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DISASTRI… UMANI

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 AMBIENTE

Mentre le grandi e ricchissime compagnie di assicurazione di tutto il mondo “piangono” per l’aumento dei loro oneri a seguito del verificarsi

di eventi catastrofici sempre maggiori da un punto di vista sia quantitativo che qualitativo, paradossalmente Stati vicini in perenne conflitto, a seguito del verificarsi di un disastro, scoprono d’incanto il valore della solidarietà e dell’aiuto reciproco.
Come avvenne nel 1999 tra Grecia e Turchia, la tragedia del terremoto che ha colpito recentemente lo Stato indiano del Gujarat ha avvicinato l’India al suo eterno rivale, il Pakistan, contro il quale ha combattuto tre guerre per il controllo del Kashmir (nel 1947, nel 1965 e nel 1971) sfiorando la quarta appena due anni fa con il conflitto di frontiera di Kargil.
Durante una cerimonia pubblica il primo ministro indiano Atal Bihari Vajpayee ha affermato che «condividere il dolore aiuta sempre ad eliminare l’amarezza e ad avvicinare i popoli» ed ha espresso al leader pachistano, il generale Parvez Musharraf, «l’apprezzamento del popolo indiano» per la solidarietà e il «desiderio dell’India di costruire con il Pakistan un relazione di buon vicinato».
Paradossi della globalizzazione del dolore? Forse… ma procediamo con ordine.


 

Assicurazioni e catastrofi

Aumento consistente della temperatura, frequenti giornate torride e inverni sempre meno freddi, ghiacciai che si sciolgono, mari che salgono di livello, inaridimento progressivo di aree sempre più vaste del pianeta. Il futuro presenta uno scenario preoccupante non solo per il progressivo scadimento della qualità della vita dal punto di vista ambientale, ma anche per via dei costi elevatissimi per le istituzioni, gli imprenditori e i privati cittadini.
È il bilancio che emerge da uno studio realizzato dal CINEAS (Consorzio universitario per l’ingegneria nelle assicurazioni) presentato a Milano il 7 giugno scorso nel corso del convegno “Prigionieri del tempo?”.
L’idea del convegno è nata dal desiderio di invitare tutte le categorie professionali e istituzionali, coinvolte a diverso titolo in queste problematiche, a uscire dai propri confini corporativi per studiare assieme modalità di intervento preventive per la riduzione del danno e del costo sociale ed economico delle catastrofi.
Lo studio – che ha incrociato i dati provenienti da istituzioni nazionali, centri di ricerca e mondo assicurativo, con varie indicazioni emerse da diverse organizzazioni internazionali – descrive nel complesso una sensibile lievitazione dei costi derivati da catastrofi naturali: un quadro che, negli ultimi trent’anni, dimostra chiaramente un aumento del numero degli eventi catastrofici e i conseguenti costi economici, sia in termini di beni assicurati che in termini di danni a beni non assicurati e di effetti indiretti (vedi scheda)
Il danno economico causato dai disastri naturali dovuti anche al cambiamento climatico è infatti aumentato, negli ultimi trent’anni, di almeno 5 volte, posizionandosi attorno ai 50 miliardi di dollari come media annua: una stima che si impenna sino a oltre 300 miliardi di dollari l’anno se si tiene conto degli effetti indiretti.


Italia: catastrofi naturali... aiutate dall’uomo

Questa situazione in Italia ha portato la spesa pubblica per l’emergenza ambientale a superare, negli anni Novanta, i 7000 miliardi, con punte sino a 20mila miliardi l’anno.
In Italia l’emergenza ambientale è anzitutto idrogeologica: il Cineas ricorda che quasi la metà dei comuni italiani (circa 3500) è a rischio inondazioni, che almeno i ? (5500) vivono sotto l’incubo delle frane e che oltre la metà della popolazione vive in zone a rischio.
L’aumento progressivo delle catastrofi naturali tende a riflettersi nel nostro paese in modo sempre più preoccupante: solo nell’area settentrionale del paese, le piene degli ultimi cento anni sono state 920 in Piemonte, 766 nel Veneto, 413 in Lombardia, 344 in Liguria e 84 in Val d’Aosta.
Anche tra le imprese aumenta la percezione del rischio: negli ultimi anni una su cinque ha subìto danni da “eventi naturali straordinari”.
Gli eventi catastrofici naturali sono spesso legati a irresponsabilità e speculazioni, mentre la ripetitività degli eventi dimostra una scarsa propensione alla prevenzione, alla manutenzione e ai controlli. Gli interventi pubblici inoltre – è stato rilevato nello studio del Cineas – superata la prima fase dell’emergenza, sono sempre di tipo straordinario e creano forti aspettative di assistenza e incertezze sui modi e sull’entità dell’intervento stesso.  

