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L’isola della felicità e il culto del cargo


Le circa 80 isole della Repubblica di Vanuatu, situata a circa 2000 km ad est delle coste australiane, sono disposte a formare l'Anello di Fuoco del Pacifico, con una più o meno costante attività vulcanica, da semplici tremiti a occasionali tsunami. In alcune isole, coperte da fitte foreste in gran parte ancora inesplorate, la terra erompe fuori dalle acque per innalzarsi a 2000 m sul livello del mare, in altre atolli corallini e isolette rocciose giacciono ad appena pochi metri sul suo livello. La terraferma non raggiunge la superficie totale dell'Irlanda del Nord ed è sparsa su un'area vasta come Germania, Francia e Svizzera messe insieme.

Molte delle isole di Vanuatu sono state abitate per migliaia di anni, le più vecchie tracce in tal senso risalgono al 2000 a.C.

Lo spagnolo Pedro Fernandez de Quiros mise per la prima volta gli occhi sulle isole nel 1606, chiamando la prima Nuestra Señora de Australia del Espirtu Santo, nota oggi semplicemente come Santo. Il suo alto obiettivo era di fondare una Nuova Gerusalemme nel Pacifico sulle rive di un fiume che chiamò Giordano. Ma le popolazioni locali non volevano essere salvati e impedirono i vari tentativi di sbarco degli spagnoli. De Quiros vagabondò nel Pacifico, credendo che il suo fallimento avesse condannato gli ignari ni-vanuatu - come sono conosciuti gli isolani - a bruciare per l'eternità.

Gli europei vi si stabilirono nel tardo XVIII secolo: fra i successivi esploratori, spagnoli, portoghesi e francesi, ci fu Louis Antoine de Bougainville, che scrisse di essere stato "trasportato nel giardino dell'Eden" e l'esploratore britannico James Cook che visitò le isole nel corso del suo secondo viaggio in Oceania.


Da giardino dell’Eden… a pandemonium

Ma si sa che la permanenza del genere umano nel giardino dell’Eden durò piuttosto poco: la felicità dei suoi abitanti si tramutò in atroci sofferenze.

La storia più recente di Vanuatu è fatta di un gran numero di preti, volgari schiavisti e goffi burocrati coloniali. Alle calcagna degli esploratori arrivarono i cacciatori di balene, i raccoglitori di legno di sandalo e i missionari per raccogliere anime. Gli europei portarono epidemie di influenza e morbillo, malattie veneree e il mercato degli schiavi, e la popolazione di alcune isole, soprattutto al nord, non si è mai ripresa.

La più grande sofferenza inflitta agli isolani fu sicuramente la tratta degli schiavi, pratica perseguita fino ai primi anni del ventesimo secolo. Migliaia di ni-vanuatu vennero convinti o rapiti per lavorare nelle piantagioni di zucchero e cotone del Queensland e delle Fiji, e molti non tornarono più.

Gli inglesi e i francesi, spesso in guerra fra di loro nel XIX secolo, coabitarono con molto disagio nelle Nuove Ebridi, come era conosciuto l'arcipelago fino all'indipendenza, e diedero vita probabilmente all'amministrazione coloniale più strana che il mondo abbia mai visto.

Nel 1906 la Francia ed il Regno Unito, nemici dichiarati, stabilirono alla fine un mandato congiunto con un protocollo Anglo-Francese (il "Condominio" a cui ci si riferisce ogni tanto come "Pandemonium") stabilendo pari influenza per entrambi i poteri.
La seconda guerra mondiale portò un massiccio afflusso di personale militare americano a Efate e Santo, che diventarono basi cruciali della guerra del Pacifico. Il paese fu invaso dal costume e dai dollari americani e molti ni-vanuatu guadagnarono vere paghe per la prima volta nella loro vita. Inoltre gli isolani osservarono i neri americani beneficiare dei beni e dei lussi permessi ai bianchi, e questo non ebbe un ruolo da poco nel loro desiderio di indipendenza.
Nei tardi anni '60 il movimento Nagriamel cominciò ad attirare migliaia di persone, in maggioranza nelle isole settentrionali. Il suo leader era il presidente Moses (Jimmy Tupou Patuntun Stevens), che si limitò inizialmente a richiedere i diritti per la "boscaglia scura", la terra che gli europei non avevano mai reclamato o su cui non si erano mai stabiliti. Nagriamel divenne sempre più politicizzato e, nel 1971, fece una petizione alle Nazioni Unite per un "atto di libera scelta" a proposito dell'indipendenza dell'arcipelago.

