescato dalla deposizione dello scià di Persia nel 1979, e prolungato dallo scoppio della guerra fra Iran e Iraq nel 1980. Se il primo shock non fece salire il prezzo del greggio così in alto come in questi giorni, il secondo lo fece schizzare a più di ottanta dollari al barile in valuta attuale. Si diffuse nuovamente il panico, sebbene le forniture globali si ridussero solamente del quattro per cento.

La crisi si concluse nel 1981, quando i prezzi precipitarono, fondamentalmente per tre motivi. Primo, l'Arabia Saudita aprì i rubinetti: grazie ai suoi enormi giacimenti, scoperti fra gli anni Quaranta e Cinquanta, era in grado di agire da swing producer, ossia poteva aumentare la sua produzione di petrolio per abbassare i prezzi oppure diminuirla per farli impennare, proprio come aveva fatto nel 1973. Secondo, arrivò sul mercato il nuovo greggio proveniente da giacimenti giganti collocati in regioni più stabili del pianeta, fra cui il Mare del Nord. Terzo, governi e compagnie private fecero largamente ricorso alle proprie riserve di petrolio.

Questi tre motivi dovrebbero essere in cima alla lista delle ragioni per cui dovremmo allarmarci oggi, poiché se dovessimo affrontare un nuovo shock petrolifero, non potremmo più risolvere la situazione allo stesso modo.

Come abbiamo visto esistono buone ragioni per credere che l'Arabia Saudita si stia avvicinando al proprio picco nella produzione di petrolio, o che l'abbia già raggiunto e perciò non potrà più fungere da swing producer. In secondo luogo, i pessimisti temono che non ci siano più giacimenti giganti da scovare, né tantomeno intere province petrolifere come il Mare del Nord. Infine, le scorte disponibili non sono sufficienti a soddisfare la domanda attuale.


Concludendo…

Questi ultimi cinquant'anni di crescente dipendenza dal petrolio sarebbero difficili da comprendere persino se sapessimo di possederne riserve inesauribili. Tuttavia, ciò che rende ancora più sconcertante l'entità di questa assuefazione globale è che, per tutto il tempo in cui ci stavamo infilando in questa trappola, abbiamo sempre saputo che le riserve di petrolio sono limitate. Agli attuali livelli di consumo, il serbatoio mondiale inizierà ad andare in riserva - a fronte della crescente domanda di carburanti - molto prima della fine del secolo. È un dato di fatto indiscutibile, bisogna solo capire quando accadrà.
Ma allora perché non ci siamo attivati per anticipare l'introduzione di fonti energetiche alternative alla dipendenza da petrolio? Idrogeno, biocarburanti, pile a combustibile e batterie più avanzate sono alcune delle tecnologie che in futuro potranno fornire energia per i trasporti, mentre l'energia solare e altre fonti alternative possono generare l'elettricità necessaria per scomporre l'acqua in idrogeno e caricare le batterie. Sappiamo anche questo da decenni, come sappiamo che se adottassimo norme di risparmio energetico e trasporti di massa innovativi potremmo risparmiare interi giacimenti di petrolio. Forse queste alternative non riusciranno a rimpiazzare il greggio né in tempi brevi né con facilità, se pensiamo allo spazio minimo che occupano nei mercati attuali. Ma funzionano, e in gran parte dei casi attendono da anni un semplice via libera.

Questa situazione, a prescindere dall'ingenuità umana, è stata creata ad arte: viviamo in una società che più di trent'anni fa è stata capace di mandare un uomo sulla Luna, siamo proprio sicuri che non avremmo potuto trovare un sostituto del petrolio se l'avessimo voluto veramente?

Prima si smette di rimuovere il problema e si comincia a programmare la transizione, più garanzie ci sono che questa possa avvenire nel modo più democratico e meno doloroso possibile, anche se le rinunce, dal punto di vista dei consumi, non saranno poche.

Rimandare le impopolari decisioni da prendere per affrontare la crisi, e anzi negare perfino l’esistenza del problema, significa lasciare il timone nelle mani di chi il problema lo conosce bene e ha già pronta una soluzione: difendere con le unghie e con i denti il proprio modello di consumo andandosi a prendere il petrolio dove c’è, e spremere fino all’ultimo i profitti da una riserva sempre più sovvenzionata (per cercare giacimenti probabilmente inesistenti) e sempre più redditizia (per via dell’aumento esponenziale del prezzo delle ultime scorte).