 

Catastrofi: un dilemma sempre attuale

Il “caso Italia” è forse paradigmatico del fatto che, come si legge nell’introduzione al rapporto del Cineas, «nonostante ancora non sia stata scritta una parola definitiva sulle responsabilità umane nei grandi cambiamenti climatici in corso, un dato è certo: quando non lo è direttamente, la mano dell’uomo contribuisce almeno indirettamente a forzare quella della natura».
Si narra che di fronte alle terribili conseguenze del terremoto che nel 1755 distrusse la città di Lisbona, provocando oltre 40.000 morti, l’intellighenzia illuminista fosse divisa tra chi, con Voltaire, parlava di “tragica calamità naturale” e chi, come Rousseau, riteneva fosse conseguenza dell’enorme concentrazione urbana dei suoi abitanti.
Il Segretario generale delle Nazioni Unite, Kofi Annan, chiudendo nel corso di una conferenza tenutasi a Ginevra nel luglio del ‘99 il Decennio internazionale dell’ONU dedicato alle catastrofi naturali, ha sottolineato la “non naturalità” di molte catastrofi naturali e la necessità di mobilitare la volontà politica per affrontare in un’ottica di prevenzione il ripetersi più che sospetto di certi fenomeni distruttivi.
I tre fattori “umani” che contribuiscono a rendere sempre più drammatici gli effetti dei fenomeni naturali sono oramai ben noti:
1) la combinazione di crescita demografica, urbanizzazione e povertà: secondo un rapporto della Croce Rossa Internazionale, tra pochi anni il 54% della popolazione mondiale vivrà concentrata nelle aree urbane. Si tratterà per lo più di poveri (già oggi 1 miliardo di persone vive nelle bidonville) che sempre più si concentreranno intorno alle città. Se si pensa che 40 delle 50 città a maggior crescita del mondo sono in zone sismiche, ritorna sempre più attuale l’intuizione di J.J. Rousseau...;
2) la trasformazione degli ambienti naturali: come suoli sempre più minacciati da asfalto, canalizzazione dei fiumi, disboscamenti, distruzioni delle zone umide;
3) l’assenza di prevenzione: sebbene le zone sismiche siano ormai ben individuate e l’aumento dei costi per costruire gli immobili con criteri costruttivi antisismici sia quasi irrisorio (5%), l’edilizia che rispetti questi criteri è ancora poco diffusa anche in paesi notoriamente a rischio come il nostro.
Oggi come ieri un filo sottile sembra legare accadimenti – dalle alluvioni alle grandi siccità sino agli smottamenti dei terreni – cui un tempo attribuivamo facilmente l’etichetta di “eventi naturali straordinari”. Sempre più ci siamo resi conto che queste vicende sono invece, purtroppo, ordinarie e che troppo spesso si alimentano di una nostra responsabilità.
Scienza, coscienza e responsabilità devono oggi più che mai guidare l’uomo non più contrapposto alle forze della natura, ma semmai alleato di queste (come dimostra l’ultimo rapporto dell’IPCC di cui presentiamo una sintesi nel riquadro qui di seguito).
La produzione ed il consumo di energia è oggi più che mai al centro delle preoccupazioni dell’uomo: l’energia è la chiave, il rovello, il nodo del contendere della discussione in atto a livello mondiale dei più importanti organismi internazionali, nazionali e multinazionali.
Gli eventi naturali ci richiamano sempre di più a non considerarci esseri avulsi dalla vita che si svolge intorno a noi su questo pianeta, convulsi consumatori di beni e servizi, noncuranti signori e padroni spreconi di materia ed energia. Ci richiamano, certo con crudezza e drammaticità, ad una realtà che, nel bene e nel male, spesso non conosciamo o dimentichiamo: l’importanza di non essere soli sulla Terra.

