IL “POPOLO GENTILE”

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Serviranno delle pillole contro l’obesità a salvare i Boscimani dall’estinzione?

Il giorno che moriremo una lieve brezza cancellerà le nostre impronte sulla sabbia.
Quando calerà il vento chi dirà nell’eternità che una volta camminammo qui, all’alba del tempo?
(poesia boscimane)


Un cactus originario della regione del deserto del Kalahari, nell’Africa meridionale, utilizzato dalla tribù boscimane dei San per placare la fame durante le lunghe battute di caccia, verrà utilizzato per produrre un rimedio contro l’obesità. Il cactus Hoodia, che può raggiungere un’altezza di circa 180 centimetri, contiene un principio attivo che, come dimostrato dalle ricerche, potrebbe ridurre l’appetito, e quindi l’apporto calorico giornaliero, addirittura di 2.000 calorie.
Tale rimedio è stato originariamente brevettato dal Consiglio sudafricano per la ricerca scientifica e industriale (CSIR) e concesso in licenza alla società britannica Phytopharm. Il gigante farmaceutico Pfizer è attualmente impegnato nella produzione di una pillola basata su questa pianta - denominata P57 - che l’azienda auspica possa tenere lontano i morsi della fame, esercitando un enorme impatto sul mercato mondiale dei prodotti dimagranti, il cui valore si aggira attorno ai 6 miliardi di Euro. Più di 100 milioni di persone in tutto il mondo sono considerate a rischio di disturbi legati all’obesità, come le cardiopatie e il diabete. Pfizer si augura che il nuovo rimedio, già testato su volontari sani in Gran Bretagna, possa essere disponibile sotto forma di pillole a partire dal 2007.
Phytopharm e il CSIR hanno ricevuto pesanti critiche per aver concluso accordi finanziari volti allo sviluppo del farmaco, senza interpellare la tribù San, le cui tradizionali conoscenze hanno condotto alla scoperta delle proprietà antiappetito della Hoodia. Il presidente e direttore generale di Phytopharm, Richard Dixey, si è giustificato affermando di ritenere che questo popolo nomade fosse ormai estinto. Dopo aver scoperto che circa 100.000 San vivono ancora in Angola, Sudafrica, Botswana e Namibia, è stato siglato un accordo in base al quale la tribù boscimane riceverà una percentuale dei profitti derivanti dalla vendita del farmaco.
L’esistenza stessa della tribù San era da tempo messa in discussione, poiché la dispersione del popolo e la mancanza di opportunità rappresentano una concreta minaccia di estinzione. In base al nuovo accordo, si spera di generare milioni di Euro l’anno per finanziare programmi di istruzione e creare posti di lavoro, nonché per consentire ai San di acquistare della terra. Tutto ciò dovrebbe garantire un futuro migliore per la tribù e per quanti potranno trarre beneficio dal nuovo farmaco. Per un motivo o per l’altro, sembra proprio che la sopravvivenza dei San debba molto alle speciali proprietà del cactus Hoodia.
Forse qualcuno potrà dubitare della buona fede del presidente e direttore generale della Phytopharm ma... chi conosce davvero questi “selvaggi” che molti “interessati” vorrebbero in via di estinzione?


Boscimane? Chi era costui?

