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Nutrizione

Acque in bottiglia

L'Italia è il terzo paese al mondo per consumo di acque in bottiglia


L'Italia è il primo paese consumatore di acqua minerale in bottiglia in Europa; ogni italiano beve 196 litri di acqua minerale in bottiglia all'anno e per questo l'Italia arriva terza nella classifica mondiale dei paesi consumatori di acqua minerale in bottiglia, dopo Emirati Arabi (260 litri all'anno procapite) e Messico (205). Agli italiani, dunque, piace l'acqua in bottiglia: nel 2007 ne hanno consumata ben 12,4 miliardi di litri, e sono disposti a pagarla mille volte di più di quella che esce dal rubinetto delle loro case (in media 0,5 millesimi di euro al litro contro i 50 centesimi di euro al litro per quella in bottiglia). (…)

Gli articoli:

http://www.helpconsumatori.it/news.php?id=22514

http://www.greenreport.it/contenuti/leggi.php?id_cont=18572


Il dossier:

http://www.legambiente.eu/documenti/2008/0320_dossier_un_paese_in_bottiglia/dossier_un_paese_in_bottiglia.pdf


La Campagna di Legambiente:

http://www.legambiente.eu/documenti/2008/0320_imbrocchiamola/index.php


Risorse idriche in Europa:

http://www.zeroemission.tv/Objects/Pagina.asp?ID=5895


A teatro con “Libera l'Acqua”:

http://www.liberalacqua.it/nuovo/cipsi/master/visualizza.asp?ID=1&spot=420&cartella=centro&pagina=1

 

 


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L'insostenibile peso del gambero

 

L'insostenibile peso del gambero


Secondo il "Global study of shrimp fisheries" della FAO - che analizza i problemi, e le possibili soluzioni, della pesca dei gamberetti in Australia, Cambogia, Indonesia, Kuwait, Madagascar, Messico, Nigeria, Norvegia, Trinidad e Tobago ed Usa - “riducendo la capacità di pesca e limitando l´acceso alla pesca di gamberetti, si potrebbero attenuare lo sfruttamento eccessivo, le catture accidentali e la distruzione dei fondali marini, alcuni dei maggiori effetti collaterali - sia economici che ambientali - della pesca dei gamberetti”.

 

La segnalazione: http://www.greenreport.it/contenuti/leggi.php?id_cont=18052

Il comunicato stampa della FAO: http://www.fao.org/news/story/it/item/10159/icode/

L'intervista all'esperto: http://www.fao.org/news/video-clips/2009/shrimp0/en/

Il Rapporto: ftp://ftp.fao.org/docrep/fao/011/i0300e/i0300e.pdf

 

 


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Lo chef e la guerra cellulare

Lo chef e la guerra cellulare

di Daniela Condorelli

(da “Dweb – La Repubblica delle donne” del 31 gennaio 2009)


Come fa il cibo ad allontanare il cancro? Perché alcune sostanze si comportano come killer e altre invece ci proteggono? Un corso di cucina lo spiega e insegna a cambiare menu.

 

Nel 2009 dieci milioni di persone si ammaleranno di cancro. Almeno tre milioni avrebbero potuto evitarlo. Sarebbe bastato un buon corso di cucina. Che spegnere la sigaretta salvi da nove tumori del polmone su dieci lo sanno tutti, anche se non tutti la spengono. Ma non tutti sanno che, a tavola, può cambiare il destino. Si salvano tre milioni su dieci. Uno su tre. Cinico? Statisticamente discutibile? Nessuno mi darà mai la garanzia che non mi ammalerò. Ma uno su tre, in tema di cancro, è un'immensità. Chi vorrebbe sapersi artefice della propria malattia o di quella dei propri figli? Basta cambiare menu. (...)

L'articolo: http://dweb.repubblica.it/dettaglio/lo-chef-e-la-guerra-cellulare/56448?page=1

 

 










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UN CASO DI ORDINARIA FOLLIA...

UN CASO DI ORDINARIA FOLLIA...

Una mai debellata epidemia si espande nelle nostre società: l'incapacità di ragionare con il proprio cervello.

