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Maldive

(tratto dalla Rubrica radiofonica quotidiana "Un altro giorno" di Vittorio Schiraldi - RadioUno Rai in onda alle ore 5,15 - Puntata del 17 novembre 2008)

 Prima o poi dovremo dire addio alle Maldive poiché, per via dell’effetto serra, le 1192 isole dell’arcipelago, ormai da anni paradiso dei turisti di tutto il mondo, sono destinate a scomparire,sommerse dalle acque dell’oceano. C’è chi dice che scompariranno fra trenta, chi tra cinquanta e chi invece , molto ottimisticamente pensa che non potranno che scomparire fra novanta anni, visto che lo scioglimento dei ghiacci polari impiegherà poco meno di un secolo per cancellare atolli che si innalzano sul livello del mare da un metro e mezzo ai due metri.
L’allarme è stato lanciato dallo stesso presidente maldiviano il quale, dopo avere affermato che non si può fare nulla per scongiurare questa autentica catastrofe ecologica, ha fatto sapere che utilizzerà parte dei soldi che costituiscono i proventi di una più che prospera attività turistica, per comprare nuove terre per i trecentomila abitanti dell’arcipelago, e quindi sta dando un’occhiata intorno per farsi un’idea del Paese nel quale potrebbe essere trasferita la sua gente, un paese che per cultura, cucina e clima possa essere considerato compatibile con le Maldive.
Di conseguenza si starebbe orientando per indirizzare la sua ricerca in India o nello Sri Lanka , tralasciando l’ipotesi di una emigrazione di massa in Australia dove lo spazio non manca ,ma dove le auspicabili compatibilità con il popolo maldiviano sono piuttosto scarse.
A questo punto c’è chi sostiene che l’allarme del presidente maldiviano non solo sia esagerato, ma abbia come reale obiettivo quello di lanciare una efficace campagna promozionale che dovrebbe servire ad incrementare il numero di turisti intenzionati a trascorrere una vacanza in una delle isolette dell’arcipelago, prima che sia troppo tardi, prima che il previsto innalzamento delle acque finisca per farle inghiottire dal mare.
Ora io non dico che questo non possa essere un obiettivo preso in esame dal presidente maldiviano, al tempo stesso, però, non mi sento di escludere che nel suo annuncio non ci sia la reale preoccupazione nei confronti del suo popolo, e di conseguenza il ventilato impegno a procurargli una nuova patria.
Vado da una trentina d’anni alle Maldive , di solito nel corso delle vacanze di Natale o a metà di febbraio, quando il clima è ancor più rassicurante e si vive quindi in piena estate senza nemmeno il rischio dei soliti acquazzoni equatoriali, e devo dire che nel corso degli anni mi è capitato spesso di cogliere nei maldiviani il presagio, se non proprio la consapevolezza, di trovarsi a vivere un’esistenza resa precaria non dalla loro povertà ma dagli elementi naturali con i quali potrebbero trovarsi a fare i conti.
Ero lì quando lo tsunami arrivò all’improvviso ad Aturuga nel giorno successivo al Natale devastando il villaggio turistico nel quale trascorrevo le mie vacanze. Ricordo la paura di tutti quando il mare, dopo essersi ritirato per una cinquantina di metri dalla riva, lasciando allo scoperto il fondo scoglioso nel quale si dibattevano i pesci, privati all’improvviso del loro elemento, inaspettatamente si era sollevato sopra la linea del nostro orizzonte, prima di avanzare minaccioso, annunciato da un brontolio sempre più cupo e agghiacciante , sovrastando il pontile e irrompendo sulla riva, dove tutti ci stavamo dando alla fuga , arrampicandoci sul tetto dei bungalow per non venire spazzati via.
Ebbene, se noi turisti eravamo spaventati, i maldiviani parevano addirittura terrorizzati, mentre lo stesso capo villaggio maldiviano, forse non rendendosi conto che in quel momento avremmo apprezzato una pur pietosa bugia , mentre l’acqua continuava a salire, non si limitava a dire che la sua isola stava correndo il rischio di essere inghiottita dal mare, ma vi aggiungeva addirittura il timore che forse sarebbe stata risucchiata da una sorta di scuotimento tellurico.
La cosa, ovviamente, non si verificò, visto che sono qui a parlarvene, ma in me, nelle ore successive al lento ritirarsi delle acque, e prima di venire evacuato in un’altra isola, dove avevo chiesto di essere portato,si maturarono almeno un paio di consapevolezze diverse , pur se collegate tra loro.
La prima nasceva proprio dal terrore che avevo visto sul volto del capo villaggio di fronte al sospetto che la sua isola fosse ormai arrivata al capolinea di una fine, annunciata probabilmente da paure ataviche. La seconda consapevolezza, che poi mi aveva indotto a farmi trasferire fatalisticamente su un altro atollo, nel villaggio di Todufushi , appena lambito dallo tsunami, riguardava la quasi certezza che prima o poi qualunque paradiso in terra, ivi compreso quello maldiviano, risulterà destinato a scomparire. Quindi non restava che approfittarne prima di illudersi di riuscire a conquistarlo in tutt’altro mondo.