Bibliografia

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Ugo Bardi (2003): La fine del petrolio. Editori Riuniti.

Sabina Morandi (2006): Petrolio: fine dei giochi. Editoriale su: www.vasonline.it

Paul Roberts (2005): Dopo il petrolio – Sull’orlo di un mondo pericoloso. Einaudi

AA.VV. (2005): L’Energia. Vol. 1 – Enciclopedia della Scienza. Federico Motta Editore

Guido Rampolli (2006): I giacimenti del potere – A chi appartiene oggi il petrolio. Mondadori

S. Enderlin, S. Michel, P. Woods (2004): Pianeta petrolio – Sulle rotte dell’oro nero. Il Saggiatore

Jeremy Leggete (2006): Fine corsa – Sopravviverà la specie umana alla fine del petrolio? Einaudi

Nicola Pedde (2001): Geopolitica dell’energia. Carocci

AA.VV. (2006): L’energia al potere. Aspenia, n. 32, febbraio 2006

Alessandro Volpi (2003): Le società globali: risorse e nuovi mercati. Carocci

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AA.VV. (2002): Le risorse energetiche. A cura di Carlo Bernardini. Le Scienze Quaderni n. 129. Dicembre 2002

Erich Follath (2006): La guerra delle risorse. Internazionale, n. 644, 2 giugno 2006

Ugo Spezia (2005): Energia: quale futuro? Le Scienze n. 442, giugno 2005

Colin J. Campbell, Jean H. Laherrère (1998): La fine del petrolio a buon mercato. Le Scienze n. 357, maggio 1998

 

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Scheda


OTTIMISTI E PESSIMISTI

Le riserve di petrolio considerate certe sono valutate da 1 a 1,2 migliaia di miliardi di barili, cioè circa 150 miliardi di tonnellate, il che, ai ritmi attuali, equivale ad una produzione di una quarantina d'anni. Ma le analisi tecniche dicono che le cose potrebbero andare diversamente.

Le stime delle risorse petrolifere mondiali sono affette d atre cause principali di errore in eccesso:

  1. anzitutto ai paesi produttori conviene sovrastimare le proprie riserve per avere più rilievo in sede internazionale, attrarre gli investimenti e non perdere la capacità di ottenere prestiti;

  2. i paesi dell’OPEC hanno un interesse particolare a gonfiare le stime delle loro riserve dal momento che ciascun paese può esportare in proporzione alle riserve stimate;

  3. le compagnie petrolifere che iperano sul mercato internazionale hanno interesse a sovrastimare le riserve di cui dispongono per elevare il valore del proprio pacchetto azionario e per attrarre capitali.


La ripartizione è molto diseguale: quasi due terzi si trovano in Medio oriente. L'evoluzione delle riserve non permette, però, di prevedere quella della produzione petrolifera, i dati relativi alle prime provocano infatti vivaci scontri tra opposte scuole di pensiero, alcune ottimiste, altre pessimiste.


Il gruppo degli
ottimisti comprende quasi tutte le compagnie petrolifere, i governi e i relativi organismi, la maggior parte degli analisti finanziari e dei giornalisti economici. Come potete immaginare, con uno schieramento simile sono gli ottimisti ad avere il sopravvento nella contesa, nell’attuale stato delle cose.

Gli ottimisti sono convinti che nei giacimenti rimangano ancora 2000 miliardi di barili di petrolio da sfruttare e confidano nella futura e ragionevolmente prevedibile scoperta di nuove riserve.

Fanno notare, come prima cosa, che le previsioni fatte in passato sulla diminuzione delle risorse sono sempre state smentite. Infatti, già alla fine del XIX secolo, molti esperti prevedevano la fine dello sviluppo industriale fondato sull'energia prodotta dal carbone, le cui riserve, stimate in base alla produzione dell'epoca, non sarebbero durate più di 20 anni.