Uomini del bush (boscaglia): questo significa “bosjemans”, il vocabolo boero che da tre secoli si utilizza per indicare i San, probabilmente il gruppo etnico più antico dell’Africa australe che popolava dal Capo di Buona Speranza fino all’Angola e alla Rhodesia.
Tradizionalmente nomadi, erano i signori incontrastati delle savane in cui vivevano di caccia e raccolta di radici, miele e frutti selvatici. Non avevano capi, moneta, proprietà privata. Nel deserto furono costretti a ritirarsi quando altre popolazioni di allevatori e agricoltori invasero le loro terre.
Il sistema sociale dei boscimani è molto particolare: come detto non esistono capi, le decisioni vengono prese collegialmente e le donne partecipano attivamente alle discussioni. Gli individui possiedono solo pochi oggetti personali, i beni appartengono alla comunità. La solidarietà per questo popolo è un principio fondamentale: i frutti della caccia e della raccolta vengono distribuiti tra tutti e di quanto viene raccolto nulla viene sprecato.
Del resto, per popoli la cui sopravvivenza dipende strettamente dalla conoscenza e dalla integrità dell’ambiente in cui vivono, l’ecologia non è un “lusso”... Ciò è tanto più vero per i popoli nomadi. Suddivisi in gruppi di trenta o quaranta persone, quando nel deserto trovano un albero carico di frutti, smettono per un po’ di tempo il loro vagabondaggio e costruiscono delle capanne provvisorie nella steppa sabbiosa.
Tra le caratteristiche più “sorprendenti” dei boscimani va ricordata senz’altro una formidabile conoscenza della natura, dei fenomeni fisici e biologici. Ma anche nozioni approfondite di medicina, botanica ed etologia. Dalle tracce lasciate sul terreno riescono a determinare il sesso, l’età, la velocità di spostamento e altre informazioni cruciali su un animale.
I boscimani vivono nell’ambiente, non lo dominano: sono predatori e prede, adattati (o costretti) a vivere in condizioni estremamente difficili, dove l’acqua è la risorsa più importante e più incerta. Per conservarla si utilizzano uova di struzzo: riempite d’acqua, vengono distribuite sul territorio e utilizzate come serbatoi d’emergenza nei periodi di maggiore siccità. Le donne raccolgono ben 105 specie di piante e, quando capita, anche serpenti commestibili, insetti, bruchi, uova di uccelli, miele, tartarughe, piccoli roditori. Di ogni pianta conoscono il valore nutritivo, le proprietà medicinali, la possibile utilizzazione come veleno, come cosmetico. Delle prede abbattute i boscimani non sprecano assolutamente nulla: dalle parti commestibili fino ad arrivare alle pelli e alle ossa tutti trovano vari impieghi, come nel caso della vescica (è usata come contenitore) o dell’intestino (è usato come corda). Non si spreca nulla neanche nel regno della natura: un cacciatore non ammazza più del necessario, neppure se si trova di fronte a un intero branco di animali. Le donne non raccolgono mai le piante fino al loro esaurimento, per non compromettere il futuro raccolto.
I boscimani, insomma, sono uno dei pochi popoli della Terra che ha vissuto per millenni in un ambiente senza deteriorarlo o comunque cambiarlo, integrando... “cultura e natura”.


Un po’ di storia etnologica

I boscimani (San) fanno parte del gruppo etnico dei Khoisan insieme a coloro che venivano un tempo chiamati ottentotti (Khoi).
Sono caratterizzati da tratti somatici ben diversi dai neri di origine Bantu: sono molto più piccoli di statura ed hanno carnagione giallo-bruna. Gli uomini sono magri e le donne sono grasse con sopracciglia folte: sono bassi (la loro statura oscilla tra 1,40 e 1,60 metri), di carnagione giallo-rossastra, zigomi alti con gli occhi allungati come quelli dei mongoli, i capelli neri e ricciuti disposti “a grani di pepe”, la pelle raggrinzita solcata da rughe profonde.
Parlano lingue curiose, caratterizzate da affascinanti successioni di schiocchi metallici e suoni scoppiettanti prodotti dalla lingua contro il palato, peraltro ormai quasi svanite: un patrimonio tramandato oralmente, ricchissimo di leggende, canzoni, danze rituali. Nonostante la grande quantità di gruppi e clan, con i loro relativi dialetti, i popoli Khoisan sono accomunati da credenze religiose, riti, definizione di parentela e abitudini simili.  