L'Inghilterra e la Francia concordavano che sotto le leggi del Condominio nessuno dei due avrebbe potuto ritirarsi senza l'altro, e ciò divenne un motivo per l'inattività. Furono alla fine trascinati alla riforma costituzionale nel 1974-75, e, siccome gli isolani si agitavano per ottenere più diritti, concessero le elezioni. I burocrati del Condominio si erano resi conto della vergogna del colonialismo nel mondo moderno.
L'indipendenza fu raggiunta nel 1980: le truppe anglo-francesi non poterono fermare la violenza e le razzie che ebbero luogo anche nelle città più grandi, e il governo locale alla fine chiamò le truppe da Papua Nuova Guinea per riportare l'ordine e dichiarare l'indipendenza il 30 luglio 1980.

Gli anni '90 furono anni di instabilità politica. Nel 1996 fu ostacolato un piano da parte dei paramilitari della Vanuatu Mobile Force per rovesciare il governo e instaurare la legge marziale. Quello stesso anno furono diffuse accuse di frodi alle maggiori banche da parte dei membri del governo di Carlot Korman, e la continua instabilità politica portò una flessione dell'economia e una diminuzione degli investimenti stranieri, nonostante il costante flusso di capitale straniero grazie allo stato di paradiso fiscale del paese. Nel febbraio del 1997 il governo firmò un accordo con la Banca di Sviluppo Asiatico per ristrutturare in modo significativo l'economia con fondi di investimenti privati.
Nel novembre 1997 il presidente di Vanuatu, Jean-Marie Leye, sciolse il parlamento e indisse nuove elezioni. Nonostante le elezioni del marzo 1998 e un nuovo governo, ci fu un nuovo cambio alla fine del 1999. Più o meno nello stesso periodo Vanuatu fu colpita da un terremoto e da una mareggiata che causarono ingenti danni nell'isola di Pentecoste.

 

Un mosaico di culture e culti

Il territorio frazionato di Vanuatu ha dato origine a un caleidoscopio di culture e a più di 100 lingue indigene. Isolati gli uni dagli altri dal mare o da montagne invalicabili, sparuti gruppi di isolani hanno avuto centinaia o migliaia di anni per proteggere gelosamente le loro culture e lingue o per mescolarle con i vicini. La popolazione indigena è un insieme di melanesiani - i neri del Pacifico occidentale con legami con i papua e gli aborigeni australiani - polinesiani, il popolo dalla pelle più chiara del Pacifico orientale, e varie tonalità in mezzo. Mentre il bislama è il fattore linguistico unificante, sono anche comunemente parlati inglese e francese.
In un paese che si riconosce prevalentemente cristiano, le credenze tradizionali vengono mantenute da una buona parte della popolazione. I missionari sono riusciti a imporre una fede aliena a un popolo che aveva già forti credenze, ma questo successo può essere in parte dovuto ad alcune notevoli similitudini tra la cristianità e le credenze locali. Molti isolani credevano in un creatore, Tahara, non molto diverso da Jehovah, in un Giardino dell'Eden dove il primo uomo e la prima donna mangiavano il frutto proibito dell'albero di mele e cadevano in disgrazia, e in un demone Saratau, del tutto simile a Satana. Il mondo dei ni-vanuatu è ancora popolato da spiriti e demoni, nonostante gli sforzi dei missionari per rimuoverli.

Non fu difficile però far leva su una profonda convinzione: i melanesiani credono che tutti i beni materiali vengano inviati loro dagli spiriti. Vedendo che gli europei possedevano tante cose meravigliose, ardevano dal desiderio di adorare gli stessi spiriti adorati dagli europei. Per cui i primi missionari cristiani ebbero subito un enorme successo.

