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UN CAFFÈ AMARO

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Secondo una leggenda il caffè venne usato per la prima volta nel IX secolo da un muftì di Aden, il quale per poter pregare Allah anche di notte cercava ogni mezzo per non addormentarsi. La patria del caffè è una regione meridionale dell’Abissinia che si chiama appunto Caffa e dalla quale, nel Medioevo, la coltivazione del caffè penetrò in Arabia. Diventata la bevanda prediletta dei popoli della penisola arabica,
il caffè si espanse in tutto il mondo mussulmano coi pellegrini che venivano per visitare la Mecca e Medina: ritornando in India, Indonesia e nell’Eurasia, oltre a raccontare le meraviglie della pietra nera della caaba, essi diffusero l’uso di questa nera bevanda. Dopo l’Arabia, il caffè conquistò l’Egitto, poi la Turchia: i primi spacci di caffè furono aperti verso la metà del XVI sec. a Costantinopoli e diventarono ben presto ritrovi pubblici dove si commentavano la politica e i pettegolezzi (quant’è piccolo il mondo...).

Inizialmente questi locali furono invisi al potere (tant’è che i sultani tentarono di proibire quei ritrovi.. troppo stimolanti) ma poi, capito che con un opportuno dazio su questa bevanda si potevano ricavare forti introiti, i governanti turchi anticiparono di un secolo il fisco dei paesi europei.
Ironia della sorte fu però dalla sconfitta turca nel secondo assalto a Vienna del 1683 che i cristiani vincitori furono soggiogati dalle provviste di caffè dei vinti. Peraltro il caffè raggiunse l’Europa anche grazie ai traffici marittimi di veneziani, francesi ed inglesi, malgrado medici conservatori e intere facoltà di medicina condannassero quella nuova bevanda, detta anche moca dal nome del porto arabo di Mocca.
Visto che questo nuovo prodotto destava ovunque molto interesse, si pensò di toglierne il monopolio agli arabi: i primi tentativi furono fatti dagli olandesi che riuscirono ad aprire nuove piantagioni nell’isola di Giava e poi a diffonderne la coltivazione in Sudamerica e nelle Indie occidentali. Poi toccò a francesi, inglesi, americani, portoghesi, italiani e tedeschi diffonderlo in ogni dove, miscelarne i prodotti, elaborarne nuove modalità di consumo e godere dell’alto valore aggiunto, spesso a scapito dei Paesi di provenienza.


Monopoli e monocolture... pericolose

Il caffè è tanto sensibile all’influenza del clima quanto a quella delle congiunture economiche: tutte le monocolture, ossia la prevalenza di un determinato prodotto nell’economia di un paese, sono pericolose, tanto più quando questo prodotto é il caffè.
Proprio il maggior produttore mondiale, il Brasile, ne sa qualcosa.... fin dal lontano 1700.
Introdotto dalla Guaiana nel 1717, le sue piantagioni ebbero uno sviluppo enorme con la riduzione delle piantagioni di canna da zucchero e di cotone in seguito all’abolizione della schiavitù.
Il commercio del caffè aveva prosperato in Brasile fin dalle guerre napoleoniche: intorno al 1830 la sua esportazione ammontava a un quinto del prodotto mondiale, nel 1860 arrivava già alla metà.
Purtroppo gli amatori di caffè europei ed americani, malgrado la loro buona volontà di venir in aiuto ai coltivatori brasiliani, non potevano mai bere tanto caffè quanto occorreva per smaltirlo: così intorno ai primi del ‘900 i prezzi precipitarono alla metà e nei depositi si accumularono tanti sacchi da poter soddisfare i bisogni di tutto il mondo per un anno intero.
Scoppiò una crisi non molto dissimile da quella che si vive oggi in altri Paesi che hanno puntato tutto sullo sfruttamento di una risorsa: i piantatori fallirono, il caffè fu bruciato, le province si sollevarono, gli oratori delle adunanze politiche raccomandavano al rispettabile pubblico di non sparare sul candidato prima che avesse finito di parlare...
Dopo un paio d’anni di interventi politici finalizzati a gestire l’eccedenza, tutto tornò a posto ma... l’esperienza fu presto dimenticata e nei seguenti venticinque anni il Brasile aumentò ancora la sua monocoltura, raggiungendo l’80% della produzione mondiale.
Dopo di che i prezzi crollarono del 60% e si avviò la pratica di bruciare le eccedenze che si susseguirono ancora nel 1932 e nel 1937: calcolo sbagliato, perché di ciò hanno approfittato altri Stati per estendere e intensificare le loro coltivazioni di caffè, portando spesso alle stesse conseguenze disastrose non solo il commercio del caffè ma anche la loro stessa economia.
Certe lezioni non si imparano mai abbastanza: alle origini della crisi attuale c’è stata l’invasione del caffè robusta (meno pregiato, originario dell’Africa occidentale e diffuso in Asia e nel Madagascar, con un maggiore contenuto di caffeina, usato soprattutto per il caffè solubile tanto usato negli USA) prodotto dal Vietnam (da poco entrato nell’elenco dei grandi produttori) e, pensate un po', dall’aumento di robusta prodotto... in Brasile che ha ulteriormente aggravato l’eccesso di offerta e il calo dei prezzi.