 

 

Quanto è pazzo, pazzo, pazzo questo nostro mondo!

 

Sempre più spaccato in due grandi emisferi contrapposti, contrastanti manifestazioni della dualità dell'essere umano che lo abita. Un Giano bi-fronte che ha di fronte a sé il futuro tecnologico sempre più a portata di mano ma che usa per le sue scelte, spesso assai poco consapevoli, i meccanismi ancestrali di un cervello di cui ignoriamo quasi completamente il funzionamento.

Come spiegare altrimenti i paradossi della società di massa, di questo mondo sempre più globalizzato culturalmente, per non dire plagiato commercialmente?

Recentemente vittima di quello straordinario meccanismo mentale che qualcuno chiama "isteria collettiva", "disturbo sociogenico di massa - mass sociogenic illness" o "effetto nocebo" è stata una delle società che forse più di tutte ha fatto della massificazione commerciale la sua filosofia di espansione: la Coca Cola.

A sostenerlo è uno studio dell'Università Cattolica di Lovanio che, per conto del governo belga, ha condotto un'indagine tossicologica volta a chiarire lo scandalo che ha coinvolto l'estate scorsa la multinazionale americana in Belgio: dunque, nessuna intossicazione, malori inesistenti, solo disturbi di origine psicosomatica per centinaia di persone in Belgio e Francia!

Il gruppo di ricercatori hanno illustrato le conclusioni del loro lavoro in una lettera pubblicata dall'autorevole rivista medica "The Lancet": i malesseri lamentati dai ragazzi non sono dovuti ad alcuna intossicazione riconducibile all'assunzione della bevanda. Trattasi, invece, di una reazione psicosomatica favorita dall'allarmismo dei mezzi di informazione e da una situazione di sfiducia complessiva in un Paese "sconvolto" dall'emergenza alimentare della diossina.

Secondo i ricercatori l'analisi condotta sulle bibite ha evidenziato sì un'alterazione dell'anidride carbonica e la presenza di un fungicida, ma in quantità assolutamente innocua! L'unico piccolo, trascurabile effetto (difetto?) che avrebbero prodotto queste alterazioni, è l'aver generato un odore nauseabondo tale da rendere la bibita quasi imbevibile. E basta!

Il resto è stata opera dei mass media (che, forse, la Coca Cola citerà per danni, chiedendo indennizzi multimiliardari), dell'ansia prodotta dalla diossina (forse è per questo che è così pericolosa, la diossina!) e, in qualche misura, anche dall'atteggiamento "reticente" della multinazionale di Atlanta nei primi giorni della crisi.

Ma analizziamo con ordine i fatti.

 

"Nessuna evidenza clinica o di laboratorio"

"La ragione per pensare che i ragazzi non erano in realtà stati avvelenati dalla Coca Cola - spiega al quotidiano italiano "Il Sole -24 Ore", il prof. Benoit Nemery, docente all'Università di Lovanio e coordinatore dell'indagine - è che non sono state trovate evidenze cliniche o di laboratorio che attestino l'evento (i loro sintomi erano assai deboli) e comunque non sono stati trovati agenti tossici capaci di spiegarli. Questo in realtà non significa che non sia successo nulla. Nella scuola dove si sono verificati i primi casi, molto probabilmente c'era qualcosa che non andava, la Coca Cola aveva cioé un cattivo gusto o un cattivo odore. Però, sono fermamente convinto che i ragazzi sono stati ricoverati solo perché "allarmati" in un contesto dove la crisi causata dalla diossina e l'ansia dovuta alla salubrità dei cibi, non lasciava scelta ai medici che hanno preferito non correre rischi".

Anche se la Coca Cola non ha rilasciato commenti sulla ricerca questa versione dei fatti "scagiona" in un certo senso l'azienda che, tra ritiro precauzionale dei prodotti e spese di comunicazione, ha speso circa 160 miliardi di lire.

Sul banco degli accusati sembrano ora restare solo i mezzi di comunicazione...

 

Un terremoto mediatico

I media infatti possono facilmente innescare una crisi o aumentarne la "magnitudo", quasi fosse un vero e proprio terremoto.