Già ventimila anni fa (Tarda Età della Pietra) gruppi di cacciatori-raccoglitori, progenitori degli attuali boscimani, abitavano tutta l’Africa meridionale. Grazie al loro nomadismo e alla loro abilità nel procurarsi il cibo, i piccoli uomini dalla pelle giallo-bruna e dagli zigomi pronunciati erano in grado di far fronte a condizioni climatiche estreme. La splendida arte rupestre che hanno lasciato ne è testimone: la storia di questo popolo è scritta nella roccia. I piccoli signori delle savane hanno infatti lasciato straordinarie testimonianze della loro presenza millenaria, dipingendo sulle pareti granitiche delle caverne (dove abitavano in piccoli gruppi) o lasciando incisioni sui massi delle pianure australi.
Le loro stupende pitture sono state scoperte in Tanzania, in Etiopia, in Uganda e nel Sudan meridionale, insieme ad alcuni dei loro manufatti, quali per esempio le sfere di pietra forata ancora in uso per appesantire le zappe. Alcune di queste opere risalgono a oltre 25 mila anni fa e sono autentici cimeli di uno stupefacente museo della storia, grazie ai quali gli studiosi hanno potuto ricostruire (almeno in parte) le radici più antiche e profonde della civiltà del Kalahari.
Con l’Età del Ferro (duemila anni fa), l’introduzione del bestiame domestico ad opera di etnie Bantu giunte da Nord, dalla corporatura più possente e dal temperamento meno remissivo, fece convertire i nomadi in pastori semi-nomadi, soprattutto nelle aree costiere dell’attuale Sud Africa. Questi si chiamavano Khoikhoi (“gente vera”, da Khoe = persona) per distinguersi dai gruppi rimasti cacciatori, che non possedevano bestiame, che i pastori chiamavano San (“l’altra gente”).
Al loro arrivo, i colonizzatori europei chiamarono i Khoikhoi “ottentotti”, e i San “bushmen” (boscimani). Quest’ultimo era un termine dispregiativo, riferito a persone che si sostentano con quello che trovano nel bush (la boscaglia).
Khoikhoi e San, che hanno dunque un’origine genetica comune, vengono tuttora considerati rispettivamente “pastori” e “cacciatori-raccoglitori”, ma gli antropologi ormai tendono ad adottare il termine Khoisan per abbracciare tutti i gruppi: nonostante siano frazionati in numerosi clan, con i loro relativi dialetti, i popoli Khoisan sopravvissuti sono infatti accomunati da credenze religiose, riti, definizione di parentela e caratteristiche fisiche simili.
Con l’arrivo dei popoli Bantu dal Nord e, nei secoli più recenti, degli europei, i Khoisan hanno perso la possibilità di rimanere nomadi o seminomadi, e in generale indipendenti.
I veri problemi cominciarono due secoli fa, allorché i primi coloni olandesi penetrarono nella regione, confiscando pozzi, terre e selvaggina. I San, trattati alla stregua di animali, furono cacciati a fucilate, catturati e costretti a lavorare come schiavi nelle fattorie dei bianchi. Molti morirono a seguito di micidiali epidemie di vaiolo e morbillo. Fu un autentico genocidio.
I conflitti e le malattie hanno decimato le loro popolazioni, i superstiti sono stati forzatamente “integrati” nell’economia agricola delle colonie, soprattutto in qualità di servitori. Alcuni si sono congregati intorno alle missioni dove era possibile continuare ad esercitare la pastorizia.

 