La crisi odierna....

Il caffè rappresenta la materia prima più esportata sul totale del valore mondiale delle esportazioni dopo il petrolio: il suo prezzo sul mercato internazionale è crollato a spirale negli ultimi anni e oggi ha raggiunto i livelli più bassi degli ultimi 40 anni diminuendo di circa il 70%. dal 1980 all’inizio del 2002.
Il prezzo della qualità più pregiata (l’arabica, a più basso contenuto di caffeina, coltivato soprattutto in Africa Orientale e in Sudamerica) è arrivato a 40 dollari per 100 libbre, meno della metà dei costi medi di produzione che si aggirano sui 90 dollari.
Alcuni paesi del Sud del mondo dipendono pesantemente dalle esportazioni di questa materia prima: per l’Etiopia, il Burundi, l’Uganda ed altri esso rappresenta oltre la metà delle entrate da esportazione. Si tratta quasi esclusivamente di paesi poverissimi e altamente indebitati, con un potere contrattuale pressoché nullo, con produttori che lavorano in un mercato privo di informazione, il che peggiora anche la qualità dei controlli e del prodotto stesso.
Le conseguenze di questa situazione per gli oltre 60 milioni di braccianti e i circa 5 milioni di produttori di caffè sono pesantissime: lavoro minorile, salari miserabili, disoccupazione, repressione dei sindacati nelle piantagioni, malnutrizione sia dei braccianti che dei piccoli contadini e delle loro famiglie, abbandono delle terre, passaggio a colture alternative, legali (cacao e caucciù in Vietnam, banani in Tanzania) e soprattutto illegali, assai più remunerative come la coca (in Colombia) e l’oppio. 

Secondo il Wall Street Journal “il collasso dei prezzi internazionali del caffè colpisce, si stima, circa 125 milioni di persone, provocando fame, disoccupazione e migrazioni”.
La crisi cha colpito soprattutto l’America centrale e l’America latina che produce oltre il 60% della qualità arabica (quella con minor contenuto di caffeina e più pregiata) ma anche della qualità robusta (importata massicciamente dagli Stati Uniti).
Nel solo Messico la crisi colpisce 285mila piccoli produttori e 3 milioni di braccianti; in Honduras circa 1 milione di persone vive di questo prodotto; in Colombia la più grave crisi nella storia del coloniale ha messo in ginocchio centinaia di migliaia di addetti ai lavori. In Nicaragua, lo stato latinoamericano più povero dopo Haiti, l’impatto della crisi è stato devastante, così come in Guatemala, in Salvador e negli altri paesi dell’America centrale.
Stavolta il Brasile (che produce da solo quasi il 20% del totale mondiale di caffè, che esporta per il 78%), grazie a politiche produttive più efficienti e quindi a inferiori costi di produzione, sembra per ora reggere alla crisi mondiale anche se, con l’ultimo raccolto record di arabica, il gigante sudamericano ha contribuito all’ulteriore deprezzamento delle quotazioni mondiali.

 