Gli ottimisti osservano poi che la maggior parte delle trivellazioni esplorative viene effettuata in paesi già abbondantemente perlustrati. Inoltre, le riserve ottenute con le moderne tecniche di produzione, o anche rivalutando le riserve di vecchi giacimenti, spesso costano meno, soprattutto in Medio oriente, di quelle ottenute per esplorazione. Di conseguenza questa attività viene limitata anche nei paesi che invece offrono ottime prospettive per la scoperta di nuovi giacimenti.
Le produzioni possibili, secondo gli economisti Morris Adelman e Michael Lynch, del Massachusetts Institute of Technology (Mit), sono il risultato di una gara di velocità tra l'esaurirsi dei giacimenti conosciuti, da un lato, e il progresso tecnico che permette di accedere a nuove riserve, dall'altro. Finora, quest'ultimo ha sempre vinto, con alcuni esiti che portano a miglioramenti relativamente regolari: diminuzione dei costi di trivellazione, aumento dei tassi di recupero, migliore immagine del sottosuolo. Altre conseguenze sono più difficili da prevedere.

Se restassero effettivamente più di 2000 miliardi di barili di petrolio, il picco arriverebbe solo dopo il 2030.

I pessimisti (esperti che hanno lavorato nel cuore dell’industria petrolifera, soprattutto in qualità di geologi) sono presenti, per la maggior parte, nell'Associazione per lo studio del picco petrolifero e gassoso (Association for the Study of Peak Oil and Gas, Aspo). A questi esperti si sta unendo un piccolo gruppo, sempre più nutrito di analisti e giornalisti.

Stando alle stime dei pessimisti, rimangono solo 1000 miliardi di barili di petrolio nelle riserve, se non di meno.

Insistono molto sul carattere politico delle rivalutazioni delle riserve fatte nel 1986-1987 dai membri dell'Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio (Opec), e sostengono che non si tratta di riserve certe.

Ritengono che il picco della produzione mondiale si avrà tra il 2005 e il 2010, a un livello dell'ordine di 90 milioni di barili/giorno, cifra che comprende, però, tutti i tipi di idrocarburi naturali.
Per suffragare la propria tesi, ricordano che finalmente disponiamo non solo di un accesso all'insieme dei dati di tutti i bacini petroliferi, ma anche di un campionamento sufficiente affinché le metodologie predittive delle riserve ancora da scoprire siano ormai ragionevolmente affidabili.

L'incertezza riguarda dunque essenzialmente il futuro andamento della parte di volumi recuperabili, a partire dalle risorse date. Su questo argomento le conclusioni divergono: per gli ottimisti, il tasso medio di recupero di questi volumi potrebbe passare, nel corso dei prossimi cinquanta anni, dall'attuale 35% circa, al 50%, se non al 60%; per i pessimisti, al contrario, i miglioramenti, peraltro limitati, riguarderebbero soprattutto gli oli pesanti ed extra-pesanti.

Una valutazione intermedia viene proposta da altre équipe di specialisti, in particolare quelle della United States Geological Survey (Usgs), per le quali le riserve ultime di petrolio convenzionale sarebbero dell'ordine di 3.000 miliardi di barili, di questi circa 1.000 sarebbero quelli già consumati, un po' più di 1.000 corrisponderebbero invece alle riserve certe, mentre il resto farebbe parte delle riserve da scoprire. Questo ordine di grandezza corrisponde anche alle stime minime dei geologi de l'Institut français du pétrole (Ifp), effettuate a partire dai dati attualmente disponibili. Secondo tali stime, il massimo della produzione mondiale si avrebbe poco dopo il 2020.

Con ipotesi un po' più ottimistiche sia sui volumi da scoprire, non più minimi ma medi, che sulla crescita dei tassi di recupero, il picco potrebbe essere spostato verso il 2030.

Se le stime dell'Usgs dovessero essere riviste al rialzo, come è successo in passato, con l'integrazione delle risorse non convenzionali, il calo potrebbe essere rinviato a dopo il 2030.

