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PUBBLICITÀ… A CARO PREZZO

Agronomo – Direttore della Rivista online Cultura e Natura - Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. email Autore

 

Una volta le etichette degli abiti erano ben cucite all’interno di essi: oggi ci siamo trasformati in cartelloni pubblicitari, esibendo marche e slogan a volte perfino sulla nostra pelle, con i tatuaggi!
Vi siete mai chiesti perché l’opinione pubblica non dia mai segni di nausea rispetto all’orgia di pubblicità che invade la nostra esistenza quotidiana e che strabocca dai media tradizionali per invadere lo sport, i taxi, le facciate dei palazzi, gli spettacoli, tutto…
All’inizio la pubblicità tese prevalentemente a dare maggiori informazioni al consumatore sull’esistenza di un dato prodotto e sulle sue qualità. Con il passare degli anni gli spot pubblicitari, soprattutto quelli televisivi, hanno mirato, più che ad informare, a spingere l’individuo all’acquisto e a persuaderlo dell’importanza, nella sua vita, del possesso di beni (di consumo o di lusso) e, in particolare, a persuadere i potenziali acquirenti della necessità di comprare solo quel determinato prodotto. In una parola, a manipolare la mente degli esseri umani.
La scelta attenta del contesto, delle situazioni e dei protagonisti della piccola storia narrata costituisce ancora oggi il punto di forza del messaggio pubblicitario. Il consumatore, rapito dalle immagini dello spot, si sente partecipe dell’ambiente e delle situazioni ricreate, descritte o suggerite: acquistando quel determinato prodotto, diventerà protagonista della breve favola narrata sullo schermo.
L’efficienza della pubblicità non viene correlata alle vendite che ha generato, bensì alla valutazione d’impatto e di gradimento che viene attribuita alla pubblicità stessa dalle società che effettuano i sondaggi. Tecnicamente si potrebbe misurare l’incidenza dei costi pubblicitari sul consumo in base alle vendite realizzate. Non è questo il dato che preme agli inserzionisti, che preferiscono di gran lunga affidarsi alla propria strategia di comunicazione piuttosto che misurarsi con i dati del mercato. La pubblicità per loro non mira tanto ad un incremento delle vendite quanto alla diffusione di un’ideologia commerciale di cui è portatrice la marca. L’obiettivo delle cosiddette campagne istituzionali è venderci una certa mentalità piuttosto che un prodotto. Forse non è un caso che il sostantivo inglese “brand” (marca) lo ritroviamo nel verbo “to brand”, che significa “marchiare con un ferro rovente”.
Come scriveva Herbert Marcuse, la pubblicità «ha trasformato i lussi in vere necessità per ogni individuo, uomo o donna; chi non li acquisisce rischia la perdita del proprio status sul mercato competitivo, nel lavoro come nel tempo libero. E ciò, a sua volta, comporta per ciascuno il perpetuarsi di un’esistenza interamente votata a prestazioni alienanti, disumanizzanti, e quindi all’obbligo di ottenere un posto di lavoro che riproduca l’asservimento e il sistema di asservimento».
A questo proposito, Frédéric Beigbeder osserva: «In passato, la libertà d’espressione faceva paura alle dittature, che incarceravano gli scrittori, censuravano la contestazione, bruciavano i libri controversi. (...) Per schiavizzare l’umanità, la pubblicità ha scelto il basso profilo, il piglio morbido, la persuasione. Quello in cui viviamo è il primo sistema di dominio sull’uomo contro il quale anche la libertà è impotente. Anzi, il sistema punta proprio sulla libertà: è la sua più grossa trovata. Ogni critica gli offre un ruolo magnanimo. Ogni attacco rafforza l’illusione della sua melliflua tolleranza. Riesce a sottometterci con eleganza. Il sistema ha così raggiunto il suo scopo: la stessa disobbedienza è diventata una forma di obbedienza».
Tecnica di persuasione, ma al tempo stesso anche veicolo di ideologia, la pubblicità sa adornarsi degli abiti migliori della seduzione e mobilitare ogni risorsa della strategia del desiderio. Con la sua aria gioiosa e il suo simpatico slancio si rende accettabile e persino gradita ai più, al punto da far passare a volte per guastafeste chi cerca semplicemente di ricordare che, sotto le sue apparenze accattivanti, si tratta di pura e semplice propaganda, se non di una vera e propria macchina ideologica al servizio di un modello di società fondata sul capitale, sul mercato, sul commercio e sul consumismo.