A seconda dei fattori che scatenano la crisi e la tipologia, si può costruire una sorta di "Scala Mercalli" della comunicazione:

- un primo livello, di natura tecnologica (quasi asettico, trascurabile apparentemente o forse risolvibile grazie allo stesso apparato tecnologico che ha causato il danno);

- un secondo livello, infrastrutturale;

- un terzo che coinvolge i fattori umani (siamo già ad un livello pericoloso);

- il quarto livello, che coinvolge la sfera culturale degli individui;

- ed, infine, il quinto livello, il più critico, allorchè viene intaccata la sfera emotiva e che può causare quei ben noti stati di vero e proprio "shock emotivo".

Secondo gli esperti, quanto più i messaggi che derivano da uno stato di crisi hanno connotati che interagiscono con la sfera emotiva dei consumatori, tanto maggiori sono l'impatto di una crisi e i suoi effetti negativi nel tempo.

La variabile che più genera stati di panico collettivi sembra essere la velocità dei flussi di informazione: secondo alcuni esperti di "crisis management" (divenuti sempre più necessari per le aziende in difficoltà) la "pressione mediatica" nel momento dell'emergenza è tale da costituire una sorta di "problema nel problema" che richiede un'attenta gestione.

Tra gli esperti non sono pochi quelli che, vista la mancanza di tempo "giornalistico" per andare alla ricerca della verità, suggeriscono alle aziende di assumersi la responsabilità e le colpe, anche quando non ci sono.

Ma, nei corsi di formazione per esperti di crisis management, viene studiato e preso come esempio di "emergenza evitata" il caso di tempestivo intervento di un'azienda, coinvolta in un caso di intossicazione alimentare, che riuscì abilmente a sottrarre dalla cassa di risonanza dei media l'incidente, salvandosi così dal boicottaggio dei consumatori, per poi chiarire con un'inchiesta interna, le cause dei malesseri non proprio psicosomatici accusati da cinque suoi clienti.

Ma allora, come comportarsi? Si fa ma non si dice? Oppure si dice ma non si fa?

 

Elogio della trasparenza

Nel mondo iperuranico dell'alta finanza tutti spergiurano che è "meglio parlare che tacere": questa sembra essere la "regola base" dei rapporti tra società quotate in Borsa e investitori finanziari, regola cha vale sempre (o quasi) soprattutto in caso di crisi.

Allorquando si verifica un evento straordinario che minaccia di influire sui bilanci di un azienda e/o sull'andamento del titolo, se questa è quotata in borsa, è bene che il mercato sappia con tempestività qual'è il danno, le sue dimensioni e le misure che il management intende adottare per fronteggiarlo.

Fornire al mercato tutte le informazioni necessarie: questo dovrebbe essere, per gli esperti di comunicazione, il comportamento più sensato che un'impresa dovrebbe assumere nella gestione delle emergenze.

Se così non è, se non arrivano puntualizzazioni sollecite ed esaurienti o se il mercato ha la sensazione che la società si comporti in modo poco trasparente, si formano opinioni deviate, viene meno la fiducia e ciò può avere pesanti ripercussioni sulle quotazioni del titolo che può addirittura finire sospeso per eccesso di ribasso.

Questo "dovere di informazione" (sulla cui veridicità, poi, si può anche discutere) verso il pubblico diventa però un obbligo verso gli azionisti: il passaggio chiave è spiegare alla platea degli investitori come si intende affrontare il problema che si è creato, quali strategie d'intervento ha il management e i risultati che si presumono di ottenere.

Fondamentale in questo senso è la scelta del chi comunicherà, a chi e come.

 

Il cliente ha sempre ragione?

C'era una volta... un tempo in cui si diceva che "il cliente ha sempre ragione". Questo vecchio adagio in campo commerciale viene sempre più stravolto puntando ad un guadagno immediato, alla conquista di nuovi mercati.

Nella casistica della litigiosità che contrappone sempre più spesso aziende e consumatori non è in discussione tanto la qualità dei prodotti ma piuttosto la qualità del servizio al cliente.