 

Assicurazioni: la catastrofica “annata 1999”

Solo il 1992, anno dell’uragano Andrew, e il 1995, anno del disastroso terremoto di Kobe in Giappone, sono costati di più alle compagnie assicurative. Il 1999 ha rappresentato un vero anno nero per le assicurazioni. Se nel 2000 le principali compagnie assicurative mondiali hanno elaborato una stima di 30 miliardi di dollari di danni, il conto per il 1999 è stato salatissimo: ben 100 miliardi di dollari.
La percentuale di danni coperti dalle assicurazioni copre però circa ? del totale. Dei 10,6 miliardi di dollari di costi sostenuti dal mondo delle assicurazioni nel corso del 2000, circa 3 si devono a eventi catastrofici causati direttamente dalla mano dell’uomo (come gli incendi) mentre circa 7,5 sono da addebitarsi a disastri naturali, dove le alluvioni sono il maggior responsabile.
Nel 1999 l’80% delle perdite era dovuta a cause catastrofiche naturali e circa il 20% ad altre cause. Dei circa 30 miliardi di dollari a carico delle assicurazioni nel 1999, più del 50% è imputabile a 7 catastrofi naturali: le tempeste invernali Lothar e Martin, che hanno causato in Europa oneri assicurativi rispettivamente per 4,5 e 2,2 miliardi di dollari; il tifone Bart, in Giappone, per 3 miliardi di dollari; l’uragano Floyd, negli Usa, per 2,4 miliardi di dollari, e il terremoto in Turchia per 2 miliardi di dollari. Dagli incidenti tecnici (esplosioni in centrali elettriche, in fabbriche e in raffinerie di petrolio) sono venuti oneri per più di 4 miliardi di dollari.
La “fortunata” contingenza di un minor numero di alluvioni, tifoni e terremoti avvenuti nel 2000 rispetto all’anno precedente, sostengono le compagnie, non deve indurre in errore: si tratterebbe solo di casualità visto che il continuo aumento della popolazione e la sua concentrazione in zone a rischio induce a pensare che il trend di perdite non possa che essere in continua ascesa.
La ricerca rileva una forte preoccupazione nel mondo assicurativo ma anche il rischio di vere e proprie emergenze finanziarie per le casse dei paesi più colpiti, in ragione del fatto che la finanza pubblica mondiale deve sobbarcarsi un onere che supera i ? del costo dei danni provocati.
Oltre al costo finanziario, la ricerca mette in luce il tragico bilancio sociale derivato da 351 eventi catastrofici che nel 2000 hanno ucciso 17.400 persone: tra l’agosto e il settembre del 2000 almeno 1200 persone hanno perso la vita in India e in Bangladesh, mentre nell’Africa meridionale (Mozambico) le piogge hanno provocato la morte di oltre 900 persone.
Il bilancio delle vittime nel 1999 era stato assai più terribile: oltre 105.000 per lo più verificatesi a cause delle frane in Venezuela (50.000 morti), del terremoto in Turchia (20.000) e del ciclone tropicale che ha devastato Orissa in India (15.000).
Nei paesi industrializzati, rileva la ricerca, il costo sociale, in termini di vite umane, è più basso mentre più alti sono i costi finanziari. Le maggiori catastrofi mondiali in termini di costi economici si sono verificate negli Stati Uniti e in Giappone ma, in termini di vite umane, grazie all’elevata capacità di allerta preventiva o alla presenza di sistemi preventivi, delle oltre 7000 vittime causate da eventi straordinari, quelle americane sono solo 17.
Secondo la ricerca, dunque, sono i paesi non industrializzati a pagare il tributo più alto in termini umani.


 

Rapporto IPCC: le tecnologie esistono, basta applicarle

L’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) è un organo consultivo delle Nazioni Unite, costituito nel 1988, che nasce dalla cooperazione tra l’Organizzazione Meteorologica Mondiale e l’UNEP, l’Agenzia per i problemi ambientali dell’ONU. L’IPCC è articolato in tre gruppi: il primo ha il compito di valutare le informazioni scientifiche disponibili, il secondo esamina gli impatti sociali ed economici di eventuali modi-ficazioni del clima e il terzo coadiuva i governi nel formulare strategie adeguate per la prevenzione e il con-trollo di tali cambiamenti in termini di opzioni tecnologiche e di piani operativi di intervento.  

