Copenhagen meno 30
AMBIENTE |
È una corsa contro il tempo, nel tentativo di riallineare due orologi. Il primo, velocissimo, scandisce il ritmo del dissesto atmosferico; il secondo, assai più lento, segna il passo della politica.
Alla conferenza sul clima di Copenhagen (dal 7 al 18 dicembre), appuntamento voluto dall'Onu per decidere come mantenere la temperatura del pianeta a un livello adatto alla specie umana, manca solo un mese, e la distanza tra i due orologi resta allarmante. Durante l'ultima estate il Polo Nord si è ridotto al minimo, e già è partita la gara commerciale per occupare le rotte che attraverseranno quello che una volta era considerato il ghiaccio eterno. Nel nostro piccolo, in Italia, la stagione che si è appena conclusa ha fatto registrare un aumento di 1,9 gradi rispetto alla media di un periodo vicinissimo, i trent'anni che vanno dal 1961 al 1990: quella del 2009 è stata la quarta estate più calda nella storia della meteorologia.
Naturalmente un singolo dato anomalo non basta a dimostrare la presenza del cambiamento. Ma l'accelerazione dei segnali di caos climatico è impressionante. Così com'è impressionante l'effetto sempre più evidente dei fenomeni estremi, che, complice la cementificazione selvaggia, moltiplicano i disastri: dall'alluvione a Messina alle sempre più frequenti trombe d'aria. Dal punto di vista politico, il quadro è invece contraddittorio. La sessione negoziale svoltasi a Bangkok (dal 28 settembre al 9 ottobre) si è conclusa senza alcun progresso sui punti fondamentali del trattato che dovrebbe uscire dalla conferenza di Copenhagen. Il numero delle pagine è stato ridotto da 200 a 170 ed è sparita metà delle duemila parentesi che evidenziavano i punti di mancato accordo. Ma, come è evidente, la strada resta in forte salita.
L'intesa è chiara sull'obiettivo di fondo: contenere (entro il 2100) il riscaldamento climatico al di sotto dei due gradi rispetto all'epoca pre-industriale. Ma sul come arrivare a un traguardo considerato indispensabile per evitare una catastrofe planetaria, tutto resta vago. In particolare sono evidenti le frizioni, tra paesi di vecchia e nuova industrializzazione, su come finanziare gli sforzi necessari a raggiungere un doppio obiettivo: evitare ciò a cui non ci si può adattare e adattarsi a ciò che non si può evitare. I paesi che emettono meno gas serra o che hanno cominciato a emetterli più tardi chiedono compensazioni e aiuti tecnologici, che oscillano tra i 150 e i 400 miliardi di dollari l'anno. Se si restasse a questo scenario, il contenzioso ripercorrerebbe uno schema tradizionale: il braccio di ferro tra ricchi e poveri sugli aiuti allo sviluppo. Ma c'è un'incognita. Alcuni analisti americani hanno sottolineato una novità interessante: il boom delle rinnovabili in Cina potrebbe produrre negli Stati Uniti lo stesso effetto che fece lo Sputnik lanciato dai russi. La minaccia del sorpasso potrebbe essere vissuta come una sfida determinante nel decidere l'equilibrio geopolitico del ventunesimo secolo: in questo scenario perde chi investe meno, non chi investe di più. E il finanziere George Soros ha già aperto le danze annunciando che punterà un miliardo di dollari sulle fonti energetiche rinnovabili e destinerà dieci milioni di dollari l'anno per dieci anni a un nuovo movimento politico internazionale per la lotta ai cambiamenti climatici che si chiamerà Climate policy initiative. Anche per Jeremy Rifkin - guru dell'economia dell'idrogeno e delle reti intelligenti - la spinta verso l'innovazione dell'America è destinata a crescere velocemente. "Dal punto di vista climatico, è importante il messaggio che arriva dalla Svezia: per la seconda volta, Obama dopo il riconoscimento a Al Gore, il comitato per il Nobel sottolinea il nesso tra la pace e la sicurezza ambientale. Un premio internazionale così prestigioso renderà il presidente ancora più forte nei confronti dell'opinione pubblica. Dopo gli otto anni di presidenza Bush, che hanno coinciso con il livello più basso della popolarità del mio paese nel mondo, il Nobel sottolinea il riconoscimento del ruolo di Barack e la speranza con cui tutti guardano alle sue mosse. Resta da vedere se i leader politici saranno altrettanto lungimiranti: lo sapremo a dicembre, alla conferenza sul clima di Copenhagen che misurerà la volontà concreta di cambiamento".
Se i politici mantengono un passo incerto, il mercato corre: negli ultimi cinque anni gli investimenti privati nelle fonti rinnovabili e nell'efficienza energetica si sono moltiplicati per dieci. E nei prossimi vent'anni, secondo l'ultimo rapporto di Greenpeace - Working for the Climate: Green Job (R)evolution - il mercato delle energie pulite creerà otto milioni di posti di lavoro nel mondo. E 100 mila in Italia. Ma tra l'impegno spontaneo del mercato e quello dei governi corre ancora un abisso. L'asta degli impegni ufficiali è stata fissata dagli scienziati: bisogna ridurre le emissioni serra almeno del 50% entro il 2050, ed è previsto uno sforzo supplementare da parte dei paesi industrializzati per spingere il taglio a quota 80%. È però difficile immaginare che il Bric (Brasile, Russia, India e Cina) decida di ridurre le sue emissioni se gli Stati Uniti non faranno altrettanto. La partita sembra dunque appesa alle decisioni del Senato americano e alla capacità di pressing da parte di Obama: se da Washington il sì al piano nazionale di taglio delle emissioni serra arriverà entro l'inizio di dicembre, all'apertura della conferenza di Copenhagen, la partita si potrà riaprire.
Antonio Cianciullo
(Dweb - 7 novembre 2009)
The summary of the Bangkok Climate Talks:
http://www.iisd.ca/climate/ccwg7/
COP 15 Information Website:
http://unfccc.int/meetings/items/4749.php
The provisional agenda:
http://unfccc.int/files/parties_and_observers/notifications/application/pdf/12102009_notification_cop_15.pdf
Danish Host country website:
http://en.cop15.dk/