In questo senso molte imprese manifestano un vero e proprio deficit di comunicazione di fronte alle rimostranze del consumatore insoddisfatto: di fronte alla richiesta di spiegazioni, chiarimenti o in merito a precise contestazioni su fatti specifici a banche, produttori automobilistici, aziende di telecomunicazioni, assicurazioni, ecc. si assiste spesso all'applicazione di una strategia tristemente nota, anche ai non addetti ai lavori, come "muro di gomma".

Di fronte a ciò i cittadini, da soli o con il supporto delle associazioni dei consumatori, ricorrono sempre più spesso alla denuncia presso i mezzi di informazione (giornali, radio e televisione) e , in particolare, a quelle (rare) trasmissioni dedicate alla denuncia, al contraddittorio, ad un autentico confronto tra utente e aziende, pubbliche o private che siano.

La televisione, da un lato, è probabilmente il veicolo pubblicitario più accattivante per le grandi marche che, tramite le ingenti risorse finanziarie investite in questo mezzo, ne influenzano (se non ne determinano radicalmente) palinsesti e scelte editoriali.

Sulla base di questo rapporto le imprese, in un certo senso si sentono in diritto di avere una sorta di "trattamento di favore" tendente a minimizzare l'audience nel momento in cui notizie negative vengono a danneggiare l'immagine di un loro prodotto.

D'altra parte, la componente giornalistica dei media, richiamandosi alla libertà di informazione e all'etica professionale, ha tutto il diritto e il dovere di informare il pubblico sugli eventuali problemi che si possono verificare con i prodotti che acquistano.

Il rapporto tra queste due "anime" dell'informazione è generalmente regolato da oliati meccanismi di equilibrio basati sulla diffusione delle informazioni:

- dalle aziende verso l'interno delle redazioni attraverso l'uso di appropriati uffici stampa (che, conoscendo i meccanismi giornalistici, sanno come veicolare al meglio il messaggio);

- da parte dei media verso l'esterno solo in presenza di fatti oggettivi (interventi dell'autorità giudiziaria; grande rilevanza dell'evento per il pubblico, come nel caso delle presunte intossicazioni da Coca Cola di cui sopra).

I programmi di denuncia e/o di servizio all'utente rappresentano in molti casi una sorta di spina nel fianco per le aziende che non amano certo lavare i propri panni sporchi davanti ad un pubblico di milioni di persone.

Ecco quindi che il portavoce aziendale, nel caso l'azienda decida di partecipare al contraddittorio, dev'essere in grado sia di sostenere le argomentazioni più efficaci per convincere il pubblico televisivo della buona fede della società che rappresenta, sia di saperlo fare negli strettissimi tempi televisivi dove contano semplicità, chiarezza e comunicatività.

 

Concludendo...

Sia che si tratti di "effetto placebo" o di "effetto nocebo", resta il fatto che sempre di più l'umanità sembra in balia di condizionamenti mentali che ne inducono comportamenti caratterizzati da profonda incoscienza.

L'acquisto di oggetti, servizi e quant'altro ci prometta l'immedesimazione in un "modello" (di uomo e/o di donna, di lavoro, di vita, di svago, ecc. ecc.) offertoci dalla pubblicità che accompagna quei prodotti ha comunque un effetto temporaneo. Come la bibita di cui sopra, ci placa la sete ma tutto è studiato per farcela rivenire dopo un pò, per perpetuare la nostra dipendenza.

 

 

 

 

 

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BIOTECNOLOGIE: BANDO ALLE IPOCRISIE!

BIOTECNOLOGIE: BANDO ALLE IPOCRISIE!