L’impatto della civiltà occidentale sulla tradizionale religiosità popolare degli isolani ha prodotto anche in tempi più recenti delle curiose forme di culti in cui cristianesimo e paganesimo, sacro e profano si fondono per attribuire a beni materiali delle aspettative salvifiche di tipo messianico.

Culti nati da una sorta di riflessione esistenziale degli abitanti di quelle contrade, che vedevano i loro mari e i loro cieli continuamente solcati da navi e da aerei carichi, a quanto sentivano dire, di ogni ben di dio, senza che di questo ben di dio a loro arrivasse mai una benché minima parte. E siccome costoro si consideravano, come chiunque, al centro di un Universo che, dopo tutto, era stato creato dagli dei loro antenati, il fatto che tanto benessere finisse in mano di altri, per esempio nelle mani dei coloni europei e americani, che pure non sembravano disporre di antenati divini di nessun tipo, tendeva ad apparire come una mostruosa ingiustizia, cui era necessario porre rimedio in qualche modo.

Così sorse fra gli indigeni la credenza che, una volta tramontato il sistema vigente, rovesciato l’ordine coloniale, ridotti in schiavitù o sterminati i bianchi, gli antenati sarebbero tornati, con tutte le proprietà degli europei. Allora le tante odiate piantagioni sarebbero state distrutte, perché non sarebbero più servite.

Da qui le ragioni della diffusione di una serie di credenze, generalmente catalogate come “Culti del cargo” (presenti in forme diverse anche in altre isole della Melanesia, con particolare riguardo alla Nuova Guinea e agli arcipelaghi viciniori) che, pur nelle varie forme (circa 200) che assunse isola per isola (vedi Riquadro), si proponeva il fine comune di attirare sulle spiagge della Melanesia i vettori di tutti i beni di cui i melanesiani si consideravano a buon diritto gli unici destinatari.

Il primo culto del cargo conosciuto fu il “Movimento Tuka”, iniziato nelle isole Fiji nel 1885. Altri tra i primi movimenti sono avvenuti in Papua Nuova Guinea, incluso il “Culto Taro” nella Papua settentrionale, e la “Pazzia dei Vailala” documentata da F.E. Williams, uno dei primi antropologi ad operare in Papua Nuova Guinea.

Il periodo classico di attività del culto del cargo è stato negli anni durante e dopo la Seconda Guerra Mondiale. La vasta quantità di materiale di guerra che è stata paracadutata sopra a quelle isole durante la campagna del Pacifico avvenuta contro l'Impero del Giappone ha significato un drastico cambiamento dello stile di vita degli isolani. Prodotti industriali come vestiti, cibo in scatola, tende, armi ed altri beni di utilità arrivarono in grandi quantità per rifornire i soldati e anche gli isolani che erano le loro guide ed ospiti. Alla fine della guerra le basi aeree furono abbandonate, e i 'cargo' non furono più paracadutati.

In modo da far si che i carichi di beni tornassero ad essere paracadutati o anche portati per via aerea o per mare, gli isolani hanno iniziato ad imitare i comportamenti che hanno visto assumere dai militari occidentali. Hanno quindi fabbricato cuffie audio dal legno indossandole seduti dentro a finte torri di controllo da loro costruite. Hanno iniziato a mimare segnali di atterraggio per aerei, hanno acceso segnali di fuoco e torce per illuminare le piste di atterraggio amò di fari di posizione.

In una sorta di magia simpatetica, molti di loro hanno costruito, con i mezzi a loro disposizione, riproduzioni a grandezza naturale di aeroplani e hanno costruito nuove piste di atterraggio simili a quelle occidentali, nella speranza che questo avrebbe attirato molti più aeroplani pieni di 'cargo'.