XX secolo: cultura e uomini a rischio di estinzione

L’erosione dei gruppi, la mescolanza con altre etnie e, nel ventesimo secolo, la segregazione in zone a loro assegnate, hanno portato i Khoisan alla perdita dell’identità e del patrimonio culturale originario.
La documentazione delle lingue, delle narrazioni orali e del sapere tradizionale, costituiscono l’eredità culturale dei boscimani. Molti studiosi occidentali e sudafricani hanno portato alla nostra conoscenza questo patrimonio, nelle facoltà di antropologia e affini; ma gli stessi Khoisan, che non hanno fini accademici, sono solo recentemente divenuti tragicamente consapevoli del rischio che la loro cultura corre di scomparire.
A partire dagli anni ‘90, finalmente, i cambiamenti sociali del Sud Africa e della Namibia hanno favorito la presa di coscienza e l’inizio del riscatto dei Khoisan. Alcune organizzazioni erano già nate grazie all’intervento di antropologi stranieri, altre sono sorte in anni recenti, volute e animate dagli stessi boscimani. Ha preso corpo, così, un vero e proprio movimento per i diritti dei Khoisan, articolato in molti progetti che fanno capo ad una organizzazione-ombrello, WIMSA.
I Khoisan sono impegnati a migliorare la qualità della loro vita, a rivendicare i diritti sulle loro terre di appartenenza, a guadagnarsi il rispetto degli altri popoli dell’Africa e del mondo, a mantenere viva la loro tradizione culturale ma a forgiarne anche una moderna. Infatti, mentre gli anziani boscimani considerano fondamentale la loro antica cultura, in molti casi i loro figli vorrebbero occidentalizzarsi, e nessuno ha il diritto di impedirglielo. Solo considerando i boscimani come civiltà viva, attiva e in trasformazione, si dà loro una chance di inserirsi nel mondo di oggi con pari dignità. Non considerandoli una civiltà in via di estinzione.


I boscimani oggi

I San sono ormai coscienti del fatto che la perdita del rapporto con la loro terra significa anche la distruzione del loro singolare sistema di vita e la scomparsa definitiva delle loro conoscenze circa la sopravvivenza nel deserto.
Oggi i boscimani sono circa 90 mila: la metà sta in Botswana, tra il deserto del Kalahari (grande come la Francia) e le paludi dell’Okavango; il resto vive in Namibia (38000), Angola (6000), Sud Africa (4500), Zambia (1600), Zimbabwe (1200). Solo poche centinaia - appartenenti prevalentemente alle tribù Gana e Gwi - sono riusciti a mantenere uno stile di vita tradizionale, in gran parte auto-sufficiente, in cui la caccia e la raccolta rivestono un ruolo centrale e le esercitano ancora in settori inaccessibili del Kalahari.
Attualmente la maggior parte dei boscimani non vive più della caccia, come tradizionalmente dovrebbe essere, ma ha iniziato a coltivare mais e miglio, e a tenere capre, asini e cavalli. Sradicati dalla loro terra, molti boscimani dipendono completamente dall’elemosina del governo, la disperazione ha comportato l’alcolismo e di conseguenza una totale miseria. Sono costretti a vivere in squallidi insediamenti costruiti appositamente per loro dove ricevono misere sovvenzioni dallo Stato, ma dove non è possibile cacciare né raccogliere. Lavorano sottopagati in allevamenti e miniere (alcune ragazze si prostituiscono). A tanti non resta che mendicare e ubriacarsi.
Come detto, dagli anni ‘90 i cambiamenti sociali dei paesi vicini (Sud Africa e Namibia) hanno favorito la presa di coscienza e l’inizio del riscatto dei discendenti dei San, mentre in Botswana (dove sono più numerosi) la loro situazione rimane grave. Per questo nel 1986 è nato il Kuru Development Trust, per fornire assistenza ai boscimani un tempo nomadi e ora divenuti stanziali per lavorare nei ranch dei boeri discendenti dai colonizzatori.
L’organizzazione Kuru (che significa ‘farè) è cresciuta fino a consolidare con altri enti del subcontinente un vero e proprio movimento pro-San, a cui fanno capo anche i boscimani/khomani del Sud Africa. Oggi Kuru sviluppa progetti di autosostentamento presso le comunità più emarginate, ed è diretto da boscimani scelti tra i villaggi che partecipano ai progetti con gruppi di lavoro. Le attività vanno dall’allevamento di ovini, caprini e asini, alla coltivazione di funghi e frutta.
Dal 1990, grazie alla creazione di un laboratorio d’arte, si sta affermando uno stile di arte contemporanea boscimane che ha già ricevuto molti riconoscimenti internazionali. Oggi le loro mostre colorate stanno girando il mondo, affermando il loro messaggio di appartenenza al Kalahari, il vasto territorio di wilderness che occupa parte dell’Africa meridionale.
Una coalizione di ONG locali sta attualmente conducendo trattative con il governo del Botswana (e una campagna internazionale) al fine di indurlo a riconoscere il diritto dei boscimani a vivere nel Kalahari centrale: lo scopo è di ottenere terra per i San, con il procedimento di “reclamo delle terre” analogo a quello in atto in Sud Africa.
Un ente-ombrello sorto recentemente su richiesta dei San di cinque paesi dell’Africa meridionale (WIMSA) elabora anche progetti di sviluppo adatti alle specifiche comunità. In Italia questi progetti sono appoggiati e fatti conoscere dall’associazione culturale Heritage, eletta dai leader San in assemblea come “gruppo di supporto dall’Italia e portavoce”.
Il grande problema di questo popolo non è stato solo quello di aver loro progressivamente negato l’accesso alle risorse naturali (da cui dipende la loro esistenza così interconnessa con i ritmi della natura), ma anche che la loro dignità è stata mortificata da tutti i gruppi etnici del subcontinente.
Le autorità considerano i boscimani “primitivi”, “essere inferiori”, “fermi all’età della pietra”, e li disprezzano per la loro diversità... In realtà si tratta di un popolo tenacemente attaccato alle proprie radici e alla propria indipendenza, che nonostante secoli di violenze, continua a resistere. Un popolo fiero, nobile, che non finisce di affascinare e stupire gli studiosi.