Le biotecnologie sono prima di tutto un "business"!
Al di là dei nobili fini che la ricerca scientifica applicata si pone per la risoluzione di alcuni tra i problemi più gravi che affliggono l'umanità (la fame, le malattie, l'inquinamento, ecc.) lo sviluppo delle biotecnologie é, di fatto, uno tra i tanti settori dell'economia (alla stessa stregua di quelli dell'auto, della siderurgia, della componentistica, dell'elettronica, ecc.) sui quali si gioca il confronto tra grandi potenze nazionali e multinazionali, pubbliche e private, per la supremazia dei mercati.
Le aspettative nate fin dalla loro prime applicazioni ne hanno evidenziato immediatamente le ricadute economiche e le legislazioni nazionali ed il diritto internazionale hanno cercato di adeguarsi, nei tempi più brevi possibili, alla pressante richiesta da parte sia del mondo scientifico di sperimentare su vasta scala i risultati dell'applicazione delle tecnologie genetiche che di quello produttivo di "brevettare" i nuovi prodotti per assicurarsi così l'esclusiva dello sfruttamento commerciale.
La legislazione sia a livello nazionale che internazionale deve anche tener conto delle potenziali ripercussioni negative della diffusione dei prodotti delle biotecnologie, ripercussioni che non sono solo ecologiche ma anche politiche e sociali.


Biotecnologie e fame nel mondo

Uno dei "cavalli da battaglia" preferiti dei sostenitori delle biotecnologie è la loro indispensabilità nel risolvere l'annoso problema della fame nel mondo.
Ma quale nazione del Terzo Mondo potrebbe permettersi il lusso di acquistare sementi del superpomodoro che non marcisce (finora l'unica creatura commestibile dell'ingegneria genetica, in vendita da poco tempo nei supermercati americani ad un prezzo dalle 2 alle 3 volte superiore a quello dei comuni ortaggi)?
Eppure gli obiettivi della ricerca della nazione leader nella ricerca biotecnologica sono quelli di far arrivare sul mercato entro i prossimi 6 anni almeno 50 nuovi prodotti biotecnologici tra cui olii meno grassi, cereali più proteici, ostriche più appetitose, arance che non gelano, patate che assorbono meno olio e carote più croccanti!
Prodotti ad alto valore aggiunto, elaborati per lo più a fini dietetici e "cosmetici", finalizzati ad un consumatore "pigro", poco disposto a cambiare nocive abitudini alimentari e di vita e più propenso piuttosto a cambiare prodotto.
Gli svantaggi per i Paesi in via di sviluppo potrebbero essere non solo quelli legati allo sfruttamento da parte di paesi "biotecnologicamente forti" delle risorse genetiche del Terzo Mondo per la creazione di prodotti ingegnerizzati ma anche quelli legati al rischio che tali prodotti "ingegnerizzati" scaccino dal mercato quelli naturali (così come avvenuto per lo zucchero, il burro di cacao ed alcuni tipi di olii), facendo così diminuire le entrate già scarse di valuta pregiata.
In una recente rassegna sullo "stato dell'arte biotecnologica" nei Paesi in via di sviluppo (Sasson, 1989) si evidenziava la necessità, per questi Paesi, soprattutto di formazione e di educazione in questo campo più che di prodotti bioingegnerizzati, nonchè di incrementi negli investimenti pubblici e privati per attivare "in situ" laboratori e centri di ricerca.
Nei fatti si assiste però al paradosso che i geni estratti da organismi provenienti da Paesi in via di sviluppo vengono modificati, inseriti in specie ospiti per migliorare il loro rendimento e garantirsi un brevetto ed, infine, rivenduti a caro prezzo agli agricoltori di quegli stessi Paesi che quella ricchezza biologica hanno contribuito a mantenere (Shand, 1993).