Una religione descritta come "culto del cargo" si sviluppò durante la guerra del Vietnam tra alcuni appartenenti al popolo Hmong dell'Asia Sudorientale. Il nucleo del loro credo era che la seconda venuta di Gesù Cristo fosse imminente, solo che questa volta sarebbe arrivato indossanto una tuta mimetica e guidando una jeep militare, per portali via nella terra promessa. Le origini sono sconosciute, ma si può supporre che sia stato estratto dalle immagini del nuovo potere che apparve loro in quel periodo, in forma di militari statunitensi e di missionari cristiani occidentali.

Un caso più recente di questo tipo di comportamento si ebbe nel 1979, quando la nave taiwanese Lunchaun, che trasportava un grosso carico di componenti elettriche, si rovesciò nell'oceano polinesiano. Gran parte del carico rovesciato venne saccheggiata dagli isolani locali, che ricavarono dai detriti recuperati degli oggetti, alcuni di uso pratico, altri di uso rituale.

 

L’isola di Tanna e il culto del cargo

A Vanuatu questa forma di culto risale al XIX secolo - nell’ambito di alcune associazioni segrete maschili (Dukduk, Iniet) - durante il quale fu temporaneamente proibito e riportato in vita una sessantina di anni fa.

L’isola di Tanna è stata la culla di una delle forme di religiosità più strane al mondo ma, alla luce della storia di queste meravigliose isole, facilmente comprensibile ancor più da noi, occidentali di oggi, che sull’abbondanza e sul lusso abbiamo fondato quella religione pagana che esportiamo in tutto il mondo, ancor più facilmente della democrazia, grazie alla globalizzazione.

In quest’isola, a Sud dell’arcipelago di Vanuatu, si trovano i seguaci di John Frum i quali praticano una forma di culto del cargo ancora viva (a febbraio, si celebra addirittura il Giorno di John Frum con danze, parate e feste) ma che apparentemente comincia a creare frustrazione e quindi a contrarsi.

L'attesa dura da sessant'anni. Hanno costruito rudimentali piste di atterraggio nella giungla, recinti di bambù lungo la costa per custodire i doni che arriveranno, torri di legno per avvistare navi e aerei, antenne radio fatte di lattine per annunciare il lieto evento. Ma finora lui - messia, spirito, eroe reale o fantastico - non è tornato, né la sua profezia si è avverata.

Certo, in un paese dove manca l’elettricità, il telefono, la tv, dove non ci sono strade decenti, dove la sola acqua disponibile è quella piovana, dove le auto si contano sulle dita della mano, il benessere fa gola specialmente a coloro che lo hanno sperimentato durante l’occupazione americana degli anni Quaranta o durante i viaggi a Port Vila, la capitale.

Il culto del cargo fece la sua comparsa in quegli anni, quando i ni-vanuatu credevano che il mitico John Frum li avrebbe liberati dagli europei in generale e dai missionari in particolare. Il movimento si accentuò con l'arrivo di più di 100.000 americani del personale di servizio durante la guerra. Essi abbagliarono i ni-vanuatu con i loro frigoriferi, i camion, il cibo in scatola, le sigarette e altri oggetti di lusso, che convinsero i locali che gli europei gli stessero di proposito tenendo nascosti quei beni.

Ma chi era John Frum? Secondo alcuni antropologi era un soldato americano o forse un collaboratore della Croce Rossa, che infatti è diventata il simbolo di questo culto.

Secondo la tradizione orale “Egli” differiva dagli altri uomini bianchi perché conosceva i dialetti e le usanze di Tanna ed era agli isolani che egli doveva la sua obbedienza.

Alcuni nativi asseriscono che John Frum abbia fatto la sua apparizione all’inizio degli anni ’30 o più verosimilmente nei primi anni '40, tra la spiaggia e le pendici del vulcano dell'isola di Tanna: il misterioso visitatore aveva arringato gli anziani, spingendoli a rigettare le regole imposte dai missionari e a tornare al sistema tradizionale (il kastom) nell'attesa del benessere che sarebbe presto arrivato.

La popolazione, a quel tempo, era di circa 6000 persone, di cui il 60% era presbiteriano, il 30% non cristiano e il resto in massima parte avventisti o cattolici.