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Resta comunque il fatto che quello del popolo malvidiano è comunque uno strano destino. Si è trovato a vivere in un posto incantevole, definito da tutti un paradiso, ma senza poterne usufruire come abbiamo sempre fatto noi turisti, ossia vivendo in quelle isole da ospiti e non da pescatori o addetti alle pulizie. Poi un giorno la natura provvederà al resto e, in un tempo più o meno remoto, i maldiviani si troveranno ad essere quasi scacciati da quel paradiso di cui non hanno fatto in tempo a godere.
E questa considerazione mi ripropone una riflessione attraverso la quale credo che andrebbero meglio valutate le diversità tra popoli con differente livello di civiltà e benessere. Una riflessione che, pur partendo da ciò che potrà accadere alle Maldive, mi spinge ad allargare il discorso estendendolo, in termini molto più generali, all’atteggiamento che molta gente riserva a popoli che ritiene in un certo qual modo subalterni solo perchè provenienti da realtà diverse dalla nostra.
Una riflessione che mi spinge ad osservare che spesso, dietro tanti atteggiamenti razzistici nei conforti di popoli giudicati inferiori al nostro, c’è non solo la mancata consapevolezza che il nostro livello di civiltà è direttamente collegato alla fortuna di nascere in un posto piuttosto che in un altro, ma c’è soprattutto il non volersi rendere conto che nascere in Svizzera invece che nel Darfur non è assolutamente merito nostro, e pertanto non dovremmo mai vantarci del nostro livello evolutivo come di quei privilegi dei quali siamo stati il più delle volte passivi beneficiari.
Già, spesso ci vantiamo del nostro grado di civiltà, ma in realtà mentre ce ne mostriamo orgogliosi, pensiamo semplicemente ai risultati raggiunti dal progresso scientifico e tecnologico, e quindi ai benefici che da esso si riversano nell’organizzazione della nostra vita pratica quasi esclusivamente perché ci troviamo a vivere in un contesto che ci consente tutto ciò. Di conseguenza , mentre esaltiamo il livello della nostra civiltà e critichiamo le condizioni di chi è cresciuto in una realtà diversa dalla nostra, dimentichiamo che la tolleranza e quindi il rispetto della diversità altrui sono i primi presupposti di una società che vuole essere civile.
Vittime e al tempo stesso protagonisti di questo colossale equivoco culturale ci troviamo quindi sempre più spesso indotti a scoprire l’acuirsi di dissidi scaturiti dalle forme più diverse di intolleranza che rendono sempre più difficile la convivenza pacifica tra i popoli, ognuno dei quali vantando la propria superiorità, ma al tempo stesso facendo professione di intolleranza verso gli altri, dimostra quanto cammino ci sia ancora da compiere sulla strada dell’evoluzione non del costume , ma delle idee e dello spirito.
Nei suoi Saggi, redatti quasi alla fine del 1500 e che costituiscono una sorta di Bibbia laica nella quale raccolse i suoi pensieri, un grande moralista e scrittore come il Montaigne, dedica una riflessione a coloro che ai suoi tempi venivano definiti selvaggi, ossia gli abitanti di quei paesi del nuovo mondo scoperti poco meno di un secolo prima. E’ una riflessione che conserva una sua evidente attualità e che può costituire riferimento certo per quanti, ai nostri giorni, non mostrano di tenere in gran conto l’identità culturale di popoli semplicemente diversi, ma che si viene tentati di definire inferiori solo perché hanno seguito un percorso evolutivo che non corrisponde al nostro.
Scriveva quindi il Montaigne: “ Io ritengo che non vi sia nulla di barbaro e di selvaggio in quelle popolazioni….La realtà è che ognuno definisce barbarie quello che non è nei suoi usi…Essi sono selvaggi allo stesso modo in cui noi definiamo selvatici i frutti che la natura ha prodotto da sé nel suo naturale sviluppo. Laddove, in verità, dovremmo piuttosto definire selvatici quei frutti che noi abbiamo adulterato artificiosamente, distorcendo l’ordine comune.
In effetti, nei prodotti di quei Paesi , sono vive e forti le vere, più utili, e naturali virtù e proprietà che noi abbiamo finito per imbastardire soltanto per adeguarle al nostro gusto corrotto”.
E’ un’autocritica indubbiamente severa quella del Montaigne ma che sembra gettare le basi di una nuova e moderna filosofia della vita che dovrà faticare parecchio per farsi strada. In cinque secoli, infatti, sembra averne fatto pochina.

 Vittorio Schiraldi

Note biografiche: http://it.wikipedia.org/wiki/Vittorio_Schiraldi

Il sito dell'Autore: http://www.vittorio.schiraldi.it/

 

 

 

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