Le tre generazioni

Con le biotecnologie di "prima generazione" si è riusciti ad indurre i batteri a produrre particolari molecole medicinali (la somatostatina, l'ormone dell'accrescimento umano, l'interferone, la relaxina, ecc.), per lo più materiale farmaceutico coperto da brevetti soprattutto americani, inglesi, tedeschi e francesi.
Successivamente, con le biotecnologie di "seconda generazione" i geni (segmenti di DNA che codificano polipeptidi e proteine) sono stati manipolati (tagliati, ricuciti, introdotti, trasferiti) in modo da modificare specifiche caratteristiche di piante e animali: sono nate così alcune varietà vegetali che posseggono la resistenza a specifici insetti o ad altri patogeni.
Oggi, oltre a migliorare tali tecniche ed estenderne la diffusione, stanno nascendo le biotecnologie di terza generazione: si inducono le piante a produrre molecole che mai avrebbero sintetizzato nel loro organismo, perchŠ codificate solamente nei batteri e nell'uomo.
Le prime realizzazioni sono la produzione da parte di piante di colza di leucoencefalina (un'endorfina cerebrale) e dell'albumina del siero umano.
La produzione di BHB, un poliestere utilizzato per la plastica, ottenuto finora grazie al batterio "Alcaligenes eutrophus", da parte di una piccola erbaccia spontanea (la crucifera "Arabidopsis thaliana") apre nuove prospettive all'agricoltura, destinata in  futuro a fungere da sintetizzatrice di molecole per le più varie applicazioni (chimica, medicina, energia, ambiente, ecc.).
Peraltro tale compito non appare nuovo se si pensa all'ancora quasi inesplorata "creatività chimica naturale" che caratterizza il mondo vegetale: si tratterebbe ora di far produrre alle piante anche ciò che producono batteri e uomini.


Nuova agricoltura o vecchi monopoli?

Quanto detto sopra appare certamente ancora una proiezione futura: la manipolazione genetica delle piante, trionfalmente annunciata dieci anni orsono, ha mostrato  di incontrare a tutt'oggi inaspettate  difficoltà anche dal punto di vista tecnico oltre che giuridico.
E ciò malgrado che ad appoggiare e ad esercitare talvolta in proprio l'arte manipolativa non ci fossero ricercatori pivellini e compagnie sprovvedute.
Fin dalle origini la ricerca biotecnologica è stata condotta dalle più grosse multinazionali della chimica e della farmaceutica con l'appoggio dalle migliori università del mondo.
Nel settore agricolo la chimica tradizionale, dopo un paio di secoli di "lotta" contro i sistemi naturali, ha però lasciato insoluti ancora diversi "problemini"...
La vendita associata di semi + erbicida (sementi selezionate e ingegnerizzate per la resistenza ad uno specifico erbicida, venduto dalla stessa ditta) promette agli agricoltori la certezza di liberarsi per sempre di uno dei primcipali nemici delle colture: le erbacce infestanti.
Altri nemici giurati dei coltivatori sono gli insetti: una delle più grandi multinazionali è riuscita ad introdurre un gene del batterio "Bacillus thuringiensis" nel seme di mais ottenendo così il primo granturco "ingegnerizzato" per la resistenza ad un insetto, le cui piante sviluppano  una proteina in grado di contrastare l'azione di un parassita - la piralide - causa di perdite sul raccolto annuale che possono incidere fino al 20% della produzione.
La ricerca ferve anche nel campo della difesa delle piante dall'attacco dei virus, responsabili di riduzioni del 25-35% del raccolto in modo particolare nelle Solanacee (pomodoro, patata, tabacco). Oltre alle tecnologie di micropropagazione (coltura degli apici vegetativi in vitro) in grado di ottenere piante esenti da virus, sono stati individuati due approcci genetici al problema: a) selezionare piante contenenti geni che consentano un'efficace resistenza all'attacco virale; b) produrre piante transgeniche in cui la resistenza ai virus viene indotta mediante inserimento nel patrimonio genetico vegetale dei geni responsabili della produzione dell'involucro proteico dello stesso virus.
Ma anche in questo caso siamo ancora ad un livello sperimentale: la commercializzazione su larga scala di queste nuove sementi attende però più approfondite prove in campo ed il completamento dei processi di autorizzazione alla vendita da parte delle competenti autorità.
L'enfasi sui "miracolosi effetti" e le aspettative in un rapido diffondersi dei prodotti delle biotecnologie vanno dunque temperate: la manipolazione di un organismo "primitivo" come una pianta (se confrontata con un animale o addirittura con l'uomo) per farlo adattare ad un composto chimico artificiale - per giunta, tossico per i delicati meccanismi biochimici delle cellule - oppure all'ingresso di un gene batterico, è tutt'altro che semplice.
Del resto la storia delle realizzazioni dell'ingegneria genetica in campo agricolo è finora costellata di pochi successi e più frequentemente di piccole ma significative acquisizioni soprattutto nell'esplorazione degli affascinanti misteri dei genomi di virus, batteri, vegetali ed animali.