Era l'epoca dell'avanzata del Sol Levante nel Pacifico; i giapponesi avevano occupato le vicine Salomone e gli americani, per arginarli, le Nuove Ebridi, installando rapidamente la loro macchina da guerra, costruendo piste, strade, ospedali. E scaricando dai loro cargo (aerei e navi) non solo frigoriferi, radio, tabacco e cibi in scatola "doni degli dei", ma anche stili di vita e comportamenti sociali.

I melanesiani ebbero così l'occasione di sperimentare un cambiamento radicale rispetto ai bianchi che conoscevano, quei francesi e inglesi che si spartivano le isole da un paio di secoli: rimasero piacevolmente sorpresi - da "neri" del Pacifico - nel vedere il personale militare statunitense bianco e di colore usufruire dello stesso trattamento e degli stessi ben di Dio.

Il movimento si diffuse su tutta l’isola di Tanna e la maggior parte delle missioni rimase deserta.

Le stime sul numero attuale degli aderenti al culto del cargo variano considerevolmente: una piccola proporzione, forse il 5%, crede che l’età dell’oro di John Frum sia a portata di mano, ma circa il 99% crede che essi verranno premiati alla fine per aver creduto a John Frum.

Proprio come nelle società occidentali,in una chiesa ci sono sia adoratori devoti, che credono al cielo e all’inferno, sia altri che considerano l’andare in chiesa come una specie di assicurazione contro gli imprevisti…


Un culto più diffuso di quanto sembri

Se a Tanna qualcuno comincia a dubitare di John Frum e dell’arrivo dei suoi cargo, altrove questo tipo di credenze trova sempre più nuovi adepti.

Qualcuno penserà che in fondo si tratta solo di bizzarre forme di culto proprie di popoli primitivi, incapaci di separare il sacro dal profano.

Eppure nelle nostre odierne società industrializzate, evolute e smaliziate, quanti individui sono immersi in una religione del consumo di beni materiali? Quanti sono in attesa dell’ultima novità di telefonino, di computer, di automobile che promette di surclassare i concorrenti e di consentire al possessore uno status che lo eleverà al di sopra della media?

Messia mediatici ci bombardano dagli schermi televisivi o dalle pagine delle riviste patinate per condizionarci all’acquisto di beni che quasi mai ci faranno… del bene ma che, anzi, ci spingono in una spirale di dipendenza che per alcuni ha già raggiunto le sembianze di un vortice di compulsività al punto tale da classificare il malcapitato nella più recente forma di patologia psichiatrica.

I nostri John Frum sono gli imbonitori televisivi e non che ci convincono a comprare cose di cui non abbiamo bisogno per soddisfare bisogni che non abbiamo o che si soddisfano con cose che non si possono comprare.

I nostri John Frum sono quei personaggi politici che fanno promesse che sanno di non poter mantenere, che profetizzano un benessere facile da avere perché non è necessario conquistarselo con fatiche e rinunce ma che ci arriverà grazie alla fortuna: un “apparizione” televisiva, un gioco a quiz, un “gratta e vinci”, forse.

Così sono in molti a sperare che all’orizzonte della propria vita arrivi il cargo che aspettano, la “manna” dal cielo o il Messia che li salverà…

Ma è giusto sprecare la propria, unica, originale, irripetibile Vita sulla base di aspettative create da altri, in attesa di una simil-vita “tutto bene”, solo sognata in un videogioco o rincorrendo i gossip sulle vite dei “famosi” sulle pagine dei rotocalchi o sugli schermi televisivi?



Bibliografia

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AA.VV. I popoli dell’Oceania. In: “Globus. Il pianeta dei popoli”. Vol. 13. Mondadori 2006

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Ladischensky, Dimitri. El pueblo mas feliz. El Pais Semanal. 2006

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Kaplan, Martha. Neither cargo nor cult: ritual politics and the colonial imagination in Fiji. Durham: Duke University Press, 1995.