La potenza degli investimenti pubblicitari è tale che da essi dipendono interi settori della vita economica, sociale e culturale. Questa è ormai la realtà nei settori dello sport e dei media, e in misura crescente anche nei campi della ricerca e dell’insegnamento, così come in quello della politica, che vi ricorre in maniera massiccia durante le campagne elettorali.
L’ambizione di manipolare le menti fin dentro le case è assurta quasi al livello di una scienza. Le tecniche di persuasione non hanno mai cessato di affinarsi per vincere la barriera del rumore, travalicare le migliaia di sollecitazioni pubblicitarie che ci aggrediscono ogni giorno, sconfiggere la nostra diffidenza e incastonare nella nostra mente un preciso messaggio.
Così non si bada a spese per accaparrarsi gli spazi pubblicitari più accattivanti, per mettere in mostra i propri prodotti, o meglio, il proprio brand.
Sapete quanto costa la messa in onda di uno spot di 30 secondi (dico: 30 secondi!) durante Milan –Inter? 40.000 euro! Trenta secondi nelle gare di motociclismo della categoria MotoGp (quella di Valentino Rossi, per intenderci) sono proposte a 45.000 euro.
Se poi vi piace Bonolis e ciò che propina al pubblico (“a prescindere”: pacchi o calcio non importa), il listino di Canale 5 chiede, sempre per 30 secondi, 85.000 euro. Il prezzo sale a 95.000 euro per la posizione di rigore, ovvero la prima e l’ultima del break pubblicitario, quella con più pubblico, che contempla le persone che, pur avendo l’abitudine di cambiar canale, attendono un attimo prima di praticare lo zapping, e le persone che, in ansia per quanto possa avvenire “in loro assenza”, ritornano con un po’ d’anticipo sulla rete appena abbandonata.
L’attesa spasmodica dell’italiano medio davanti al televisore in attesa delle immagini di sintesi della partita della sua squadra del cuore genera un tale interesse nelle aziende desiderose di pubblicizzare il proprio dentifricio o il pannolino per bambino da spingerle a pagare oltre 60.000 euro per uno spot di 30 secondi.
L’apoteosi dei prezzi ovviamente è raggiunta dagli spettacoli di varietà (leggasi “vanità) più attesi dal telespettatore: la puntata finale de “L’Isola dei Famosi” (120.000 euro per trenta secondi in uno dei 4 break pianificabili fra le 21,25 e le 23,30) oppure quella de “La Talpa” (50.000 euro) o l’attesissimo show di Celentano (135.000 euro per uno spot di 30” in pieno programma).
Molto più a buon mercato la pubblicità nei talkshow più gettonati dalla politica: poco più di 30.000 euro a prezzo di listino, sempre per i fatidici 30 secondi.
Se poi vuoi marchiare la mente del telespettatore in 30 secondi con la pubblicità del tuo adesivo per dentiere durante la serata finale di Miss Italia, c’è un’offerta speciale a 105.000 euro che prevede la ripetizione dello spot nei 4 break previsti a intervalli di trenta minuti fra le 21,30 e le 23,00.
Nei paesi sviluppati si valuta che il martellamento pubblicitario abbia più di 2.500 impatti per persona al giorno. Nel 1999 la televisione francese ha diffuso complessivamente sui suoi canali oltre 500.000 spot... In tali condizioni, questi messaggi hanno scarsissime possibilità di essere percepiti.
Scrive il comico Beppe Grillo tra il serio e il faceto: «Costringere tutti i cittadini, bambini e adulti, a ingurgitare migliaia di messaggi non richiesti è una performance che nessuna teocrazia né alcun regime totalitario erano mai riusciti a realizzare».
Per giunta quando ognuno di noi compra una merce pubblicizzata è costretto a pagare anche quel 5-10% di sovrapprezzo generato da campagne di marketing e di pubblicità spesso inutili, invasive, stupide o offensive.
Un’inchiesta ha confermato che l’85% di tutti i “consigli per gli acquisti” non raggiunge il pubblico al quale è rivolto. Per di più, un terzo del rimanente 15% provoca un effetto contrario a quello voluto (boomerang), per cui solo il 10% dei messaggi ottiene, in linea di principio, un effetto positivo. Ma in capo a 24 ore questa percentuale si riduce al 5% semplicemente perché il pubblico li dimentica. Il tasso di dispersione dei messaggi pubblicitari emessi raggiunge dunque il 95%!
Ma si sa, la pubblicità è l’anima del commercio e, come dicevano gli antichi (pubblicitari?), “gutta cavat lapidem”…

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