 

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Riquadro

World Oil and Gas Review 2006”

Nel corso del 2005 le riserve mondiali di petrolio e di gas naturale sono aumentate, rispettivamente del 1,2% e del 2,1% secondo quanto emerge dalla “World Oil and Gas Review” (la rassegna statistica mondiale realizzata da Eni su produzione, riserve, consumi, esportazioni e importazioni di petrolio e di gas naturale) presentata l’8 giugno 2006 a Roma dall’ENI (scaricabile dal sito www.eni.it).

Le riserve provate di greggio su scala mondiale al 1 gennaio 2006 sono salite a 1.120 miliardi di barili, mentre quelle di gas sono cresciute fino a 1.838 miliardi di metri cubi, secondo quanto si evince dalla Review.

La concentrazione geografica di petrolio e gas rimane tuttavia immutata: se le riserve provate di greggio e di gas dei paesi industrializzati rappresentano meno del 10% delle disponibilità mondiali, quelle del Medio Oriente costituiscono invece ben il 66% di quelle mondiali di greggio e il 41% di quelle di gas.
L’area mediorientale fa la parte del leone anche per quanto riguarda la vita utile delle riserve: i primi quattro posti nella graduatoria mondiale per anni di durata delle disponibilità sono occupati da paesi di quella zona.

World Oil & Gas Review” descrive uno scenario caratterizzato da importanti tensioni sui mercati petroliferi, dovute sia al peso crescente che nuovi attori in forte sviluppo economico come Cina e India hanno assunto sul mercato internazionale e sia al perdurante squilibrio tra l’abbondante disponibilità di greggio di qualità medium & sour  e una crescente domanda di prodotti medi e leggeri.
La rassegna evidenzia, per il 2005, una crescita della domanda mondiale di petrolio di quasi un milione di barili al giorno (+1,2%), trainata in particolare dall’Asia e Pacifico (+1,8%) e dalla zona mediorientale (+5,1%). La Cina, in particolare, è il secondo consumatore al mondo con un consumo di 6,6 milioni di barili al giorno. L’India balza dal sesto al quarto posto con 2,6 milioni di barili al giorno di consumo.

L’area OCSE e il Nord America si sono mantenuti sugli stessi livelli di consumo del 2004, con una crescita quasi nulla: un dato rilevante, specialmente per il Nord America, che negli anni passati aveva trainato la domanda di tutta l’area OCSE e che quest’anno ha risentito degli elevati prezzi petroliferi dei mercati internazionali e degli uragani che hanno colpito le coste del Golfo del Messico.

La produzione mondiale di petrolio è cresciuta di oltre un milione di barili al giorno (+1,3%), sostenuta esclusivamente dall’OPEC, la cui produzione è salita a 34 milioni di barili giorno (+3,0%) registrando un altro anno di record dopo il 2003 e il 2004. In particolare, la rassegna evidenzia come il Nord America, anche dal lato della produzione, abbia risentito degli eventi naturali che hanno colpito il Golfo del Messico, causando la chiusura di piattaforme petrolifere e infrastrutture.
Prendendo in considerazione tutta l’area OCSE, nel 2005 la produzione è infatti scesa a 20,3 milioni di barili al giorno (-4,4%), raggiungendo il livello minimo degli ultimi dieci anni e accentuando così la dinamica negativa in corso ormai da alcuni anni. A questo hanno contribuito anche fattori strutturali, quali il lento declino della capacità produttiva di alcune aree come quella del Mare del Nord.

La domanda mondiale di gas, sulla base di prime stime, è cresciuta di circa il 2%.  In particolare, quella dei Pesi OCSE ha continuato a crescere (+1,0%), indirizzandosi anche verso l’estero, con una maggiore richiesta di gas importato, sia via nave (GNL) che via gasdotto.
Nell’area OCSE nel 2005 la produzione di gas è diminuita: negli Stati Uniti le calamità naturali hanno seriamente compromesso la capacità produttiva, peraltro già in una fase di declino come quella di Italia, Germania, Francia e Regno Unito.

Complessivamente gli scambi  internazionali di gas continuano a crescere. Le esportazioni mondiali di GNL sono cresciute dal 2000 ad un tasso medio annuo del 6,6% (+7,7% dal 2004). Tuttavia ancora oggi il gas esportato rappresenta meno del 30% della produzione totale, al contrario di quanto avviene per il petrolio, la cui produzione, per più della metà, viene esportata.