...e i paradossi dell’economia globalizzata

Dal 1989 il prezzo del caffè sul mercato mondiale è stato liberalizzato (in precedenza i paesi produttori aderivano in gran parte all’ICO, un organismo che regolamentava la produzione per l’esportazione e che stabiliva la fascia di oscillazione del suo prezzo) a causa della concorrenza tra i produttori stessi ma anche delle pressioni di alcuni paesi importatori, tra cui gli USA.
Oggi il prezzo internazionale di questo prodotto viene deciso dalle grandi compagnie che operano sulla Borsa del caffè ed è oggetto di speculazioni che lo rendono estremamente instabile: tra le cause la costante sovrapproduzione, dovuta anche alla liberalizzazione del mercato e ai continui incentivi a investire nell’esportazione.
Gli affari si trattano “a termine”, cioè si fissa il prezzo ma la consegna e il pagamento delle quantità trattate non hanno luogo al momento della transazione ma più tardi, in un periodo di tempo di settimane o mesi: le partite di caffè sono così rappresentate da titoli finanziari (futures) su cui gli investitori internazionali scommettono.
È in pratica come vendere la pelle dell’orso prima di averlo cacciato: se si è venduta a 1000 euro mentre il suo valore di mercato al momento della consegna sarà di 800 si sarà fatto un guadagno: la speculazione non è altro che l’ottenimento di una sensibile differenza di prezzo tra quello di acquisto e quello di vendita non giustificato da aumenti di costi.
Questo provoca una grande instabilità di prezzo che rende ancora più difficile la sopravvivenza dei piccoli produttori indotti a vendere le proprie quote ogni qual volta esse vengono loro richieste dagli intermediari che poi le rivendono alle grandi compagnie, la cui forza sul mercato permette loro di far salire rapidamente il prezzo (che evidentemente è molto più alto di quello incassato dai produttori),
Così avviene che le speculazioni finanziarie sui future legati al caffè fruttino miliardi di dollari e dal 1995 il prezzo pagato ai produttori si é più che dimezzato.
Questa realtà spinge le grandi multinazionali del settore a non arginare in alcun modo la sovrapproduzione che, mentre rovina i piccoli produttori, non intacca il mercato finanziario.
Tra l’altro, sulle quotazioni dei future e non sui prezzi all’ingrosso viene calcolato il prezzo del caffè al dettaglio: infatti il costo del caffè al bar e al supermercato non è certamente diminuito, come ben sanno i consumatori (che peraltro hanno fatto registrare un calo dei consumi, dovuto all’aumento della concorrenza nel mercato delle bevande), nonostante il crollo del prezzo della materia prima, e questo può voler dire una sola cosa: qualcuno, nel suo grande e/o nel suo piccolo, sta approfittando della situazione per ricavarne lauti guadagni.
Nei primi anni ‘90 il valore commerciale globale del caffè era di circa 30 miliardi di dollari, di cui 12 miliardi rimanevano ai paesi d’origine; tra il 2000 e il 2001 era arrivato a 65 miliardi, di cui solo 5,5 miliardi restavano ai paesi produttori.
A far la parte del leone ci sono una ventina di grandi società internazionali (di cui una sola é brasiliana) che si occupano del ciclo produttivo del caffè dalla lavorazione alla distribuzione e in molti casi si dedicano anche alla coltivazione.
Soprattutto poche grandi compagnie multinazionali (Nestlè, Starbucks, Kraft, Sara Lee, Procter &Gamble, Tchibo) controllano oltre la metà del mercato mondiale e, grazie a grosse scorte, ovviamente dettano legge sui prezzi: malgrado la crisi mondiale del settore nel 2001 i profitti di Nestlè sono cresciuti del 20%, Starbucks tra il 1997 e il 2000 li ha triplicati.
Ma, nel loro piccolo, anche torrefattori, mediatori, grande distribuzione e dettaglianti organizzata hanno goduto di uno spostamento sempre più accentuato di poteri e vantaggi verso la propria parte.


Cosa fare per bere un caffè più “giusto”?

Di fronte ad uno scaffale pieno di confezioni di marche arcinote di caffè ne ho notata una che portava il nome del supermercato da cui mi fornisco abitualmente. Accanto al marchio la parola “solidale” e la figura di due mani che si stringono.
Incuriosito sono andato a leggere l’etichetta sul retro della confezione che così recitava:
«Questi prodotti rendono concreto il sostegno alle cooperative e alle piccole comunità del Sud del mondo. Sono contraddistinti dal marchio internazionale TransFair, associazione senza scopo di lucro costituita da organismi che operano nel campo della cooperazione internazionale, del Commercio Equo e dei diritti dei consumatori. TransFair fa parte di FLO, l’organizzazione internazionale di certificazione che coordina i marchi di garanzia del Commercio Equo e Solidale nel mondo. TransFair garantisce rapporti commerciali diretti con gruppi di piccoli produttori del Sud del mondo senza intermediazioni speculative, offrendo opportunità di sviluppo autonomo, attraverso il riconoscimento di:
• prezzi equi garantiti;
• prefinanziamenti agevolati;
• contratti di acquisto di lunga durata.
Acquistando questo caffè contribuisci a sostenere e promuovere lo sviluppo economico e sociale delle comunità in cui operano le cooperative che prevalentemente forniscono la materia prima utilizzata: Union Regional de Pequenos Productores de Café (Huatusco - Messico), Central de Cooperativas Cafetaleras de Honduras (Tegucigalpa - Honduras), Grupo Fedecocagua (Città del Guatemala - Guatemala), Coocafè (Alajuela - Costa Rica), Ingruma (Riosucio - Colombia).»
“Ecco il caffè che ci voleva!” - ho esclamato ad alta voce, lasciando forse perplesso sul mio stato mentale qualcuno dei clienti del supermercato.
Una volta a casa ho deciso di provarlo subito: il risultato?
“Un caffè delicato, dal gusto pieno e morbido, tipicamente dolce e dall’aroma intenso”. Proprio come c’era scritto sulla confezione!
Questa volta la pubblicità non mi ha ingannato. Finalmente un caffè dal gusto.... giusto!

 

Bibliografia

S. Cangemi (2003): Il prezzo del caffè. ManiTese. Gennaio 2003
J. Semjonow (1960): I beni della terra. Edizioni Paoline
R. Bongiorni (2003): È amara l’economia del caffè. Il Sole24Ore, 23 maggio 2003
A. Volpi (2003): Le società globali: risorse e nuovi mercati. Carocci
A. Bartolini (1979): Gli alimenti tra salute e portafoglio. Teti Editore

 
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