Biotecnologie buone o cattive?

Spesso nei confronti di una nuova scoperta scientifica o di una applicazione tecnologica si attua una vera e propria battaglia da parte di schieramenti contrapposti che fanno di tutto per celebrarne gli aspetti positivi o per demonizzarne quelli negativi.
Anche in questo caso e forse più che per altre innovazioni, alte si sono levate le grida tra chi sostiene che le biotecnologie potranno risolvere gran parte dei problemi che attanagliano oggi l'umanità (fame, malattie, crisi energetica, produzione di rifiuti, degradazione dell'ambiente, ecc.) mentre i detrattori ne paventano tutti i rischi collegati alla manipolazione del patrimonio genetico di una specie, anche fosse di un microscopico batterio.
E' peraltro indubbio che senza adeguate precauzioni e stante le ancora immense lacune sulla conoscenza dei sistemi biologici la manipolazione genetica potrebbe generare situazioni di non facile gestione, soprattutto considerando le conseguenze ecologiche ed epidemiologiche che potrebbere derivare dal rilascio voluto o accidentale nella biosfera di organismi geneticamente alterati che, tra l'altro, non possono essere ritirati dal mercato come qualsiasi altro prodotto "difettoso".
Ecco che quindi l'allargamento dei "detentori di know how" biotecnologico potrebbe rappresentare un rischio reale laddove la ricerca e le applicazioni non seguissero i codici deontologici che le scienze biologiche hanno messo "a guardia" di ogni ricercatore.
Una delle preoccupazioni maggiori è che il controllo e la regolamentazione pubblica si riducono via via che il settore diventa sempre più privato e più concentrato in mano ai grandi colossi transnazionali dell'agrochimica, della farmaceutica e dell'alimentare.
Il grande business che vi è dietro le biotecnologie ha come principale obiettivo il profitto che, si sa, non è sinonimo di etica.
La pressante richiesta da parte delle multinazionali di avere un sistema unificato di brevetti che permetta loro di ottenere la proprietà privata delle forme di vita geneticamente modificate
rappresenta per milioni di agricoltori dei Paesi in via di sviluppo uno "shock culturale" in quanto trasforma le risorse biologiche da beni comunitari in merci.


Conclusioni

L'ingegneria genetica si trova quindi a dover affrontare oltre ai problemi più strettamente tecnologici, legati alle ancora scarse conoscenze umane sui sistemi biologici e sulla vita, anche quelli non meno fondamentali dei valori e dei fini che presiedono all'organizzazione sociale, al cambiamento tecnologico e alla definizione delle priorità di sviluppo.
In realtà sarebbe indispensabile che su questi problemi che determineranno il nostro futuro prossimo fossimo tutti informati e attenti: l'uomo di oggi rischia sempre più di essere considerato dal sistema produttivo solo un consumatore acritico di beni e servizi.
L'informazione genetica che le biotecnologie manipolano per migliorare la qualità della vita è un prodotto del nostro tempo; la manipolazione dell'informazione è anch'essa "tecnologia" sofisticata, seppur più "datata", ma dalla quale dovremo sempre più difenderci per assicurare alla nostra vita intellettiva quella libertà di scelta che solo una conoscenza a 360 gradi delle cose può consentirci.


Bibliografia

Sasson A., 1989. Biotechnologies and developing countries: present and future. In: A. Sasson and V. Costarini (Editors), Plant biotechnologies for Developing Countries. Technical Centre for Agriculture and Rural Co-operation and the Food and Agriculture Organisation of the United Nations.

Shand H., 1993. Agbio and Third World Development. Bio/Technology, 11: 513.

Mannion A.M., 1995. Agriculture, environment and biotechnology. In: Agriculture, Ecosystems and Environment 53 (1995) 31-45.

Shiva V., 1995. Monocolture della mente - Biodiversità, biotecnologia e agricoltura "scientifica". Bollati Boringhieri.


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