Fanno parte dell’IPCC tutti i paesi che aderiscono alle Nazioni Unite: le discussioni e i gruppi di lavoro sono aperti, oltre che ai delegati governativi (i soli, però, ad avere diritto di voto), anche ad associazioni intergo-vernative, non governative e a singoli esperti di chiara fama internazionale direttamente cooptati dal presi-dente dell’IPCC.
Il primo rapporto IPCC del 1990 ha costituito il documento di riferimento per i negoziati preparatori della Convenzione quadro sui cambiamenti climatici, sottoscritta a Rio de Janeiro nel ‘92: il rapporto, pur indi-cando la necessità di approfondire le ricerche, segnalava l’urgenza di ridurre le emissioni dei gas serra, in particolare quelle di CO2. Il secondo Rapporto (Roma, 1995) ha aggiornato il quadro scientifico (in esso si affermava che: «La valutazione complessiva dei fatti suggerisce che esiste un’osservabile influenza umana sul clima globale») e ha fornito opportuni “sommari” per i decisori politici: gli scenari e le previsioni richia-mavano i governi di tutti i paesi firmatari della Convenzione quadro all’esigenza di aggiornare e rendere più efficace la strategia internazionale nei confronti dei cambiamenti climatici.
I rapporti prodotti rappresentano documenti scientifici e socio-economici consensualmente accettati a livello mondiale e quindi costituiscono il quadro di riferimento per le Nazioni Unite (nel senso che opinioni diverse non sono prese in considerazione ai fini del processo di attuazione degli impegni concernenti i cambiamenti climatici) per i successivi cinque anni dalla loro approvazione.
Il terzo rapporto, che doveva uscire alla fine del 2000, è in fase di definizione: già pronto da un punto di vista scientifico, l’elaborato dei tre gruppi di lavoro è stato terminato ed inviato ai governi per il processo di revi-sione. Nei primi tre mesi del 2001 si sono succedute una serie di riunioni che hanno dato modo di conoscerne alcuni aspetti salienti.

 

 

Working Group I

Nel primo rapporto di quest’anno, quello di Shanghai, gli scienziati del primo Working Group dell’IPCC – quello sulle basi scientifiche dei cambiamenti climatici – avevano indicato con forza le attività umane co-me le principali responsabili dell’effetto serra.
«Le attività umane – si scrive nel rapporto – hanno avuto un impatto sul clima determinandone un riscalda-mento, e ulteriori cambiamenti si determineranno nel secolo appena iniziato e nei successivi. Tra questi dobbiamo attenderci un ulteriore riscaldamento, modificazioni della quantità e del tipo di precipitazioni, un aumento del livello del mare e cambiamenti nella frequenza e nella quantità degli eventi climatici estremi. Questi cambiamenti determineranno significative variazioni rispetto alle condizioni climatiche degli ultimi secoli. Oltre il 2100 i cambiamenti climatici e l’innalzamento del livello del mare determinati dalle passate, attuali e future attività umane continueranno per secoli, e questo anche se la crescita delle concentrazioni dei gas serra sarà bloccata durante questo secolo».
Gli scenari costituenti il “cuore” del Terzo Rapporto dell’IPCC sono infatti preoccupanti: «Le stime sul ri-scaldamento medio – scrive l’IPCC – prevedono un aumento della temperatura tra gli 1,3 e i 4,9°C». Questo riscaldamento è più alto di quello previsto dal Secondo Rapporto del ‘95 (0,7 - 3,5 °C). L’innalzamento pre-visto del livello del mare oscilla invece tra i 12 e gli 87 centimetri.
«Un aumento delle precipitazioni è atteso nelle aree tropicali e alle alte latitudini, mentre riduzioni sono at-tese in buona parte delle aree subtropicali e nelle aree continentali in estate. C’è una elevata probabilità di un aumento delle ondate di caldo e anche che la maggior parte delle regioni sperimenti un aumento di inten-sità e di frequenza di forti precipitazioni. Questi trend sono già osservabili nei dati in nostro possesso relati-vi al XX secolo. Futuri cambiamenti in altri estremi climatici sono più incerti, con solo una media probabili-tà di aumento della siccità e di un aumento dell’intensità dei cicloni tropicali».

 