Zoo umano o turismo etico?

Esistono numerosi progetti di promozione turistica delle terre boscimani: politici e affaristi spingono per fare spazio a nuovi lussuosi lodge destinati a turisti danarosi. I boscimani più fortunati (si fa per dire!) sono stati arruolati da impresari senza scrupoli che li hanno trasformati in attrazione turistica. Li hanno sistemati in apposite capanne costruite nei pressi di bungalow lussuosi e hanno stampato le loro immagini su depliant che pubblicizzano “emozionanti visite ad un vero villaggio preistorico”.
A lanciare l’idea dell’etno-show è stato un sudafricano, Peter De Waal, proprietario della riserva naturale di Kagga Kamma (260 km a nord di Città del Capo). In questa riserva, De Wall ha radunato un piccolo gruppo di boscimani che un tempo viveva (tutt’altro che bene, a dire la verità) nel Parco Gemsbok Kalahari, ai confini con il Botswana. Gli ha offerto un rifugio dignitoso e un buon stipendio. I boscimani se lo guadagnano mostrando ai visitatori antiche pitture rupestri, confezionando ornamenti e facendo finta di prepararsi alla caccia con arco e frecce. Per una manciata di monete, rispolverano i perizoma di pelle e si mettono in posa per le foto. “Fermi così, sorridete, non guardate verso l’obiettivo”, si sentono ripetere tutti i giorni. Alla sera, su richiesta, possono anche mettersi a ballare: cantano e saltellano attorno al fuoco, con i tradizionali sonagli legati alle caviglie, illuminati dai flash dei turisti.  

Per evitare che escano dalla storia, seppur col loro inguaribile sorriso, qualcuno si sta muovendo per il loro riconoscimento come popolo e per ottenere una rappresentanza a livello politico e governativo: è John Hardbattle, figlio di una san e di un poliziotto scozzese, che si impegna da anni come interprete e difensore della cultura boscimane. È proprio con lui che è possibile provare un’esperienza unica al mondo: vivere con i boscimani nella Central Kalahari Game Reserve, imparando da loro tutto quello che rischia di andare perso per sempre. Dal 23 al 28 giugno, dal 28 giugno al 3 luglio e dal 3 all’8 luglio, Hardbattle si fa guida per un ristretto numero di persone (dieci per ogni turno) disposte a scoprire il san che c’è in loro. Gli ospiti dormono in tende mobili perfettamente attrezzate e mangiano ottimi pasti in stile occidentale, ma per il resto vivono a stretto contatto con i boscimani. Sperimentando, con gli uomini, la fabbricazione di archi e frecce, l’osservazione delle impronte, la caccia, la preparazione di medicine vegetali; e, con le donne, la raccolta delle piante, la lavorazione dei gusci delle uova di struzzo per farne utensili e gioielli, la concia e la tintura delle pelli. Nei tramonti infuocati e nelle notti stellate, canti e danze sprofondati nella magia del Kalahari.
I profitti di questa iniziativa saranno devoluti per l’acquisizione di terre per le comunità boscimane del Botswana.