Lawrence, Peter. Road belong cargo: a study of the Cargo Movement in the Southern Madang District, New Guinea. Manchester University Press, 1964

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Inglis, Judy. Cargo Cults: The Problem of Explanation. Oceania vol. xxviii no. 4, 1957.

K, E. Read. A Cargo Situation in the Markham Valley, New Guinea. Southwestern Journal of Anthropology. vol. 14 no. 3, 1958.

 

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Riquadro

Lavorare meno, lavorare tutti. O non lavorare affatto?

La remota isola di Manus, in Papua Nuova Guinea - luogo di studio della giovane antropologa Margaret Mead (si parla del 1929) alle prese con il gioco e le fantasie dei bambini più piccoli ed il modo nel quale diventavano adulti in quella società – è tornata di recente a far parlare di sé come centro di detenzione del dipartimento Immigrazione australiano.

Manus è una delle isole del Pacifico utilizzate dall'Australia negli ultimi due anni nel quadro della 'Pacific Solution', consistente nel bloccare con navi della marina le imbarcazioni che tentano di entrare in acque australiane, e nel rinchiudere i boat people in campi di detenzione in isole del Pacifico, in attesa che siano esaminate le loro domande di asilo.

Ultimamente però il carcere ospitava un solo ospite, un palestinese di 25 anni a cui facevano la guardia 30 persone fra agenti di custodia, addetti ai servizi, alle pulizie e alla manutenzione, con un esborso per le casse dell’erario equivalente a 2,6 milioni di euro!

Ben prima che si diffondessero in quella zona i poveri “boat people” (che, a quanto pare, non hanno ispirato nessun culto e nessuna pietà ai già ricchi australiani…) anche a Manus il “culto del cargo” aveva i suoi adepti negli indigeni, ancorché divisi in due fazioni.

Tra i profeti storici di questo fenomeno religioso si ricorda un certo Wapi. Costui era in concorrenza con un altro profeta, il temibile Paliau, e aveva bisogno di argomenti con i quali attirare sul suo movimento il favore popolare. Per cui, pensa che ci ripensa, diede del Culto una versione in base alla quale, considerando la bontà intrinseca degli antenati e la conseguente impossibilità che lasciassero perire i loro discendenti di inedia, l’unico modo di attirare le benefiche navi sulle coste di Manus sarebbe stato quello di non fare assolutamente niente. Bastava che i fedeli smettessero di lavorare e produrre e, una volta che avessero consumate tutte le risorse disponibili, gli antenati sarebbero stati in un certo senso costretti a mandare quei benedetti carichi, dando inizio in via definitiva all’era dell’abbondanza.

Ahimè. Non successe niente di simile. Il wapismo si diffuse, sì, a macchia d’olio nella popolazione, gli adepti si affrettarono a consumare tutto il consumabile e smisero con scrupolo di produrre alcunché, ma le navi proprio non si fecero vedere. La cosa generò, com’era ovvio, una certa insoddisfazione e qualcuno espresse dei dubbi su una teologia così liberale, ma Wapi fu irremovibile. La prosperità sarebbe arrivata da un momento all’altro e guai se un solo devoto si fosse rimesso a lavorare: avrebbe rovinato tutto. Ma i manusiani, man mano che aumentavano i morsi della fame, erano sempre meno propensi a dargli retta: alla fine abiurarono in massa, lo denunciarono come falso profeta e negli inevitabili tumulti che ne seguirono trovarono - sembra - il modo di fargli la pelle.

Oggi il Culto del cargo, nell’Arcipelago Bismarck, sopravvive nella veste riformata che gli diede Paliau, secondo cui le navi degli antenati sarebbero arrivate, non ci pioveva, ma un pochino più tardi, e nel frattempo non sarebbe stato male rimboccarsi le maniche e rimettersi provvisoriamente al lavoro.

Nel panorama culturale e religioso delle isole del Pacifico del Sud, attualmente, il “movimento di Paliau” rappresenta una delle comunità spirituali sulla cresta dell’onda, ma chissà se qualcuno, sotto sotto, non rimpiange i bei tempi in cui l’unico modo per assicurarsi il benessere era sembrato quello di oziare.

 

 




 
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