Working Group II


Da questi dati, nel successivo incontro di Ginevra (febbraio 2001), il secondo Working Group (quello sugli impatti socio-economici) aveva lanciato un giustificato allarme, traendo una serie di preoccupanti conside-razioni.
«Il ciclo idrologico – è detto nel rapporto – è sensibile e il cambiamento climatico previsto determinerà mo-dificazioni nell’umidità del suolo, nel ruscellamento, nella portata dei fiumi e dei laghi. Questo esporrà gli ecosistemi e le comunità umane a sostanziali cambiamenti nelle disponibilità di acqua, nella qualità della stessa e nel rischio di alluvioni e siccità. Le ricerche indicano che lo stress delle risorse idriche potrà cre-scere in molti paesi tra i quali Australia, Nordafrica, Africa meridionale, Europa meridionale, Medio Orien-te e America Latina e ridursi in Asia e Africa equatoriale. I modelli indicano per la maggior parte delle aree una tendenza all’aumento del rischio di alluvioni e periodi di siccità. L’aumento delle temperature sarà pro-babilmente accompagnato da un aumento del rischio di eutrofizzazione».
Un impatto significativo è previsto anche per l’agricoltura. A dispetto del fatto che la CO2 ha un effetto di per sé fertilizzante sulle piante, il Working Group II scrive che questo sarà controbilanciato dai cambiamenti delle precipitazioni e della temperatura e che un aumento della produzione non è attendibile: le stime sono molto divergenti e la sola certezza è che la risposta dei sistemi agricoli varierà molto a seconda delle condi-zioni locali.
Il cambiamento climatico creerà poi «significativi disequilibri negli ecosistemi per lunghi periodi di tempo» e questo porterà «una riduzione della biodiversità». «Cambiamenti nella distribuzione di animali e piante sono già stati osservati» e continueranno negli anni a venire «con spostamenti di 400-600 chilometri verso Nord per un aumento di soli pochi gradi centigradi».
Cambiamenti significativi sono attesi anche negli oceani. In particolare «riduzione delle aree ghiacciate al Polo Nord, modificazione della salinità e delle correnti, riduzione della pescosità e possibile aumento delle condizioni favorevoli all’acquacoltura, il che compenserà solo parzialmente la riduzione della pesca in mare aperto».
Molte aree costiere sperimenteranno poi «un aumento dell’invasione delle acque marine, dell’erosione e del-la salinizzazione delle falde. Il rischio è particolarmente elevato nelle aree tropicali e subtropicali».
«Il cambiamento climatico – prosegue il Working Group II – avrà anche diversi impatti sulla salute umana, alcuni positivi e la maggior parte negativi». Tra questi ultimi l’aumento di ondate di caldo, di eventi climati-ci estremi come alluvioni e cicloni, l’aumento della diffusione di malattie come la malaria. Nel 2080, dai 260 ai 320 milioni di persone che oggi vivono in aree non a rischio saranno esposte a questa malattia.

 

Working Group III


Nella riunione di Accra (Ghana) nel marzo di quest’anno, gli scienziati del terzo Working Group dell’IPCC evidenziano il fatto che le tecnologie efficaci per misurare e combattere il riscaldamento globale ci sono già e a costi molto più bassi di quanto si possa immaginare: già tra 20 anni le emissioni dei gas responsabili dell’effetto serra potrebbero ridursi della metà, con benefici diretti e un risparmio sia in termini energetici sia economici.
Nel rapporto di Accra si rileva che la maggior parte dei modelli attuali indicano che le tecnologie finora note consentono di raggiungere in modo soddisfacente la stabilizzazione dei livelli di anidride carbonica almeno per il prossimo secolo e oltre. La strada da percorrere è sostanzialmente quella del risparmio energetico e dello sviluppo delle energie rinnovabili. Le tecnologie e le pratiche disponibili e potenzialmente efficaci, si rileva nel rapporto, sono centinaia e riguardano le aree di intervento più diverse come il risparmio energetico negli edifici, nei trasporti, nell’industria. Sul fronte delle risorse energetiche, i combustibili fossili sono de-stinati a giocare la parte del leone almeno fino al 2020 poiché sono economici ed ancora abbondanti. Tutta-via, secondo il rapporto, nello stesso periodo potrebbe aumentare il ricorso al gas naturale e ciò potrebbe in-fluire in modo importante sulla riduzione dei gas serra. Altre potenziali risorse alternative da utilizzare sono il metano proveniente dalle discariche, l’energia eolica e quella idroelettrica.
Le tecnologie, insomma, sono a portata di mano e per gli esperti dell’ONU non si tratta che di renderle ac-cessibili, magari offrendo incentivi alle aziende e rimuovendo ogni ostacolo alla loro applicazione.
Utilizzarle in questo senso potrebbe richiedere solo alcuni cambiamenti socio-economici e istituzionali: so-stanzialmente l’attivazione di quella “volontà” a livello individuale e collettivo, capace di superare i condi-zionamenti culturali che, alla luce delle previsioni catastrofiche dei precedenti rapporti, rischiano di bloccare per sempre l’evoluzione della specie umana.

 
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