 


Caccia proibita e acqua negata

Recentemente il governo del Botswana ha deciso di sgomberare i loro villaggi e deportare le comunità lontano dalle terre in cui hanno vissuto finora. “Sono uomini selvaggi” - dicono le autorità - “bisogna civilizzarli e integrarli al resto della società”. Con questo pretesto li si fa sloggiare dalla Central Kalahari Game Reserve, un’ampia zona protetta - una delle più grandi riserve naturali d’Africa - creata negli anni Sessanta proprio per tutelare i boscimani e gli animali da cui dipendevano. Il governo ha provato a convincere gli indigeni a spostarsi promettendo loro scuole, assistenza sanitaria, lavoro, piccoli appezzamenti di terra, bestiame e denaro contante (promesse quasi mai mantenute). In pochi però hanno risposto all’offerta. Così ha pensato di limitare in ogni modo la caccia, da cui dipende la sopravvivenza delle tribù, appellandosi alla necessità di conservare la fauna.
Poco importa se i boscimani hanno vissuto di caccia per secoli senza mai ammazzare un solo animale di troppo, poco importa se nessuna specie da loro cacciata è in pericolo di estinzione. Gli indigeni accusati di aver superato la quantità di cacciagione consentita (tre antilopi per persona all’anno) sono stati imprigionati e torturati dai funzionari del dipartimento faunistico: l’associazione boscimane First People of the Kalahari ha raccolto testimonianze di gente percossa, gettata a terra, minacciata col fuoco, legata per i piedi al paraurti delle auto. E le intenzioni del governo non sono neppure troppo velate: recentemente un ministro del Botswana, Margaret Nasha, ha paragonato la questione dei Boscimani a quella degli elefanti. “Tempo fa - ha spiegato in TV- abbiamo avuto un problema simile quando volevamo eliminare un certo numero di pachidermi...”.
Ultimamente, per intimidire le comunità e sollecitare gli sfratti, la polizia non ha esitato a penetrare con la forza nelle abitazioni dei boscimani, usando violenza su uomini e donne. Ma non è bastato: centinaia di persone hanno opposto resistenza e si sono rifiutate di lasciare le loro terre per “rimanere vicino alle tombe degli antenati”. Allora il governo ha deciso di giocare la sua ultima carta: a marzo di quest’anno ha ordinato la sospensione dell’approvvigionamento d’acqua ai villaggi delle tribù Gana e Gwi. In pochi giorni ha chiuso l’unico pozzo, smantellato la pompa, bloccato i rifornimenti con l’autocisterna. Lo ha fatto con la scusa di non poter sostenere i costi della fornitura d’acqua (3,28 euro per persona a settimana). Una scusa, appunto: il Botswana è il più grande esportatore di diamanti al mondo, una delle nazioni africane più ricche, e potrebbe permettersi la spesa senza problemi. Ma volendo, potrebbe anche evitare di usare i suoi soldi perché l’Unione Europea si è offerta di finanziare l’approvvigionamento. A tutt’oggi, però, il Botswana ha accuratamente ignorato la proposta.


Il business dei diamanti

Perché? Per quale motivo il governo è tanto interessato a far sloggiare i boscimani dalle loro terre ancestrali? “Probabilmente per potersi dedicare con tranquillità allo sfruttamento dei giacimenti diamantiferi presenti nella regione” spiega Francesca Casella, rappresentante dell’associazione Survival International. Con l’uso di misure repressive il governo del Botswana tenta di cacciare gli ultimi boscimani dal parco nazionale nella zona centrale del deserto del Kalahari, in modo da poter sfruttare indisturbatamente le ricche risorse di diamanti presenti nella zona.
Nel febbraio del 2002 circa 1.100 San (boscimani) vivevano ancora nel parco, grande 52.000 km2. Poi, come detto, il governo ha semplicemente tolto l’acqua: con la scusa della lunga siccità, tutte le riserve d’acqua sono state svuotate e le pompe smontate. Agli indigeni non è rimasta altra possibilità che trasferirsi in uno dei 63 villaggi d’evacuazione situati al di fuori della zona protetta. In Botswana ci sono circa 50.000 boscimani, ma grazie a questa campagna di trasferimento forzato, iniziata 17 anni fa, all’interno del parco vive ormai solo qualche dozzina di San.
La multinazionale De Beers, numero uno al mondo nel settore dei diamanti, ha già ottenuto importanti concessioni nella Riserva del Kalahari: ha già investito 32 milioni di euro per le prime trivellazioni di prova sul territorio tradizionale dei San. I boscimani si sono appellati all’Alta Corte di Giustizia del proprio paese. Chiedono che la Corte dichiari incostituzionale il loro trasferimento forzato e confermi i loro diritti territoriali. A causa di un errore di forma, la querela di 248 boscimani è stata respinta il 19 aprile scorso, ma poi riammessa a metà luglio grazie ad un processo d’appello.
In molte parti del mondo, i diritti dei popoli indigeni vengono tuttora disattesi o messi in discussione, non appena si scoprono risorse preziose sui loro territori. Numerose organizzazioni non governative si impegnano da anni affinché il numero più alto possibile di Stati firmi e ratifichi la Convenzione ILO (International Labour Organisation) 169, finora l’unico accordo internazionale che possa proteggere e dare voce ai diritti di circa 300 milioni di indigeni nel mondo. La ILO 169 fissa i diritti elementari degli indigeni, quali il diritto alla propria terra, ai propri stili di vita, al mantenimento della propria cultura e lingua. Anche l’Italia e la Germania fanno parte dei paesi che non hanno ancora firmato l’accordo.


Quale futuro per gli ultimi “selvaggi”?

Le Nazioni Unite hanno dichiarato il periodo 1995-2005 ‘Decennio dei Popoli Indigeni’, riconoscendo anche che, più degli altri, i popoli indigeni sono custodi di un’eredità che ha urgenza di essere protetta: la Natura, poiché da essa dipendono molto più di noi, che abbiamo forgiato il territorio per assecondare le nostre esigenze.
Quello che i boscimani desiderano (così come altri popoli indigeni e chiunque altro essere umano su questo pianeta, credo...) è solo poter vivere sulla loro terra, liberi da aggressioni e intimidazioni, per continuare a provvedere a se stessi, utilizzando il territorio e accedendo liberamente all’acqua. È chiedere troppo?
Abbiamo visto come la sapienza di questo antico e pacifico popolo africano, come nel caso della ricerca di nuovi farmaci contro l’obesità, potrebbe essere ancora utile, sempre che essa venga adeguatamente riconosciuta.
Ma al di là di tutto, ciò che fondamentalmente andrebbe riconosciuto è il valore della vita di ciascun individuo e di ciascun popolo che, inserito nel suo ambiente e grazie all’adattamento a questo, può esprimere tutte le potenzialità insite nel suo DNA.
«Quando anche l’ultimo boscimane avrà abbandonato la sua cultura, un’immensa conoscenza sarà andata perduta... Ma soprattutto sarà scomparsa la loro profonda gentilezza» ha scritto Laurens van der Post, scrittore sudafricano che ha passato gran parte della sua vita con i San. Il DNA di questo “popolo gentile” rischia di smettere di lasciare le sue «orme leggere» su questa terra per lasciare spazio agli «uomini pesanti», quelli che calpestano, soffocano e stravolgono la natura.


Bibliografia e siti web

http://www.phytopharm.com/Platforms/MetabolicSyndrome_P57.shtml
Cordis Focus – n. 213, 23-27 gennaio 2003
http://www.heritage-org.com/
http://www.gfbv.it/
http://www.peacelink.it/
http://www.manitese.it/
http://www.survival.it/


Viaggio in Tanzania

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